Diario del re del bosco

5 dicembre 2024

 

Non rinuncio alla faccenda della villetta costruita sopra il piccolo teatro dove, molto probabilmente, si svolgeva il duello per la carica sacerdotale di “re del bosco” (rex Nemorensis). Mi informo, leggo articoli, però intanto scrivo questo Diario, facendo finta di niente, come giocando, seguendo ciò che mi dicono le Muse, sempre presenti, spero.

Come è scritto nel secondo verso del capitolo quinto della Bhagavad-gītā:

«La Persona Suprema disse: la rinuncia all’azione e l’azione devozionale conducono entrambe alla liberazione, ma tra le due l’azione devozionale è la migliore».

 

sri-bhagavan uvaca


sannyasah karma-yogas ca


nihsreyasa-karav ubhau


tayos tu karma-sannyasat


karma-yogo visisyate

 

Cioè, bisogna agire senza curarsi di raggiungere l’obiettivo, senza pensare di vincere o perdere qualcosa. Agire senza agire, come guardandosi dall’alto, per fare esperienza innanzitutto del proprio impegno per cambiare una situazione che si ritiene sbagliata, ingiusta.

Per questa ragione pubblico un articolo molto interessante.

La palazzina sul teatro resterà lì per sempre, non prendiamo in giro noi stessi, però almeno sappiamo che non è stabilito per legge che un fatto illegale non rimanga tale e debba essere considerato assolutamente insignificante e ininfluente.

Ecco l’articolo del 20 gennaio 2021:

(www.edilportale.com/news/2021/01/normativa/abusi-edilizi-la-demolizione-e-sempre-legittima-anche-dopo-molti-anni_80582_15.html) 

Abusi edilizi, la demolizione è sempre legittima anche dopo molti anni.
Consiglio di Stato: per l’abbattimento non sono necessarie motivazioni, né il proprietario può chiedere che la sua situazione sia tutelata.

Anche a distanza di molti anni, il Comune può ordinare la demolizione di un abuso edilizio senza dover dare alcuna spiegazione. Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 8501/2021

Abusi edilizi, il caso.

I giudici si sono pronunciati sul ricorso contro il provvedimento di annullamento del permesso di costruire e la contestuale ingiunzione di demolizione delle opere abusive. Sull’area, nel 1954 era stato apposto un vincolo paesistico. Il proprietario aveva quindi presentato richiesto il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica, ottenendole nel 1964.mDalle foto storiche era però emerso che i lavori erano iniziati già nel 1956. Ulteriori indagini avevano anche accertato che il progetto assentito non prevedeva la costruzione del livello interrato.

Nel 2018 il Comune ha quindi annullato d’ufficio il permesso di costruire ed emesso contestualmente un ordine di demolizione, ma il proprietario ha lamentato che non ci fossero delle ragioni di pubblica utilità che motivassero la demolizione a distanza di molti anni.

Abusi edilizi, per la demolizione non serve motivazione.

I giudici del Consiglio di Stato hanno confermato l’ordine di demolizione spiegando che «la demolizione di un immobile abusivo non richiede una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongono la rimozione dell’abuso anche laddove lo stesso sia adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’opera. In materia di abusi edilizi, l’amministrazione pubblica, anche a distanza di tempo, ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato l’esistenza di opere abusive. Il proprietario non può prospettare un legittimo affidamento, cioè non può dolersi dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione abbia emanato il provvedimento».

 

 

 

 

4 dicembre 2024

 

Come le persone al primo incontro lanciano un messaggio chiaro e preciso con la sola presenza fisica, e perciò volto e corporatura e colore dei capelli e vestito indossato ci dicono subito qualcosa del loro modo di essere, così i luoghi ci accolgono con la forma architettonica di una piazza, i colori e la luce del paesaggio, l’ampiezza dell’orizzonte, rivelando qualcosa dietro l’ apparenza stessa; e non è sogno, non è frutto d’ immaginazione quel primo saluto o annuncio che ci manda il luogo che ameremo, inconsciamente condiviso come succede nei “colpi di fulmine”, al primo sguardo. Il lago appare dietro a una curva, giù in fondo al cratere, circondato dal bosco: il sole scalda le foglie degli alberi che sembrano sciogliersi e macchiare l’acqua lievemente increspata, e così il colore verde si mischia all’ azzurro del cielo e al bianco immacolato delle nuvole. Io, che intanto mi sono fermato spegnendo il motore e tirando la Vespa sul cavalletto, dopo il primo impatto con tutta quella bellezza mi rendo conto del grande, incredibile silenzio dopo tutta la confusione sopportata per arrivare fino a lì. A poche decine di metri c’era traffico e gas di scarico e folla e rumori d’ogni tipo ma ora sembra che Genzano sia scomparsa dietro alle mie spalle. Alcuni uccelli volteggiano intorno alla magnifica visione o la tagliano da un punto all’altro in ripide picchiate.

 

 

 

 

 

3 dicembre 2024

 

Le apsara (sanscrito: अप्सरा, apsarā), sono esseri celesti, femminili, che abitano il cielo, le nuvole, le acqua dei fiumi e dei laghi. Sono giovani e belle. Sono meravigliose nel danzare. Sono presenti alla corte di Indra, il dio che risiede a Svargaloka, nel suo palazzo imperiale. Si parla di loro nel grande poema  Mahabharata:

 

«Ghritachi, Menaka , Rambha , Tilottama ,Purvachitti,Swayamprabha, Urvashi , Misrakeshi, Dandagauri, Varuthini, Gopali, Sahajanya, Kumbhayoni, Prajagara, Chitrasena, Chitralekha, Saha e Madhuraswana: questi e migliaia di altri, dotati di occhi come foglie di loto, erano impiegati nell’attirare i cuori di individui che praticavano rigide austerità, e lì danzavano. E possedendo vite sottili e fianchi larghi e belli, iniziarono a eseguire varie evoluzioni, scuotendo i loro seni procaci, e lanciando i loro sguardi intorno, ed esibendo altri atteggiamenti attraenti capaci di rubare i cuori, le risoluzioni e le menti degli spettatori». (Mahabharata , Libro III: Vana Parva , Sezione 43).

 

Le ninfe (in greco antico: νύμφη; in latino: nympha), sono fanciulle che abitano i fiumi, la sorgenti, gli alberi. La più famosa è Egeria, la ninfa del lago di Nemi, sposata al re Numa Pompilio.

 

Le Muse (in greco antico: Μοῦσαι, in latino: Mūsae), sono le divinità che ispirano i poeti, anch’esse fanciulle. Secondo Esiodo abitano il monte Elicona.  Le più famose, secondo lui, sono le seguenti: «Le nove figlie dal grande Zeus generate,/Clio e Euterpe e Talia e Melpomene,/Tersicore e Erato e Polimnia e Urania,/e Calliope, che è la più illustre di tutte» (Teogonia)

 

icchā śaktir umā kumārī

Śivasūtra (I, 13)
 

La volontà è la potenza Umā, Kumārī (Trad. Raffaele Torella)

La volontà, suprema Śakti, è una fanciulla (Trad. Dario Chioli)

La volontà è la stessa potenza Umā-Kumārī (Trad. Nicolò Berzi)

La volontà del praticante, che è in comunione con lo spirito, è rilucente come Kumārī, la luce di Śiva (Trad. Marco Sebastiani)

La fanciulla divina tutto vuole (Trad. r.v.)

 

 

 

 

2 dicembre 2024

 

Sconcertante il finale di quel famoso racconto di Wilhelm Jensen, Gradiva. L’archeologo innamorato pazzo di una immagine che riproduce una specie di dea, di ninfa, decide di andare a Pompei per porre fine alla sua ossessione. Spera che in qualche modo possa svelarsi il mistero della fanciulla, non sa come. Lì a Pompei, al culmine del suo delirio, vede una ragazza che potrebbe essere la sua Gradiva, la sua dea. Invece scopre con grande delusione che è una donna vera, una qualsiasi.

Possibile? Tutto questa storia per incontrare una turista di passaggio? Io mi aspettavo un incontro con Afrodite, a dire poco. L’autore non ha avuto il coraggio di spingersi più in là, nemmeno in un racconto. La sua concezione materialistica glielo ha impedito.

Poveretto. Archiloco ed Esiodo gli avrebbero spiegato che il mondo è pieno di fanciulle divine. Certo, sono pochi i prescelti, i fortunati che le possono incontrare realmente. Infatti, a quanto pare, soltanto loro due lo hanno fatto. Però, dico io, uno scrittore almeno le potrebbe “vedere”, immaginare. Pure nel sogno Jensen è riuscito ad autocensurarsi!

 

 

 

1 dicembre 2024

Dunque arriva Natale, sta arrivano, il rito banale o seriamente inteso sarà lo stesso di ogni anno, seguendo il cerchio ciclico del tempo, che lo costringe a ritornare, ineluttabile, implacabile. La festa dei bambini, certo, si fa per loro, dicono gli adulti, ma gli adulti diventano bambini a loro volta, si travestono da bambini un po’ cresciuti in altezza, così tutti si divertono e trascorrono ore piacevoli in compagnia, per chi ha famiglia. Gli altri possono pure andare a suicidarsi.

Ci sarebbero tante cose da dire ma è meglio non dirle perché altrimenti si dovrebbe parlare pure di Capodanno, Pasqua, Ferragosto eccetera eccetera, di tutte quelle feste comandate micidiali che però è giusto che le persone vivano a loro modo, come fanno appunto quelli che si suicidano non sopportando la solitudine, l’ipocrisia, lo spregevole consumismo, il chiasso, i botti della sera di Capodanno, e poi l’agnellino a Pasqua, ucciso e poi divorato allegramente lungo quelle belle tavolate di mostri carnivori riuniti, parenti, amici, e senza dimenticare il Ferragosto che dovrebbe essere in relazione con una ricorrenza religiosa che non ricordo, ma non fa niente, l’importante è farsi delle belle magnate, «e non ce rompe li cojoni con tutti ‘sti discorsi» direbbe una persona di mia conoscenza, «ogni anno la stessa depressione, tristezza mortale, ma che sei masochista? E facce divertì, che noi lavoramo, mica stamo a fà ‘n cazzo come te, limortacci tua!».

E così trascorre il Natale, il dolce Natale, dolcissimo certo ma dipende pure con chi sei, con chi stai…

Io penso a Giovanni Senzani, tanto per fare un esempio, il capo delle Brigate Rosse che fece rapire e poi uccidere barbaramente Roberto Peci, fratello di Patrizio, militante delle stesse Brigate Rosse che era stato arrestato e aveva fatto i nomi di altri brigatisti, tradendo perciò la buona causa rivoluzionaria. Fu una vendetta trasversale, in puro stile mafioso. Senzani girò personalmente il video dell’uccisione. Quando lo arrestarono, trovarono tra i suoi libri la cassetta con la registrazione. Lui se la teneva nella libreria perché, lo capisco, come non rivedersi ogni tanto una delle cose più belle che un essere umano possa fare? Dopo cena, fumando il sigaro, uno mette la cassetta nel televisore in salotto e si rivede la scena: un uomo indifeso, terrorizzato, che sa di dover morire tra pochi istanti, e poi viene colpito da vari proiettili. Cade sanguinante sul pavimento, il sangue gli esce a fiotti dalla bocca…

Da pochi anni Senzani è diventato nonno. Volete che non festeggi anche lui? Io me lo immagino nonno Giovanni con i suoi adorati nipotini. Che dolcezza… Farà certamente l’albero, e sotto metterà i regali, e poi preparerà con le sue mani il cenone… Tutto ciò è commovente.

