Dunque l’arte, cioè la pittura, sopravvive per il fatto che in ogni appartamento, dal più grande e lussuoso al più piccolo e misero, ci sono pareti da riempire, da abbellire.
Stavo in Vespa, un po’ fuori Roma. Superai un ciclista che, in quella strada in salita, arrancava faticosamente. Io mi accostai un momento e gli dissi: «Serve una spinta?». Così, per scherzare, non so come mi venne in mente, forse ero di buonumore. Lui si mise a ridere, disse che in effetti, era una buona idea. Allora ci salutammo e andai avanti. Tornando verso casa lo vedi che veniva in senso contrario. Ci salutammo per un istante.
Ecco, un’amicizia durata qualche secondo, che però in un certo senso durerà in eterno.
Quella volta, invece di andare alla presentazione della rivista letteraria Nuovi Argomenti e incontrare le solite persone, le solite facce, andai a fare una passeggiata e vicino a un cassettone trovai un libro, una vecchissima edizione della Bhagavad Gita. Ecco dove stava la verità, o almeno un tassello di quel mosaico che potremmo chiamare verità, in mezzo all’immondizia. Non mi stupisce affatto.
Le antichissime chiese di Roma dopo il restauro diventano sempre più brutte. Perché la loro bellezza stava, almeno in buona parte, nei colori sfumati, nelle pareti screpolate, cioè nei segni che il tempo aveva lasciato. L’idea sarebbe quella di riportare l’edificio a com’era all’inizio, per rifarlo come nuovo. Così si rovina tutto o quasi tutto. Stessa cosa con le normali case. Le ripuliscono, tolgono i meravigliosi colori imprecisi, sovrapposti, mescolati come il tempo ha voluto, naturalmente, senza il lavoro dell’essere umano che spesso, invece di migliorare, peggiora.