Mi è venuto in mente pensando a come le prossime festività possano addolcire ogni cosa… Attenti però a non vomitare.

Conclusione. Due persone molto amabili (che hanno un cane, un pastore maremmano grande come un cavallo, altrettanto amabile, che si chiama Puzzone (un soprannome, il vero nome è Mos), hanno attaccato delle magnifiche luci tutto intorno al giardino sotto la casa dove vivo. Che Dio (se esiste) li benedica! Basta questo a salvarmi, a dimenticare, e ad accettare la vita così com’è. Ma sì, che festeggi pure nonno Senzani. E scurdammoce ‘o passato!

 

 

 

30 novembre 2024

 

Io voglio dare voce a quelli che sono rimasti schiacciati. Ricordo soltanto quei giovani (attori, pittori, scrittori) che dalla provincia erano venuti a Roma (bravi, bravissimi), ma se ne sono dovuti tornare a casa rinunciando ai loro sogni perché non avevano le amicizie “giuste”, che erano troppo ingenui e puliti e indifesi, o forse soltanto non avevano l’ostinazione necessaria per riuscire.

Io sono con tutti quelli che alla fine sono rimasti uccisi, se non fisicamente, interiormente.

Sono rimasto ferito anche io. Alla fine, per me e quei ragazzi, l’importante era esprimersi, comunicare qualcosa di se stessi agli altri, i un cero senso desideravano soltanto amare.

Ora sono meno disponibile. Più chiuso in me stesso, e amo la solitudine. Sono riuscito a seminare amici, parenti… Eppure potrei dire di me, come ha scritto Giacomo Leopardi riguardo a se stesso: «Io sono nato per amare».

 

 

Alcuni pensieri di Ramakrishna, trovati qui e là in varie pubblicazioni e riscritti a mio modo cercando di dare la giusta interpretazione di ciò che intendeva dire questo santo di una religione universale ed eterna.

Ci sono differenti strade che ci conducono a Dio per mezzo della della pratica devozionale, dello studio intellettuale, delle buone opere, della contemplazione… tutte queste strade sembrano differenti in apparenza, invece sono identiche e vanno nella stessa identica direzione.

Voi potete percorrere tutta la terra senza trovare la vera religione della quale sentite l’imperiosa necessità. Essa esiste, ma soltanto per voi, nel fondo del vostro cuore.

Colui che vuole possedere la libertà interiore in questo mondo deve essere intimamente convinto che Dio fa tutto, mentre l’uomo non fa nulla. Bisogna perciò abbandonare i legami interiori, lasciarsi guidare dall’ignoto, dolcemente, sapendo che non decidiamo nulla.

È necessario che ogni uomo sia cristiano per mezzo della pietà, musulmano per mezzo della stretta osservanza dei riti esteriori e induista per mezzo della carità estesa a tutte le creature umane.

29 novembre 2024

 

Piantare un seme nel giardino del Presidente ed aspettare pazientemente che germogli diventando una pianta rigogliosa che cresce, cresce, cresce fino ad arrivare al tetto del Quirinale per cingerlo infine tutto quanto con foglie d’alloro e radici rampicanti. Ma è una pianta allucinogena, molto simile al Peyote, che produce visioni prodigiose. Il Presidente stesso, dopo averla fatta essiccare, la porta in un fagottino alla seduta del Governo, giù a Palazzo Chigi, poco lontano. Tira fuori le cartine e dice: «Adesso fumiamo, amici, e ci facciamo passare la malinconia del non contare in fondo nulla poiché inseriti in un gioco internazionale più grande di noi, essendo diventati noi piccini piccini, povera Italia!». Infatti lo sappiamo tutti come va a finire: i ministri del Governo cantano in coro, ebbri, e almeno per un poco spensierati e felici le canzoni degli alpini e quelle dei marinai e quelle dei metalmeccanici e pure quelle dei regnanti della Thailandia senza dimenticare le canzoni dei minatori del Sudafrica e tantomeno quelle delle mondine della Val Padana e pure quelle delle suocere di Rovigo e le canzoni quasi gridate nei cortei studenteschi da quelli di Potere Operaio e tempo addietro dai socialisti di Pietro Nenni, cioè  all’inizio degli anni Sessanta, quando il Partito Socialista Italiano non era fatto da pappamolle e contava qualcosa, e per finire le canzoni da caserma però da non confondersi, per carità, con quelle delle educande dei collegi svizzeri gestiti dalle suore ovviamente svizzere… e se c’è un poco di confusione in tutto ciò non importa un fico secco perché qualsiasi cosa, compreso il fico secco, potrà servire a far passare ai nostri ministri il senso d’inutilità, la disillusione, la perdita di senso d’ogni cosa presente, passata e futura. Sarà evidente tale condizione psicologica, si vedrà da mille chilometri. (Sono povere persone, in fondo, da compatire, da aiutare, da adottare, da coccolare).

Il ministro della Pubblica Istruzione sale sulla terrazza di Palazzo Chigi, rimane in bilico, piangendo a dirotto.

Un passante, sulla strada, apre l’ombrello per non farsi bagnare dalla pioggia di lacrime, pensando tra sé e sé: «Strano, piove con il sole!».

 

 

 

 

 

28 novembre 2024

 

Dunque il mondo dei libri, della cultura, oggi, che cosa è? Una persona colta, curiosa, che va in cerca, che esplora il mondo intero con il suo PC, che si infila nei siti delle università di ogni Paese, che può avere la traduzione istantanea da lingue che non potrebbe conoscere mai o conoscerle male, tutte le lingue possibili e immaginabili in una frazione secondo con l’applicazione che traduce quasi perfettamente cinese, russo, portoghese brasiliano, afrikaans, albanese, arabo, basco, creolo haitiano, malese, indonesiano, hindi, khmer, eccetera eccetera, una magica applicazione che comunque permette di comprendere il contenuto di ciò che viene pubblicato in internet. Ci sono persone, professori di sanscrito che vanno in Kashmir, trovano in un villaggio un antico manoscritto e lo riportano nella loro università, mettiamo Oxford, nel proprio dipartimento di Studi Orientali, lo traduce e lo mette a disposizione di chiunque. Dunque una persona curiosa e colta può leggere tutto ciò che gli interessa con pochissima difficoltà (certo le cautele ci vogliono, non si può prendere ogni testo come oro colato, bisogna distinguere, valutare e studiare). Poi se vuole può usare la propria stampante per leggerli sulla carta, e magari se li fa rilegare bene e si fa un libro come gli pare e si poi lo legge a letto, a lume di candela, in santa pace.

Perciò le cose sono cambiate. Per quanto riguarda in maniera specifica la cosiddetta letteratura (romanzi, racconti, poesie, saggi critici), i filtri, le mediazioni, le riunioni di redazione, le raccomandazioni, l’ambiente letterario, le amicizie più o meno interessate, non esistono più realmente, quello che rimane è lo strascico di cose antiche. Ci sono, soltanto in Italia, migliaia di case editrici per libri che non si sa chi leggerà, forse gli autori stessi che fondano case editrici per pubblicare i propri testi, e li vendono a persone che hanno fondato altre case editrici per stampare altri testi, e si forma così un sottobosco che prima era provinciale e invece adesso è nazionale, anzi mondiale, perché dappertutto succedere la stessa cosa. Cambiano le dimensioni della cosa, ma rimane la stessa. se uno legge (ovviamente in internet) riviste letterarie americane, come ad esempio  la Literary Hub, vede che anche lì c’è un giro di libri impressionante. Ma lì è gigantesco, perché riguarda gli interi Stati Uniti, e ci sono recensioni, editori, polemiche su romanzi e racconti e poesie che saranno letti da milioni di persone, o forse centinaia, o forse pochissime, perché le persone veramente interessate a un libro saranno poche decine, le altre leggono superficialmente, per noia, per compiacere l’amico o l’amico. E poi dipartimenti di letteratura delle università di tutti gli stati americani, professori romanzieri del New Hampshire,  poeti appena premiati alla fine del corso di scrittura creativa della Pennsylvania, veramente “maledetti”, che si drogano di notte ma sono sempre stati puntuali alle lezioni dello scrittore pluripremiato, Paul Beatty, abbastanza famoso, però più in New Jersey che in Pennsylvania perché lì uscì a suo tempo un romanzo di mille pagine pubblicato da una casa editrice abbastanza importante e lui infatti andò pure in televisione alla CBS per essere intervistato da Irving Babbitt, critico letterario, romanziere, poeta con cattedra all’università di Sacramento, in California.

Dunque un caos indescrivibile, irrimediabile. Poveri noi. E povera la mia piccola dea, sommersa da questa montagna di libri. Che fine farà quando non ci sarà più io a difenderla, a custodirla? Un giorno un critico la ritroverà nel ripostiglio di casa sua, il volumetto pubblicato a mie spese, tutta impolverata, la leggerà e ci scriverà sopra un saggio critico, un editore importante (una sigla di un gruppo editoriale, diciamo l’Einaudi del Gruppo Mondadori) la pubblicherà, sarà un grande successo e i miei parenti si beccheranno un sacco di soldi. Oppure, più probabilmente, resterà nel ripostiglio.

Però alla fine sarà stampato, tra un po’ di tempo, a cura del tempio dedicato a Śiva, a Katmandu in Nepal, dove potrà essere acquistato, o forse ancora meglio sul pianeta Swargaloka, o chissà, su Vaikuntha, o magari Kailasha.

 

 

 

 

 

27 novembre 2024

 

Mentre torno a casa, prima d’infilarmi nel portone, mi scanso per dare la precedenza a due signore anziane che stanno entrando in quello stesso momento. Perciò ascolto ciò che stanno dicendo. Anzi è una sola che parla. Dice all’altra: «Ma tu non hai capito! La besciamella la devi mette sotto, e sinnò la lasagnetta non te viene bene!».

Questo fatto della besciamella ha ristabilito tutto, ha rimesso a posto l’intero universo che mi sembrava fuori quadro. Imminenti guerre nucleari, crisi economica, sociale, politica, omicidi, stragi, malattie, disperazione, depressione, psicosi. Tutto azzerato. C’è qualcosa che è inspiegabile. Il fatto pure e semplice che due signore pensino alla besciamella dentro questo bordello a cielo aperto che è il mondo e specialmente l’Italia, vuol dire che, se ci pensano, nulla di grave sta accadendo e tutto scorre come al solito. Il Male trionfa, continuerà a trionfare, come sempre, ma la besciamella conserverà per quelle due signore e per me e per tutti e per l’universo intero un punto di riferimento che nulla potrà cancellare. Se esiste la besciamella da mettere nel forno sotto la lasagna, allora possiamo essere salvi, e non c’è nulla d’importante che dobbiamo fare e pensare e tantomeno scrivere.

 

 

La stupidità di certi editori, o meglio, lo stupido ostinarsi a vendere i libri usando i metodi peggiori. Nell’ultima edizione del Tropico del Capricorno di Henry Miller hanno messo in copertina due bei capezzoli sotto il titolo per dare l’idea che l’autore parla di sesso e dunque lo si può comprare almeno per curiosità. È un inganno, perché Miller usa il sesso come lo usava Moravia, come chiavistello per tirare fuori un poco di verità dal fondo della realtà cosiddetta. È un equivoco, questo di Miller e del sesso, in cui sono caduti tanti lettori più superficiali, e anche critici. Alla Feltrinelli non sono così ignoranti, ma impongono i capezzoli per racimolare qualche lettore in più.

Dunque rettifico: non sono stupidi quelli della Feltrinelli, sono dei paraculi furboni, ma un po’ sempliciotti, in fondo, perché quel meraviglioso libro si potrebbe vendere in mille altri modi.

 

 

 

 Il ritorno

Non alla casa, al castro, al campo

di battaglia ritorno – ai fragori e agli affronti

d’una guerra che si combatte ogni giorno

per le strade e tra le mie stesse

mura – aperte precarie non più riparate:

spalancata, clamorosa clausura!

Dentro o fuori, è guerra – oh mia camera

di tortura: strepiti spari e spurie

voci umane, asme infiammate, smanie:

è il quartier generale delle Furie…

Questo è il nostro asilo, mia solitaria

musa amante del silenzio e dell’ombra,

dovremo starcene qui, sotto tiro,

come all’aperto, esposti a tutti i colpi,

al crocevia degli schianti e degli scoppi.

 

(Gianfranco Palmery)

 

 

 

 

 

 

 

 

26 novembre 2024

 

(Ritrovato in un quadernetto di qualche anno fa).

 

Come una coppa di champagne, frizzante, così ti voglio, mamma!

Perché trascini i piedi sul pavimento lungo il corridoio tra la camera da letto e la cucina come uno zombi? Perché mi dici con voce lamentosa che sei stanca di prepararmi il pranzo e pure la cena e che hai dolori dappertutto e che ti piacerebbe morire? Perché ripeti ossessivamente che la vita è sofferenza e nient’altro che sofferenza e quando ti siedi in poltrona con una specie di rantolo dici: «Sia stramaledetta ogni nascita su questo pianeta infame»?

D’accordo, d’accordo, ti rispondo, tra non molto ci ritroveremo vicini nella tomba di famiglia al cimitero di Prima Porta e lì resteremo a putrefarci in un eterno riposo… Ah, è vero, mi hanno sfrattato dalla tomba di famiglia, per questioni burocratiche, me n’ero dimenticato. Però noi due, poco dopo, ci ritroveremo altrove. Le nostre anime, abbandonato il corpo (il tuo era stato bellissimo, e il viso, e la meravigliosa bocca di quando eri ragazza) abiteranno un pianeta superiore (la terra è un pianeta mediano, tra cielo e inferno), che si chiama Brahmaloka, una specie di paradiso, dimora del dio Brhama, situato a 60.000.000 di miglia sopra il Prajapatiloka, che non è male ma certo è meglio il Brahmaloka. Così dicono le scritture sacre indiane. Lì c’è un palazzo meraviglioso che è la dimora del dio, un edificio denominato Brahmapura. Ti piacerà tanto, mamma. Un lusso inaudito. Oro dappertutto, argento… E poi quei giardini che hai sempre sognato, puliti e ordinati, pieni di alberi e piante fiorite e animali mansueti, anche elefanti e tigri, che si fanno accarezzare. Non posso esserne sicuro, ma forse lì incontrerai la persona che più hai amato nella tua vita. Per lui, a causa di un terribile incidente, hai provato una sofferenza indicibile, inverosimile. E poi ci sarà papà mio, e i tuoi genitori e le tue compagne di scuola, insomma un sacco di persone che festeggeranno il tuo arrivo. Festeggeranno anche me, ovviamente, ma un po’ di meno. Sarai tu la ragazza portata in trionfo su un carro costruito appositamente… Sì, una ragazza, perché così ridiventerai. E sennò che pianeta/paradiso sarebbe? Ovviamente potremmo capitare invece sullo Svargaloka, dove ci sono tutti i Deva, cioè gli Dei, gli esseri di luce, le anime illuminate eccetara eccetera, ma non penso si finisca in quel posto, ho delle informazioni precise a riguardo. Non posso dire ovviamente chi me le ha fornite, queste sono cose segretissime. Se vengono rivelate al popolo, sai che casino? Traffico automobilistico, televisioni, interviste, file chilometriche per mangiare alla mensa degli Dei… Sai, lo Svargaloka è così, appena apri una porticina, arrivano in massa e addio tranquillità paradisiaca. Tu andrai ancora più in alto, e sperimenterai, incontrando quella persona di cui dicevo, una gioia così forte che annullerà tutto l’orrore vissuto, e questa gioia durerà cento anni, poi altri cento anni, e poi mille anni, e poi ancora mille anni… Alla fine starai stanca di questa felicità e chiederai di tornare sulla Terra, per reincarnarti, per riprovare a vivere… che può essere anche divertente, dipende.

Dunque, dài, stamattina dobbiamo stare allegri e contenti almeno per un poco. Smetti di piangere, non ti lamentare, mamma! Ti voglio frizzante come una coppa di champagne!

 

 

25 novembre 2024

 

«Dopo aver camminato mezza giornata arrivarono a una citta che aveva nome «Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strda popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta che chiedevano l’elemosina di un chicco di granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano vendute le loto bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillante penne d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre.

In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina».

 

 

Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. XVIII (epigrafe del libro di Ernesto Rossi intitolato Borse e borsaioli, Laterza1961).

 

 

24 novembre 2024

«Come delle Ninfe, così anche delle Muse si dice che afferrino i mortali, con la differenza che, mentre coloro che sono afferrati dalle Ninfe (νυμφóληπηπτοι) corrono il pericolo di perdere la ragione, la follia che viene dalle Muse  (ἀπò Μουσν  κατοκωχτε καì μανία , Plat. Phaidr. 245 a) comporta l’elevazione e l’illuminazione dello spirito, nelle quali diviene possibile il miracolo del canto e della poesia. Colui che è afferrato dalle Muse (μουσóληπτος) è il vero poeta, contrapposto al banale versificatore (Plut. De virt. mor. 12)».

Walter Friedrich Otto, Le muse e l’origine divina della parola e del canto. Fazi Editore. Traduzione dal tedesco di Susanna Mati.

 

 

«Furono loro che una volta a Esiodo insegnarono l’arte del canto bello,

mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone;

questo discorso, per primo, rivolsero le dee,

le Muse d’Olimpo, figlie di Zeus egìoco:

“O pastori, che avete i campi per casa, obbrobrio, solo ventre;

noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero,

ma sappiamo, quando vogliamo, cose vere cantare“.

Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare,

e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito,

dopo averlo staccato, meraviglioso: e mi ispirarono il canto,

divino» (…).

 

αἵ νύ ποθ’ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, ἄρνας ποιµαίνονθ’ Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο. τόνδε δέ µε πρώτιστα θεαὶ πρὸς µῦθον ἔειπον, 25 Μοῦσαι Ὀλυµπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο·    “ποιµένες ἄγραυλοι, κάκ’ ἐλέγχεα, γαστέρες οἶον, ἴδµεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύµοισιν ὁµοῖα, ἴδµεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωµεν ἀληθέα γηρύσασθαι.”    ὣς ἔφασαν κοῦραι µεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι, 30 καί µοι σκῆπτρον ἔδον δάφνης ἐριθηλέος ὄζον δρέψασαι, θηητόν· ἐνέπνευσαν δέ µοι αὐδὴν θέσπιν, ἵνα κλείοιµι τά τ’ ἐσσόµενα πρό τ’ ἐόντα, καί µ’ ἐκέλονθ’ ὑµνεῖν µακάρων γένος αἰὲν ἐόντων, σφᾶς δ’ αὐτὰς πρῶτόν τε καὶ ὕστατον αἰὲν ἀείδειν.

 

Esiodo, Teogonia, Einaudi. Traduzione di Graziano Arrighetti.

 

 

23 novembre 2024

 

Le nere scale della mia caverna

tu discendi tutto intriso di vento.

I bei capelli caduti tu hai

sugli occhi vivi in un mio firmamento remoto.

 

Nella fumosa taverna

ora è l’odore del porto e del vento.

Libero vento che modella i corpi

e muove il passo ai bianchi marinai.

(Sandro Penna)

 

 

IL POETA ARCHILOCO E LE MUSE

L’iscrizione di Mnesiepes dall’Archilocheion di Paro

La nota iscrizione, risalente al III secolo a.C. e conservata su due blocchi marmorei non combacianti, testimonia l’esistenza, a Paro, di un’area sacra dedicata ad Archiloco. Tale Ἀρχιλοχείον, istituito da un privato cittadino di nome Mnesiepes con il consenso del santuario di Delfi e della comunità locale, era delimitato da un τέμενος e ospitava almeno due altari. Il testo dell’epigrafe, oltre a riferire alcuni dettagli per l’osservanza del culto, riporta diversi oracoli e parte di un inedito racconto sulla vita del poeta, la cui figura viene esaltata anche tramite la diretta citazione dei suoi versi.

Blocco A (= E1 Kontoleon) Colonna 1: […] e quando […] dei Parii […] (?) Colonna 2: (l. 1) A Mnesiepe il dio profetizzò che sarebbe stato appropriato e opportuno, nel temenos che egli si appresta a costruire, erigere un altare, e sacrificare su di esso alle Muse, ad Apollo Musegete e a Mnemosyne. E anche fare sacrifici e destinare favorevoli offerte a Zeus Hyperdexios, ad Atena Hyperdexia, a Poseidone Asphaleios, a Eracle e ad Artemide Eukleia. Poi, inviare a Pito sacrifici di ringraziamento diretti ad Apollo. A Mnesiepe il dio profetizzò che sarebbe stato appropriato e opportuno, nel temenos che egli si appresta a costruire, (l. 10) erigere un altare, e sacrificare su di esso a Dioniso, alle Ninfe e alle Ore. E anche fare sacrifici e destinare favorevoli offerte ad Apollo Prostaterios, a Poseidone Asphaleios e a Eracle. Poi, inviare a Pito sacrifici di ringraziamento diretti ad Apollo. A Mnesiepe il dio profetizzò che sarebbe stato appropriato e opportuno rendere onore al poeta Archiloco, nel modo che egli aveva pianificato. Poiché Apollo profetizzò tali cose, noi chiamiamo questo luogo Archilocheion, ed erigiamo gli altari e sacrifichiamo agli dei e ad Archiloco, e gli rendiamo onore, nel modo in cui il dio ci ha prescritto. (l. 20) A proposito di ciò che abbiamo voluto mettere per iscritto, alcune cose ci sono state tramandate dagli antichi, mentre per altre abbiamo provveduto noi. Dicono, infatti, che quando Archiloco era ancora giovane, fu mandato dal padre Telesicle in campagna, nella contrada chiamata Leimones, perché riportasse una vacca da vendere, e ripartì a notte tarda, mentre ancora splendeva la luna, per condurre la vacca in città. Quando fu nel luogo detto Lissides, gli sembrò di vedere uno stuolo di donne: pensò che tornassero in città dai lavori, (l. 30) e si avvicinò per canzonarle, ma queste lo accolsero con scherzi e risa, e gli domandarono se aveva intenzione di vendere la vacca. Quand’egli disse che era così, quelle risposero che gli avrebbero pagato un prezzo appropriato. E non appena ebbero pronunciato queste parole, sia loro che la vacca svanirono, ed egli vide ai suoi piedi una lira. Ne fu sbalordito, ma dopo un po’, avendoci riflettuto su, comprese che quelle che gli erano apparse e che gli avevano donato la lira, erano le Muse. (…)

 

Μνησιέπει ὁ θεὸς ἔχρησε λῶιον καὶ ἄμεινον εἶμεν ἐν τῶι τεμένει, ὃ κατασκευάζει, ἱδρυσαμένωι βωμὸν καὶ θύοντι ἐπὶ τούτου Μούσαις καὶ Ἀπόλλ[ω]ν[ι] Μουσαγέται καὶ Μνημοσύνει· θύειν δὲ καὶ καλλι= ερεῖν Διὶ Ὑπερδεξίωι, Ἀθάναι Ὑπερδεξίαι, 5 Ποσειδῶνι Ἀσφαλείωι, Ἡρακλεῖ, Ἀρτέμιδι Εὐκλείαι. Πυθῶδε τῶι Ἀπόλλωνι σωτήρια πέμπειν ⁝ ̅Μνησιέπει ὁ θεὸς ἔχρησε λῶιον καὶ ἄμεινον εἶμεν ἐν τῶι τεμένει, ὃ κατασκευάζει, ἱδρυσαμένωι βωμὸν καὶ θύοντι ἐπί τούτου Διονύσωι καὶ Νύμφαις 10 καὶ Ὥραις· θύειν δὲ καὶ καλλιερεῖν Ἀπόλλωνι Προστατηρίωι, Ποσειδῶνι Ἀσφαλείωι, Ἡρακλεῖ. Πυθῶδε τῶι Ἀπόλλωνι σωτήρια πέμπειν [⁝] ̅Μνησιέπει ὁ θεός ἔχρησε λῶιον καὶ ἄμεινον εἶμεν [τι]μῶντι Ἀρχίλοχον τὸμ ποιητάν, καθ’ ἃ ἐπινοεῖ ⁝ 15 Χρήσαντος δὲ τοῦ Ἀπόλλωνος ταῦτα τόν τε τόπον καλοῦμεν Ἀρχιλόχειον καὶ τοὺς βωμοὺς ἱδρύμεθα καὶ θύομεν καὶ τοῖς θεοῖς καὶ Ἀρχιλόχωι καὶ τιμῶμεν αὐτόν, καθ’ ἃ ὁ θεὸς ἐθέσπισεν ἡμῖν. [Π]ερὶ δὲ ὧν ἠβουλήθημεν ἀναγράψαι, τάδε παρα= 20 [δ]έδοταί τε ἡμῖν ὑπὸ τῶν ἀρχαίων καὶ αὐτοὶ πεπρα= [γ]ματεύμεθα ⁝ Λέγουσι γὰρ Ἀρχίλοχον ἔτι νεώτερον ὄντα πεμφθέντα ὑπὸ τοῦ πατρὸς Τελεσικλέους [εἰ]ς ἀγρόν, εἰς τὸν δῆμον, ὃς καλεῖται Λειμῶνες, [ὥ]στε βοῦν καταγαγεῖν εἰς πρᾶσιν, ἀναστάντα 25 [π]ρωΐτερον τῆς νυκτός, σελήνης λαμπούσης, [ἄ]γειν τὴμ βοῦν εἰς πόλιν· ὡς δ’ ἐγένετο κατὰ τὸν [τ]όπον, ὃς καλεῖται Λισσίδες, δόξαι γυναῖκας [ἰ]δεῖν ἀθρόας· νομίσαντα δ’ ἀπὸ τῶν ἔργων ἀπιέναι αὐτὰς εἰς πόλιν προσελθόντα σκώπτειν, τὰς δὲ 30 δέξασθαι αὐτὸν μετὰ παιδιᾶς και γέλωτος καὶ [ἐ]περωτῆσαι, εἰ πωλήσων ἄγει τὴμ βοῦν· φήσαντος δέ [εἰ]πεῖν ὅτι αὐταὶ δώσουσιν αὐτῶι τιμὴν ἀξίαν· [ ῥη]θέντων δὲ τούτων αὐτὰς μὲν οὐδὲ τὴμ βοῦν οὐκέτι [φ]ανερὰς εἶναι, πρὸ τῶν ποδῶν δὲ λὺραν ὁρᾶν αὐτόν· 35 καταπλαγέντα δὲ καὶ μετά τινα χρόνον ἔννουν [γ]ενόμενον ὑπολαβεῖν τὰς Μούσας εἶναι τὰς φανείσας [καὶ] τὴν λύραν αὐτῶι δωρησαμένας· καὶ ἀνελό=

[με]νον αὐτὴν πορεύεσθαι εἰς πόλιν καὶ τῶι πατρὶ [τὰ] γενόμενα δηλῶσαι ⁝ Τὸν δὲ Τελεσικλῆν ἀκού= 40 [σα]ντα καὶ τὴν λύραν ἰδόντα θαυμάσαι· καὶ πρῶτομ [μὲ]ν ζήτησιν ποιήσασθαι τῆς βοὸς κατὰ πᾶσαν [τ]ὴν νῆσον καὶ οὐ δύνασθαι εὑρεῖν ⁝ Ἒπειθ’ ὑπὸ τῶν [πο]λιτῶν θεοπρόπον εἰς Δελφοὺς εἱρημένον μετὰ [Λυ]κάμβου χρησόμενον ὑπὲρ τῆς πόλεως προθυμό= 45 [τ]ερον ἀποδημῆσαι, βουλόμενον καὶ περὶ τῶν [α]ὐτοῖς συμβεβηκότων πυθέσθαι ⁝ Ἀφικομένων δὲ [καὶ] εἰσιόντων αὐτῶν εἰς τὸ μαντεῖον τὸν θεὸν [εἰ]πεῖν Τελεσικλεῖ τὸν χρησμὸν τόνδε· [Ἀ]θάνατός σοι παῖς καὶ ἀοίδιμος, ὦ Τελεσίκλεις, 50 ἔσται ἐν ἀνθρώποισιν, ὃς ἂμ πρῶτός σε προσείπει [ν]ηὸς ἀποθρώισκοντα φίλην εἰς πατρίδα γαῖαν. Παραγενομένων δ’ αὐτῶν εἰς Πάρον τοῖς Ἀρτε= μισίοις πρῶτον τῶν παίδων Ἀρχίλοχον ἁπαν= τήσαντα προσειπεῖν τὸμ πατέρα· καὶ ὡς ἦλθον 55 οἴκαδε, ἐρωτήσαντος τοῦ Τελεσικλέους, εἴ τι τῶν ἀνανκαίων ὑπάρχει, ὡς ἂν ὀψὲ τῆς ἡμέρας

(a cura di Matteo Rivoli)

 

 

«Per la legge del vero e della visione».

Iśa Upaniṣad

 

 

 

 

22 novembre 2024

 

Mi è arrivata questa email, non del tutto inattesa: «Dopo una lunga battaglia, durata non meno di dieci anni, è stato firmato il nuovo contratto dei portieri italiani che stabilisce per questa importante categoria di lavoratori una forte riduzione dell’orario di lavoro. Tutto il merito, è giusto sottolinearlo, va all’API (Associazione Portieri Italiani), federata alla CGIL. Un tuo commento, per cortesia».

Per rispondere a tale quesito non ci potrebbe essere una persona più adatta del sottoscritto. Non pochi sono a conoscenza del fatto che io sia tra i soci fondatori della benemerita associazione sindacale che tanto ha dato a questi lavoratori italiani, cioè l’API, che inizialmente si chiamava AAPI (Associazione Autonoma Portieri Italiani) e che dopo la scissione, avvenuta a Livorno nel 1953, si divise in due organizzazioni distinte così denominate: SPPI (Sindacato Patriottico Portieri Italiani) e FSPTI (Federazione Sindacale Portieri Troskisti Italiani) fino alla riunificazione del congresso a Reggio Calabria nel 1967. Insieme ad Aristide Giovannelli, Mariolino Bocciacasa e al non dimenticato Salvatore Padellaro, decisi nel lontano 1947 di cominciare quella lunga battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro che si è conclusa oggi con questa grande, grandissima vittoria. Possiamo dire a questo punto che lo scopo che ci eravamo prefissati (da otto ore di lavoro a sei e mezza) è stato pienamente raggiunto.

Ma voi, domando io, conoscete davvero la vita dei portieri, avete mai veramente considerato quali sono le problematiche legate alle mansioni da essi svolte?

Alzarsi molto presto di mattina ed aprire il portone del palazzo. Tutti i santi giorni, esclusa la domenica. Aprire e chiudere, aprire e chiudere, aprire e chiudere… ed aspettare che venga il postino e la pausa pranzo e il momento giusto per pulire le scale e sostare per ore o ore in una guardiola spesso fredda d’inverno o troppo calda d’estate fino a sera, quando finalmente si chiude il fatidico portone e la propria noiosa giornata trascorsa a dire le solite cose, seduti in quella opprimente guardiola, del tipo: «Buonasera signora, buonasera signore», oppure: «Scusi, lei da chi va?», ma anche: «La professoressa Bonsanti è in vacanza, lasci pure il pacco a me», e firmare le raccomandate, e innaffiare i fiori nel cortile, e riparare il citofono… Ma soprattutto: aprire e chiudere, aprire e chiudere, aprire e chiudere fino al giorno del Giudizio.

Diventa un’ossessione. Te lo sogni la notte mentre ronfi e ti giri e ti rigiri fra le lenzuola. Aprire e chiudere, aprire e chiudere, aprire e chiudere…

Ma non solo in questo consiste il nostro lavoro: è molto importante che la serratura del portone che dobbiamo aprire e chiudere sia perfettamente funzionante. Perché al condomino, a qualsiasi condomino, fa piacere uscire di casa ad ogni ora del giorno e della notte con la sicurezza di poter rientrare (anche se di certezza assoluta non si può e non si potrà mai parlare, come vedremo). Se infatti dopo cena a uno gli va di uscire, può dire tranquillamente: «Ciao, io esco di casa, vi saluto» essendo certo di poter trovare il portone aperto quando esce e poi di ritrovarlo chiuso con la serratura perfettamente funzionante anche alle tre o quattro di notte mentre magari piove e fa freddo… ma soltanto se in quel condominio è stato assunto un portiere, un vero portiere. A tutti infatti piace uscire dal proprio accogliente appartamento e ritrovarsi davanti al portone di casa per inserire con ingenua e sacrosanta sicurezza la chiave nella serratura in maniera da assaporare finalmente le gioie e i piaceri e le comodità del focolare domestico e starsene buoni buoni al calduccio sotto le coltri di lana vergine o comunque abbastanza vergine senza rischiare di restare lì intrappolati come fessi magari sotto la pioggia e il vento in piena notte a provare e riprovare bestemmiando a far girare la chiave rimasta incastrata nella serratura mal funzionante o addirittura completamente guasta. Eh sì, a tutti piace vivere serenamente e beatamente, ma questa serenità e beatitudine può permettersela soltanto chi è così ragionevole e previdente da vivere in un condominio con le carte in regola avendo assunto un portiere stipendiato per sei ore e mezza di lavoro anziché le otto ore di una volta. Altrimenti sapreste dirmi voi come la prenderebbe il condomino sprovveduto e imprevidente trovando il portone di casa con la serratura del portone scassata e con la stramaledetta chiave che non gira e non si rigira né di qua né di là rimanendo perciò l’intera notte al freddo e sotto la pioggia e al vento e forse addirittura la grandine?

Oh davvero non saprei immaginare cosa potrebbe passare per la testa di un condomino sprovveduto e imprevidente rimasto come un baccalà davanti al portone di casa sua con la chiave infilata nella serratura che nessuno, evidentemente, ha potuto oliare o ingrassare adeguatamente per renderla perfettamente funzionante sia di giorno che di notte facendo in effetti cosa semplicissima eppure terribilmente utile, specialmente in certi frangenti: soltanto un portiere potrebbe evitare una situazione incresciosa del genere, e non sto parlando del più grande portiere del mondo, oh no, ma di un qualsiasi portiere minimamente preparato e corretto.

Invece sì che lo so cosa penserebbe lo sfortunatissimo condominio, lo so benissimo. Penserebbe questo, riparandosi per quanto possibile sotto la piaggia e il vento: «In tali memorabili momenti mi rendo finalmente conto di quanto sia importante avere un degno portiere nel palazzo dove si abita: perché un portiere, un bravo portiere, un bravissimo portiere sarebbe capace di prevedere certi spiacevolissimi inconvenienti avendo il compito sì di aprire e chiudere il portone ma anche di tenere ben oliate e funzionanti la serratura affinché i condomini possano uscire di casa e poi ritornare tranquillamente per godere del meritato riposo». Questo direbbe fra sé e sé il condomino imprevidente se trovasse non soltanto chiuso il portone a notte fonda, che è cosa del tutto normale, ma anche una serratura indubitabilmente e irrimediabilmente guasta, e tutto ciò stando in balia degli elementi. E poi aggiungerebbe: «Certamente non mi arrabbierò, non mi incavolerò come una bestia, non alzerò i pugni al Cielo per il fatto di stare qui come un autentico imbecille davanti al portone di casa, oh no, non mi lamenterò più di tanto per la spiacevole contingenza poiché proprio questo accade a chi è stato così sciocco e imprevidente da vivere in uno stabile senza un vero portiere stipendiato adeguatamente per aprire e chiudere l’uscio di casa e tenere altresì perfettamente oliate e funzionanti  le serrature del portone».

Trascorrerebbe il tempo di una lunghissima notte. Io lo vedo come fosse qui davanti ai miei occhi il nostro povero condomino irresponsabile e incredibilmente incauto, distrutto da una notte di pioggia e di freddo passata sul marciapiede davanti al portone chiuso sprangato, chiusissimo di casa sua.

Poi, le prime luci dell’alba. Un uccello canta. La città si sveglia. Tutto è molto poetico. Le prime persone si recano al lavoro…

Nessuno penserebbe a quel povero disgraziato fradicio di pioggia in piedi davanti ad un portone. Cosa potrebbe pensare un poveruomo spaurito e fradicio e infreddolito dopo una nottataccia del genere?

«Dopo una notte così» ecco cosa direbbe a se stesso il condomino, «io senz’altro devo rimproverarmi per non aver pensato a convocare tempestivamente le noiosissime riunioni di condominio con lo scopo di assumere un autentico e professionale portiere che avrebbe aperto e chiuso questo portone del cavolo ed oliato meravigliosamente la serratura dello stesso onde evitare di ritrovarsi con la chiave incastrata nella serratura eccetera eccetera. Sì certo, è verissimo, certe orribili cose non succederebbero se ci fosse qui un portiere, un bravo portiere, anzi il migliore portiere di questo mondo e dell’universo intero comprese le galassie più lontane come ad esempio Proxima Centauri. Oh già, senza alcun dubbio, nulla di terribile accadrebbe se ci fosse qui un portiere ligio al dovere – cioè capace indefessamente di aprire e chiudere, aprire e chiudere, aprire e chiudere… poiché questo fanno i portieri oltre che tenere ben oliate e funzionanti le serrature dei portoni – e tutto ciò all’interno del suo orario di lavoro ormai ridotto, molto ridotto direi, incredibilmente ridotto, come tutti sanno per l’importante iniziativa che ha visto l’API (Associazione Portieri Italiani) battagliare e primeggiare e finalmente giungere al risultato che tutti i portieri italiani auspicavano e cioè la riduzione dell’orario di lavoro da otto ore a sei ore e mezzo. Un portiere con una professionalità e una serietà quasi leggendarie, ecco cosa ci vorrebbe. «Nessuno come lui apre e chiude il portone» direbbero tutti, «e non parliamo poi di come olia e ingrassa le serrature».

E dopo aver ripreso fiato, così continuerebbe il nostro caro condomino infreddolito ed esausto dopo una lunga notte trascorsa davanti al proprio invalicabile uscio di casa: «Eppure… eppure bisogna ammettere che nemmeno il portiere più bravo del mondo potrebbe evitare l’imponderabile: anche se le serrature fossero le più oliate e perfettamente funzionanti del mondo, nulla potrebbe salvare noi condomini dalla remota ma reale eventualità di una serratura guasta improvvisamente per usura o addirittura per un difetto di fabbricazione anche se appena montata. Si potrebbe cioè verificarsi il mostruoso caso di una chiave che rimane incastrata costringendo un qualsiasi condominio a restare sotto la pioggia e il vento e al freddo, e tutto ciò per colpa di nessuno, né del condomino prudentissimo ma sfortunato né del bravissimo ma non onnipotente portiere. Perciò a quel punto egli resterebbe fuori di casa tutta la notte, inizialmente incazzato da morire e quasi piangente per la rabbia ma poi, alle prime luci dell’alba, finalmente consapevole che in fondo tutto va come deve andare – la pioggia, il freddo, la chiave incastrata, il portiere dormiente e sognante al calduccio sotto la coltre di coperte di lana vergine o comunque abbastanza vergine ed ignaro del dramma che si sta svolgendo in quel preciso fuori dal portone – ed anzi riderebbe di gusto tra sé e sé considerando la beffa di tanta inutile accortezza, davvero persuaso che è inutile affannarsi tanto nella vita. Tutto procede fatalmente, penserebbe l’incolpevole ma infreddolito condomino, ed ogni cosa o persona partecipa pacatamente o affannosamente alla vita misteriosa del Cosmo che, pur caotico e apparentemente assurdo e privo di senso, pare talvolta  profondamente ordinato e pieno di significato, in quei pochi istanti di illuminazione, di rivelazione che i buddisti giapponesi chiamano satori».

Diceva Aristide Giovannelli: «Otto ore, sei ore… Non importa, in fondo, quanto si lavori. Noi portieri sentiamo di dover fare il nostro dovere. Poi, sì certo, c’è il Caso, o forse il Fato, che ha pieno potere su tutti, sia sui condomini previdenti sia su quelli imprevidenti. L’importante è aprire e chiudere con convinzione, sapendo che è questa la cosa più importante che noi portieri possiamo fare (a parte ungere le serrature per renderle perfettamente funzionanti anche se non perfettamente funzionanti in assoluto, come tutti prima o poi capiscono). Bisogna svolgere le nostre funzioni con piacere, non soltanto per senso del dovere: eh sì, perché noi portieri abbiamo sempre provato anche un certo strano piacere ad aprire e chiudere, e certamente continueremo a farlo, finché avremo forze. Sì, sì, sì, aprire e chiudere, aprire e chiudere, aprire e chiudere…». Questo diceva il caro, indimenticabile Aristide Giovannelli a Caserta, durante il quarto congresso nazionale dell’API.

Non dimenticheremo queste parole.

 

 

 

21 novembre 2024

BOMBA

Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe. nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.

 

Budger of history Brake of time You Bomb
Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you
Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass
The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe
Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone
Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart
And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling
Bomb you are as cruel as man makes you and you’re no crueller than cancer
All Man hates you they’d rather die by car-crash lightning drowning
Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb
They’d rather die by anything but you Death’s finger is free-lance
Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its
categorical blue I sing thee Bomb Death’s extravagance Death’s jubilee
Gem of Death’s supremest blue The flyer will crash his death will differ
with the climbor who’ll fall to die by cobra is not to die by bad pork
Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night
O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff
No-feeling deaths like birth-death sadless deaths like old pain Bowery
Abandoned deaths like Capital Punishment stately deaths like senators
And unthinkable deaths like Harpo Marx girls on Vogue covers my own
I do not know just how horrible Bombdeath is I can only imagine
Yet no other death I know has so laughable a preview I scope
a city New York City streaming starkeyed subway shelter
Scores and scores A fumble of humanity High heels bend
Hats whelming away Youth forgetting their combs
Ladies not knowing what to do with their shopping bags
Unperturbed gum machines Yet dangerous 3rd rail
Ritz Brothers from the Bronx caught in the A train
The smiling Schenley poster will always smile
Impish death Satyr Bomb Bombdeath
Turtles exploding over Istanbul
The jaguar’s flying foot
soon to sink in arctic snow
Penguins plunged against the Sphinx
The top of the Empire state
arrowed in a broccoli field in Sicily
Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens
St. Sophia peeling over Sudan
O athletic Death Sportive Bomb
the temples of ancient times
their grand ruin ceased
Electrons Protons Neutrons
gathering Hersperean hair
walking the dolorous gulf of Arcady
joining marble helmsmen
entering the final ampitheater
with a hymnody feeling of all Troys
heralding cypressean torches
racing plumes and banners
and yet knowing Homer with a step of grace
Lo the visiting team of Present
the home team of Past
Lyre and tube together joined
Hark the hotdog soda olive grape
gala galaxy robed and uniformed
commissary O the happy stands
Ethereal root and cheer and boo
The billioned all-time attendance
The Zeusian pandemonium
Hermes racing Owens
The Spitball of Buddha
Christ striking out
Luther stealing third
Planeterium Death Hosannah Bomb
Gush the final rose O Spring Bomb
Come with thy gown of dynamite green
unmenace Nature’s inviolate eye
Before you the wimpled Past
behind you the hallooing Future O Bomb
Bound in the grassy clarion air
like the fox of the tally-ho
thy field the universe thy hedge the geo
Leap Bomb bound Bomb frolic zig and zag
The stars a swarm of bees in thy binging bag
Stick angels on your jubilee feet
wheels of rainlight on your bunky seat
You are due and behold you are due
and the heavens are with you
hosanna incalescent glorious liaison
BOMB O havoc antiphony molten cleft BOOM
Bomb mark infinity a sudden furnace
spread thy multitudinous encompassed Sweep
set forth awful agenda
Carrion stars charnel planets carcass elements
Corpse the universe tee-hee finger-in-the-mouth hop
over its long long dead Nor
From thy nimbled matted spastic eye
exhaust deluges of celestial ghouls
From thy appellational womb
spew birth-gusts of of great worms
Rip open your belly Bomb
from your belly outflock vulturic salutations
Battle forth your spangled hyena finger stumps
along the brink of Paradise
O Bomb O final Pied Piper
both sun and firefly behind your shock waltz
God abandoned mock-nude
beneath His thin false-talc’s apocalypse
He cannot hear thy flute’s
happy-the-day profanations
He is spilled deaf into the Silencer’s warty ear
His Kingdom an eternity of crude wax
Clogged clarions untrumpet Him
Sealed angels unsing Him
A thunderless God A dead God
O Bomb thy BOOM His tomb
That I lean forward on a desk of science
an astrologer dabbling in dragon prose
half-smart about wars bombs especially bombs
That I am unable to hate what is necessary to love
That I can’t exist in a world that consents
a child in a park a man dying in an electric-chair
That I am able to laugh at all things
all that I know and do not know thus to conceal my pain
That I say I am a poet and therefore love all man
knowing my words to be the acquainted prophecy of all men
and my unwords no less an acquaintanceship
That I am manifold
a man pursuing the big lies of gold
or a poet roaming in bright ashes
or that which I imagine myself to be
a shark-toothed sleep a man-eater of dreams
I need not then be all-smart about bombs
Happily so for if I felt bombs were caterpillars
I’d doubt not they’d become butterflies
There is a hell for bombs
They’re there I see them there
They sit in bits and sing songs
mostly German songs
And two very long American songs
and they wish there were more songs
especially Russian and Chinese songs
and some more very long American songs
Poor little Bomb that’ll never be
an Eskimo song I love thee
I want to put a lollipop
in thy furcal mouth
A wig of Goldilocks on thy baldy bean
and have you skip with me Hansel and Gretel
along the Hollywoodian screen
O Bomb in which all lovely things
moral and physical anxiously participate
O fairylike plucked from the
grandest universe tree
O piece of heaven which gives
both mountain and anthill a sun
I am standing before your fantastic lily door
I bring you Midgardian roses Arcadian musk
Reputed cosmetics from the girls of heaven
Welcome me fear not thy opened door
nor thy cold ghost’s grey memory
nor the pimps of indefinite weather
their cruel terrestial thaw
Oppenheimer is seated
in the dark pocket of Light
Fermi is dry in Death’s Mozambique
Einstein his mythmouth
a barnacled wreath on the moon-squid’s head
Let me in Bomb rise from that pregnant-rat corner
nor fear the raised-broom nations of the world
O Bomb I love you
I want to kiss your clank eat your boom
You are a paean an acme of scream
a lyric hat of Mister Thunder
O resound thy tanky knees
BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM
BOOM ye skies and BOOM ye suns
BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM
nights ye BOOM ye days ye BOOM
BOOM BOOM ye winds ye clouds ye rains
go BANG ye lakes ye oceans BING
Barracuda BOOM and cougar BOOM
Ubangi BOOM orangutang
BING BANG BONG BOOM bee bear baboon
ye BANG ye BONG ye BING
the tail the fin the wing
Yes Yes into our midst a bomb will fall
Flowers will leap in joy their roots aching
Fields will kneel proud beneath the halleluyahs of the wind
Pinkbombs will blossom Elkbombs will perk their ears
Ah many a bomb that day will awe the bird a gentle look
Yet not enough to say a bomb will fall
or even contend celestial fire goes out
Know that the earth will madonna the Bomb
that in the hearts of men to come more bombs will be born
magisterial bombs wrapped in ermine all beautiful
and they’ll sit plunk on earth’s grumpy empires
fierce with moustaches of gold
(la poesia di Gregory Corso è stata tradotta da Fernanda Pivano)

 

 

 

 

 

20 novembre 2024

Ricordo il poeta Gregory Corso, il più amabile tra gli esseri umani, una sera in piazza Navona, aveva trovato un fuoco acceso in piazza Navona, forse dei giornali, può darsi che li avesse accesi lui. Ci danzava intorno, una danza per gioco, propiziatoria per scacciare i suoi fantasmi, e sì che ne aveva, Gregory, nonostante fosse un poeta famosissimo e un vero mito per alcuni, come per me ad esempio.

Per dirne una. In camera mia, sul comodino tenevo una foto di Ernesto Rossi e sul muro avevo appeso una meravigliosa poesia di Gregory intitolata Bomba dedicata alla bomba atomica, anzi alle bombe atomiche che dagli anni Cinquanta in poi scoppiavano nel Pacifico e nel Nevada e nei grandi deserti in Russia. Questa poesia consisteva in una lunga striscia di carta sulla quale le parole erano stampate formando un fungo atomico.

L’aveva pubblicata Feltrinelli in un libro, un’antologia dei poeti americani di quei tempi (Allen Ginsberg, Lawrence Farlinghetti, Jack Kerouac…), Poesia degli ultimi americani, tradotta da Fernanda Pivano. Penso che molti giovani degli anni Settanta abbiano avuto attaccata a una parete della loro stanza quella gioiosa, imprevedibile poesia. In piena contestazione mondiale di studenti e intellettuali e di chiunque avesse un minimo di cervello, che protestavano contro le esplosioni folli delle bombe atomiche e all’idrogeno cento volte più potenti di quelle sganciate in maniera assolutamente criminale su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945,  questo poeta giovanissimo, un ragazzo di strada, che a New York in riformatorio aveva cominciato ad amare la poesia e che dopo era diventato amico e “allievo” di Allen Ginsberg, aveva scritto questa poesia a “favore” della bomba atomica. Cioè, non a favore, ovviamente, ma ne aveva scritto in maniera ironica, spensierata, stravagante, quasi con simpatia.

Ho ripensato a Bomba quando stamattina ho rivisto, per la centesima volta, le cosiddette “scie chimiche”.

Prima mi inquietava assai vedere queste scie che escono da aerei che sicuramente non sono aerei di linea e nemmeno aerei militari. La quota è troppo bassa. Queste scie si intersecano una con l’altra, così da formare una griglia. Dopo pochi minuti queste scie diventano una specie di nuvolaglia biancastra che avvolge il cielo. Fino a un paio di anni fa se parlavi a qualcuno di ciò che si vedeva appena alzando gli occhi, ti dicevano che eri matto, “complottista”. Anche sui giornali, e alla televisione. Ora invece e a poco a poco stanno cercando di far passare la cosa come normale, anche perché forse a Dubai hanno esagerato e c’è stato una specie di diluvio universale in pieno deserto. Ma da decenni si parla di condizionamento del clima attuato con le scie chimiche. Tutte e sempre fantasie paranoiche? Chissà. Ad un certo punto forse diranno che è tutto vero, si manipola il clima il modo, sì, non c’è dubbio, ma soltanto per evitare il riscaldamento globale eccetera eccetera. Ora hanno trovato anche il nome inglese, chemtrails, così col nome inglese siamo nella perfetta normalità, tutto va bene. Certo, nessuno può sapere con certezza cosa succede nei nostri cieli e nell’aria che respiriamo. Magari sono veramente innocentissime scie di aerei civili e militari, ma chi può saperlo?

Molti hanno cominciato a protestare perché, nel caso fosse vera tutta la faccenda, non si sa quali sostanze vengono utilizzate, che potrebbero essere nocive. Comunque i potenti e i loro “fiancheggiatori” continuano a fare finta di niente, vedremo fino a quando.

Prima mi davano angoscia, invece adesso mi sembrano rassicuranti. Qualcuno da lassù pensa a noi, vi pare poco? Non importa che magari per far piovere ci facciano respirare chissà quale immondizia chimica, ma noi siamo comunque avvelenati dalle sostanze tossiche contenute nel cibo che ci fanno mangiare, nell’acqua… perché scandalizzarsi tanto? Anzi, respiriamo a pieni polmoni. Magari queste sostanze fanno bene alla salute, e i solerti governanti di questo Paese e dell’intero pianeta pensano amorevole alla nostra salute, anche se, in ogni caso, è evidente che ci trattano come delle persone a cui non si può dire la verità, creduloni, completamente condizionati mentalmente, insomma come dei perfetti imbecilli.

19 novembre 2024

 

«Il carattere fondamentale della spiritualità indiana è dato dal senso di realtà attribuito a tutta l’esperienza interiore (pensante, immaginativa e ispirativa), rispetto alla quale l’esperienza sensibile riferita ai dati percepibili esteriori è riconosciuta come una forma particolare assunta da una cosmica illusione magica (māyā) nell’individuo limitato: questa, con la sua apparente molteplicità e incoerenza, cela la fondamentale unità non solo di tutte le cose fra loro, ma soprattutto fra l’uomo  e il mondo che lo circonda».

Pio Filippani Ronconi, dall’introduzione a Upaniṣad antiche e medie, Bollati Boringhieri, prima edizione 1960.

 

 

Chi saprà apprezzare questo repentino cambiamento, nel mio Diario, dalla serietà al divertimento, dalla ricerca interiore alla farsa grottesca e un po’ volgare? Soltanto le persone intelligenti. I miei lettori, che praticamente conosco uno per uno (pochi ma buoni), lo sono tutti. Intelligenti e sensibili e amabili e simpatici. È una specie di famiglia. La mia nuova famiglia. C’è anche un cane, che si chiama Mos ma ha un soprannome con cui molti lo chiamano, e cioè Puzzone. Però lui non sa leggere. Diciamo che è l’accompagnatore e la guardia del corpo di un paio di queste persone, che gli leggono ogni tanto ciò che scrivo. Lui ha reazione diverse. Certe volte ascolta e sembra quasi che capisca almeno il “tono” di quelle parole, socchiudendo gli occhi. Altre volte storce la bocca, sembra quasi che voglia esprimere disappunto e forse addirittura disgusto. Poi c’è stata pure quella volta in cui ha chinato il capo e si è addormentato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18 novembre 2024

 

Ah, che storia! Proprio quello che ci vuole per divagarsi. (Amico lettore, non rifiutare lo scherzo, la burla stravagante e un po’ volgare. L’uomo felice è colui che conosce ed apprezza il lieve tempo del sorriso accanto a quello, più profondo e vero, del raccoglimento, della ricerca interiore e del sogno ad occhi aperti, cioè della poesia. E tu, io credo, vuoi essere felice). Del resto la faccenda di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati sembra fatta apposta per entrare a questo punto nella nostra serie di pagine di Diario. Per farla breve e senza inutili divagazioni, io ho questo cugino che si chiama con quel nome curioso, che non è un soprannome, un nomignolo di famiglia o qualcosa del genere, no. Lui si chiama proprio così, Asdrubale Mancini. Se per caso vi venisse in mente di andare a controllare all’anagrafe vi rendereste conto che non dico bugie ma racconto come stanno le cose esattamente. Questo lo dico perché voglio essere preciso nella descrizione dei personaggi di questa strana e divertentissima vicenda che vi farà sbellicare dalle risate appena sarete a conoscenza dei fatti puri e semplici che non tarderò a raccontarvi. Non voglio prenderla alla lontana con tanti giri di parole, anzi muoio dal desiderio di arrivare immediatamente al dunque evitando di parlare di cose futili, e mi scuso se ho tergiversato troppo, anche per i miei stessi gusti; del resto, se non avessi precisato i problemi anagrafici di mio cugino Asdrubale (che, lo ripeto per scongiurare qualsiasi equivoco, si chiama davvero Asdrubale) avrei generato nel lettore un dubbio, un piccolissimo dubbio che avrebbe potuto disturbarlo e che comunque avrebbe senz’altro disturbato me, che odio l’inesattezza e l’imprecisione. Proprio come Asdrubale. Infatti se andate da lui e gli chiedete come si chiama, lui vi risponde e poi vi guarda con quello sguardo indagatore che ormai è una consuetudine e vi dice se per caso vi state chiedendo se lui si chiama Asdrubale soltanto per gli amici e i parenti oppure si chiama veramente in tale modo curioso e bizzarro. È capace di tirare fuori il portafoglio per farvi vedere la carta d’identità, la patente, il passaporto, tutti documenti dai quali risulta incontestabilmente che lui si chiama anagraficamente Asdrubale; e perciò nessuno, afferma convinto, potrà mai cambiare questa situazione. Forse è un po’ matto questo mio cugino. Ha una specie di mania di perfezione. Detesta il pressappochismo, la pigrizia mentale, la trascuratezza nell’azione e nella parola, forse esagerando. Una volta è venuto alle mani con un tizio che era rimasto molto infastidito da tale insistenza. Quello diceva che non gliene fregava niente se lui si chiamava o no Asdrubale e invece mio cugino lo investiva di chiarimenti anagrafici, di argomentazioni linguistiche, di recriminazioni riguardanti l’irresponsabilità dei genitori che mettono nomi ridicoli ai proprio sfortunati figli, eccetera eccetera… Alla fine il tipo si è spazientito e gli ha mollato un ceffone. Apriti cielo! Asdrubale si è messo a piangere come un bambino dicendo che non era colpa sua se lo avevano chiamato così, che lui era soltanto uno a cui piacevano le cose esatte, limpide, senza alcuna ombra e che dunque voleva chiarire un aspetto che gli sembrava importante perché, secondo lui, quando si rimane con una piccola curiosità, questa stessa curiosità col tempo ingigantisce fino ad occupare tutta la mente e il cuore e l’anima e così ci si ritrova a delirare senza andare al sodo, senza badare a ciò che è necessario e inevitabile. Forse questa mania di perfezione me l’ha attaccata pure a me, perché forse sto infastidendo il lettore; credo però che specificare e chiarire sia stato importante prima di procedere oltre e raccontare finalmente l’ avvincente e quasi incredibile storia del commercio dei falli di plastica usati.

Questo mio cugino è un’anima pia, un bravo ragazzo, un buontempone, uno che non torcerebbe capello a creatura umana o animale o vegetale; un santo quasi, nonostante questa fissazione dei nomi e del perfezionismo. Però le sue finanze, forse da sempre, sono un po’ in rosso, molto in rosso, diciamo pure in un rosso profondissimo che lo vede costretto periodicamente a salvarsi la vita in extremis inventandosi di sana pianta lavoretti di poco conto che gli permettono di riempirsi le tasche e pagare i debiti. Alcuni mesi fa telefonò a una sua amica finlandese che abita a Novara, sposata a un napoletano che ha aperto una pizzeria proprio in quella città, una bella pizzeria che, dico per inciso, è stata una grande fortuna, per lui, e di conseguenza per la moglie che ha potuto perciò usufruire  di un certo benessere. Non si sa bene per quale ragione, a Novara la pizza napoletana va alla grande.  Sì, gli abitanti di Novara (che, se non sbaglio, si chiamano novaresi) letteralmente impazziscono per la pizza: sia per quella napoletana diciamo “classica”, col pomodoro e la mozzarella, sia per quell’altra detta Marinara, con pomodoro e origano, ma soprattutto per quel tipo di pizza che viene chiamato Quattro stagioni, con uova, prosciutto, carciofini e olive… Perché poi venga chiamata in tal modo proprio non so, forse per il fatto che Quattro stagioni dà l’idea di una certa varietà di sapori e d’intenzioni culinarie (come i cambiamenti climatici delle stagioni, appunto) che in effetti risulta evidente a chiunque entri in una qualsiasi pizzeria italiana per ordinare quel tipo di pizza. Comunque nessuno, io credo, potrà mai saperlo con esattezza, a meno che non esistano documenti storici che attestino con una certa sicurezza l’origine di tale denominazione… Però non vorrei approfondire questo discorso perché altrimenti non ne usciamo più. Non vorrei fare la fine di mio cugino Asdrubale. A me non interessa molto come e perché si chiamano le persone o le cose, mi basta pensare che una buona ragione ci sarà  stata per aver chiamato Quattro stagioni quel tipo di pizza napoletana. Ciò che invece mi preme davvero è quella faccenda del commercio dei falli di plastica usati che racconterò senza altri preamboli.

Dunque mio cugino Asdrubale telefonò alla moglie finlandese del pizzettaro napoletano e disse: «Ciao, come stai?».

«Bene, grazie» rispose lei, «però potrebbe andare meglio se non avessimo così tanti debiti».

«Ah capisco» aggiunse mio cugino, «mi dispiace».

«Davvero ti dispiace?» chiese lei.

«Certo che mi dispiace».

«Io invece dico che non ti dispiace affatto».

«Ma sì, come te lo devo dire? Mi dispiace moltissimo!» esclamò mio cugino, subito infastidito da quella diffidenza.

«No, non ti dispiace affatto, e per una semplice ragione» continuò lei, «e cioè perché tu sei supremamente egoista».

Proprio così disse: supremamente. Chissà come mai una finlandese residente a Novara e sposata a un napoletano riusciva ad esprimersi con tale invidiabile eleganza, mah! È un mistero, direi, e del resto la vita è fatta di grandi e piccoli misteri che ci circondano e ci avvolgono e talvolta ci soffocano… ma non stavolta, perché non ci turberà più di tanto sapere per quale inesplicabile e misteriosissima ragione quella donna amasse utilizzare parole del vocabolario della lingua italiana così ricercate e, ammettiamolo pure, desuete come appunto supremamente. In fondo, che ce ne importa a noi? Ah certo, proprio così, questo infinitesimale mistero proprio non riuscirà ad intaccare la nostra tranquillità e innanzitutto la nostra ottima considerazione della Finlandia e dei finlandesi. Noi tutti amiamo quel Paese lontano, anche se talvolta non riusciamo ancora a comprenderlo del tutto in quanto è quasi impossibile razionalizzare una situazione che definire stravagante e bizzarra è poco, cioè questa: senza che nessuno la obblighi, una ragazza abbandona un paradiso come la Finlandia per seguire un uomo fino a Novara e sposarlo per condividere un’esistenza certamente dignitosa ma non agiata e sicuramente alquanto impegnativa e senza permettere che questa difficile condizione esistenziale intralci minimamente l’indole originaria, nobile, profondamente delicata che si rivela anche nell’esprimersi utilizzando le parole più belle e poco usate di una lingua imparata tra una portata di pizza Marinara e una di Quattro stagioni, nel mezzo cioè di un’ atmosfera semplice e certamente simpatica e accogliente ma non paragonabile a quella rarefatta, limpida della tundra finlandese, tra renne, contadini taciturni, sole fermo all’orizzonte per mesi e mesi… Ma non voglio assolutamente divagare. Ho invece la fortissima necessità interiore di raccontare i fatti nudi e crudi, poiché il sottoscritto, diciamolo pure, è un tipo concreto che non si perde in chiacchiere. E mi dispiace molto di aver perso tempo, di essermi disdicevolmente dilungato, uscendo per di più fuori tema come facevo a scuola nei compiti in classe d’italiano. Ammetto che mi sono fatto prendere dalla foga del discorso ed ho parlato di questioni che magari a te, caro lettore, sembreranno inutili e banali; però dovevo parlarne, te lo dico francamente, perché certi particolari non vanno trascurati, come ad esempio la fastidiosa e pesante zavorra che all’inizio di questo tema ci siamo trascinati sulle spalle e cioè la questione del nome della quale per fortuna ci siamo liberati definitivamente proseguendo così il racconto di ciò che realmente è accaduto, senza ricami e rimandi, anche se prima di proseguire non posso trascurare una breve riflessione di carattere etico: forse il mio lettore può pensare ad una eccessiva severità con me stesso, ma io credo fermamente che non si possa sprecare troppo tempo a raccontare una storia pur avvincente come questa indugiando leziosamente sugli inutili dettagli e trascurando i nostri doveri familiari e civili. Siamo uomini di lettere, questo è certo, ma innanzitutto cittadini responsabili, consci dei propri doveri. Quando noi, dico per assurdo, fossimo improvvisamente chiamati alle armi, non dovremmo nemmeno per un solo istante esitare rischiando di trascurare il richiamo della Patria continuando magari ad occuparci di Asdrubale e dei suoi tentativi più o meno riusciti di rimediare denaro, oh no! Noi lasceremmo la penna nel calamaio seduta stante, ci alzeremmo dal nostro amato scrittoio gridando: «Eccomi, Patria mia!» e correremmo impavidi a difendere a costo della vita le nostre donne, i nostri bambini, l’adorato suolo italiano, lì al fronte. Non più penna, ma baionetta. Per questa ragione dobbiamo tornare brevemente a parlare di mio cugino per sbrigarcela una volta per tutte con i suoi incredibili tentativi di porre rimedio ad un’incresciosa situazione economica: vicende assurde, pazzesche, che stenterete a credere. Ci sarà addirittura un lieto fine, che però sconvolgerà tutte le vostre credenze e opinioni. Reggetevi forte dunque, mantenete la calma. Io ho perso un po’ di tempo con inezie e discorsi strampalati ma non vedo l’ora di raccontarvi per filo e per segno questa storia curiosa eppure edificante di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati.

Dov’eravamo rimasti? Ah sì, la finlandese accusò mio cugino di essere nient’altro che un egoista; anzi di essere supremamente tale. Allora mio cugino, un po’ offeso, pur notando il godibile vezzo linguistico, rispose: «Non è vero, scusa se ti contraddico. Perché dici così? Io non mi sento affatto egoista».

«Dico così perché io ti conosco bene».

«Ah sì? Tu mi conosci bene?» domandò Asdrubale.

«Oh certamente, ti conosco molto bene perché la nostra relazione è stata lunga e appassionante e travolgente, e adesso lo so io cosa t’interessa veramente sopra ogni altra cosa».

«Io non tornerei a quella vicenda ormai conclusa da tempo… Ma dimmi: cos’è che m’interessa? Dimmelo tu allora!» fece mio cugino un poco seccato da tanto veemente e implacabile impeto accusatorio.

«Il sesso, ecco cosa interessa a te, mio caro».

Lui rimase in silenzio con la cornetta alzata. Un lungo silenzio prese forma, quasi palpabile, tra Novara e il Tiburtino, che è un quartiere a sud di Roma dove per l’appunto abitava mio cugino. Che quasi gridando disse: «È una vergognosa illazione!». Incazzato nero, mio cugino. E proseguì dicendo: «Sei tu, invece, che ami troppo il sesso. Lo so io e lo sanno tutti a Novara che sei un’autentica sporcacciona».

«Non è affatto vero! Questo è un volgare pettegolezzo!».

«Ah, quello che dico io è un pettegolezzo mentre quello che dici tu è sacrosanto e vero?» disse lui, che è uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. E aggiunse: «Ma fammi il piacere, stupidina». Un tipo tosto, mio cugino.

«Io non sono una donna di facili costumi dedita soltanto ai piaceri della carne» cercava di spiegare lei, la finlandese. «Però ammetto di essere curiosa e sensuale, ma che male c’è? Infatti, se vuoi posso raccontarti cosa è successo proprio ieri sera. Potrai così renderti conto che ci sono cose che ancora mi sorprendono e mi fanno arrossire nonostante io sia tutt’altro che timida. Vuoi che ti racconti?».

«Ma certo, mia cara, racconta pure» rispose mio cugino accendendosi la pipa, improvvisamente più disponibile in quanto curioso, curiosissimo di sapere cosa mai fosse accaduto a quella donna imprevedibile, dal linguaggio così ricercato, emigrata da un Paese tanto lontano e forse non ancora completamente conosciuto, almeno per quanto riguarda l’indole dei suoi abitanti.

«Era un pomeriggio tipicamente autunnale» cominciò a dire. «Sai quei pomeriggi a Novara di novembre? Il vento spazza la città, le persone un poco infreddolite si stringono negli impermeabili affrettando il passo mentre anche i piccioni, che stazionano sui tetti della cattedrale di San Gaudenzio, sembrano sorpresi ed un poco avviliti: sbattono le ali, si riparano frettolosamente sotto il campanile, svolazzano di qua e di là come se fossero preda di una febbre leggera, indefinibile, dalla quale però è difficile guarire. Tutto sembra aspettare un segnale definitivo, un sì o un no che decida finalmente l’inizio del vero inverno, che tolga dunque le persone, gli animali e le cose da quel fastidioso stato intermedio. Quando a dicembre la temperatura scende sul serio, e i temporali si susseguono senza sosta, si prova quasi un sollievo. Poiché finalmente un destino si compie. La stagione autunnale, come fosse stata da lungo tempo malata, in bilico , diciamo così, finalmente è trascorsa, terminata finalmente davvero. Si possono tirare fuori i cappotti dagli armadi, le scarpe pesanti e i calzini di lana. Si torna alle vecchie abitudini: il piacere di riscaldarsi al focolare, durante le serate trascorse a leggere romanzi di mille pagine, mentre fuori piove, immersi nelle storie più inverosimili, avvertendo le gocce che battono sui vetri e il vento che infuria. Sì, l’inverno è la nostra buona abitudine. L’estate è sempre disordine, anche se regolata e controllata da prenotazioni, alberghi accoglienti e spiagge pulite e ben organizzate. Tuttavia…».

«Eh no, basta!» l’interruppe mio cugino, «non la prendere troppo alla larga! Io vorrei sapere, se non ti dispiace, i fatti nudi e crudi!».

«Oh sì, d’accordo, d’accordo… Non volevo tediarti» rispose la finlandese. «Era soltanto per spiegare meglio, per farti capire bene cosa c’è dietro ciò che tu chiami fatti nudi e crudi. Se così preferisci, ti dirò molto semplicemente che mio marito, il pizzettaro napoletano che ho sposato, quel giorno è tornato a casa di pomeriggio. Lui non ritorna quasi mai così presto a casa. Sai, la pizzeria occupa molto tempo nella giornata: bisogna preparare il pomodoro fresco, la mozzarella…».

«Oddìo, ti prego, non dilungarti ulteriormente, dimmi cos’è successo!».

«Sì, sì, ok… vado al sodo. Mio marito è entrato a casa con un pacco sotto il braccio. Io ho domandato cosa contenesse e lui, sedendosi sul divano, ha detto che mi avrebbe subito fatto vedere e ha scartato il pacco stesso. E tu lo sai cosa conteneva quel pacco? Eh, me lo sai dire cosa conteneva quel pacco rettangolare e pure infiocchettato? Ah bè, tu non puoi saperlo, lo dico così per dire: allora, tu lo sai cosa conteneva quel pacco portato a casa sotto il braccio da mio marito, cioè dal napoletano pizzettaro?”.

«No, porca miseria, non lo so cosa conteneva quel pacco!» rispose mio cugino, ormai spazientito.

«Un fallo di plastica, ecco cosa conteneva. Allora io ho chiesto a mio marito con un lieve rossore che invadeva le mie gote cosa intendesse fare con quel fallo di plastica. E lui ha risposto: non riesci proprio a immaginarlo? Così poi, sì… insomma, mi imbarazza dirlo… poi lo abbiamo adoperato. Ma da un bel po’ di tempo giace nel cassetto, impolverato e con le batterie scariche. È stato divertente usarlo, lo ammetto, ma una volta soddisfatta l’ovvia curiosità è stato abbandonato in un angolo della nostra casa».

A mio cugino Asdrubale, una volta salutata la finlandese e riagganciato il telefono, venne in mente che si potrebbero recuperare i falli di plastica venduti negli ultimi anni e poi rivenderli al mercato dell’usato, ovviamente puliti e disinfettati. Secondo lui è un grande business. Il costo di ogni singolo fallo di plastica costerebbe la metà di quello nuovo, dunque con un notevole risparmio da parte dell’acquirente che non vuole spendere troppo per certe cose, specialmente in un periodo di crisi economica come l’attuale. Inoltre sarebbe garantita l’efficacia del fallo di plastica stesso in quanto già sperimentato, e diciamo rodato. «Eh certo», ha detto infatti mio cugino, «io li controllerei uno per uno, mica si possono mettere in vendita falli di plastica consumati, in cattive condizioni!». Lui è senza dubbio molto serio negli affari, un vero professionista.

Ora mio cugino Asdrubale che, come ho ripetuto più volte, si chiama veramente Asdrubale, ha appena aperto dalle parti della Bufalotta, quartiere periferico a nord di Roma, un grande negozio che tratta falli di plastica usati come nuovi e a prezzi imbattibili. Spero di cuore che abbia successo.

Ecco, finisce qui il racconto su quella faccenda di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati.

 

 

17 novenbre 2024

 

(Postilla a Vocabolario personale della lingua italiana). 

A, prima lettera dell’alfabeto. Che io vidi da subito, quand’ero un bambino di tre o quattro anni, come qualcosa di molto simile a una bella casetta. Nella sua versione maiuscola, proprio così: col tetto spiovente e in mezzo la finestrella come nelle baite di montagna, tra verdi vallate e picchi altissimi e grosse mucche piene di latte e fiori variopinti… senza dimenticare gli alpini con la piuma sul cappello e la pipa in bocca che fumano e cantano le struggenti canzoni della Prima Guerra Mondiale.

Una bella casetta che mi permetteva di trovare finalmente rifugio e riparo. Poiché la vita era dura per un piccoletto come me, già in quella prima infanzia. Intorno a me sentivo parlare di stagione felice dell’esistenza, di età dell’innocenza, di beata tranquillità familiare… Tutte cazzate. Io soffrivo come un cane. E allora la mia sola via d’uscita era in un certo modo di vedere, di sentire, d’immaginare le cose del mondo che così si trasformavano, come in sogno. Imparavo ad usare le parole, ma a modo mio.

Una banconota era nient’altro che un petalo rettangolare di un grande fiore molto strano che volava di mano in mano per delle ragioni che non riuscivo a comprendere ma che dovevano avere una grande importanza. Quanto ci tenevano gli esseri umani a quei petali! Addirittura li rubavano oppure insensatamente li accumulavano in grandi quantità. Alcuni li conservavano per collezionismo, pensavo. In ogni caso quei quadratini di materiale delicatissimo sprigionavano una forza capace di suscitare inauditi desideri e cieche violenze.

La città in cui vivevo aveva un grande prestigio; da tutti era definita eterna e in alcuni casi addirittura sacra, eppure i miei genitori la giudicavano incredibilmente sporca materialmente e moralmente. Questa contraddizione la interpretavo a modo mio. A Roma era in funzione un’invisibile enorme fabbrica di menzogne, di furti, di corruzione e qualche volta di omicidi: prodotti in serie e ben confezionati, questi peccati non venivano commessi dalle singole persone per semplice negligenza, oh no, ma con il proposito di saggiarne la gravità per poi rivenderli ad altre città italiane e straniere, con grande profitto. Era un commercio di cose brutte che io vedevo chiaramente, anche se con gli occhi di un bambino visionario e ipersensibile. Del resto, non fosse stato così, quell’orrendo e schifoso caos non avrebbe avuto alcun senso. Il Male come lavoro stipendiato, insomma, come esito del duro e meticoloso lavoro dei cittadini che vivevano in quel modo penoso e umiliante soltanto per avidità e ambizione, poiché più si compivano malefatte e più si guadagnava. Le rughe sul volto di certi vecchi, infatti, quei solchi profondi erano le cicatrici di coloro che avevano a lungo svolto il duro lavoro del vizio e della lussuria. Ricordo che una di quelle persone, in un giardino pubblico, mentre mia madre era distratta, m’invitò a seguirlo dietro a una siepe con la prospettiva di contribuire anch’io, se pur piccino, a quella mansione così importante; però rifiutai, stupidamente, e mi divincolai quando lui mi afferrò con le mani, non per pigrizia o perché non fossi curioso e ben disposto a sperimentare: mi piaceva contraddire, negare ciò che mi veniva richiesto, soprattutto dagli adulti.

Insomma, a scuola imparai quei procedimenti che servivano a collegare parole e cose, ma io li applicai in modo personalissimo. E quando mia madre, all’uscita del primo giorno di scuola, mi chiese come fosse andata, io risposi candidamente che tutto era andato benissimo e che soprattutto avevo imparato a mangiare le lettere dell’alfabeto.

«A mangiarle?» ripeté lei, stupita.

«Ehm… volevo dire: a conoscerle» puntualizzai io, «a meditare su di esse per raggiungere quella consapevolezza linguistica assolutamente necessaria ad uno bambino desideroso di crescere e maturare».

«Ah ecco…» fece mia madre, un poco perplessa. Ed aggiunse: «Ti esprimi molto correttamente… è davvero sorprendente, essendo tu soltanto un bambino di quattro anni».

«Grazie, mamma» risposi, «sono lusingato». (Forse nel ricordo esagero le mie capacità, ma in effetti cominciai a parlare subito perfettamente, dopo i primi momenti di disagio, ed anche ad usare le lettere di plastica per comporre frasi di senso comune). Pochi minuti dopo la maestra disse a mia madre che mi ero mangiato tutte le lettere dell’alfabeto e che inoltre avevo tastato il culo alla mia compagna di banco.

 

16 novembre 2024

 

Vocabolario personale della lingua italiana.(Seconda Parte). 

V.

vacillare 

Come quando si sta in equilibrio sui rami più alti di un albero che viene smosso dal vento, e tu quasi con la testa nella nuvolaglia che in quel pomeriggio s’è fatta più densa, senti che non soltanto il tuo corpo potrebbe cadere e rompersi ma anche e soprattutto la tua anima. Ma come ci sei finito lassù? Chissà. Non te lo ricordi. Non sai più nulla di te stesso. È un sogno, una fantasia? Ciò che conta è quel senso di squilibrio, di imprecisione che però ti affascina e ti prende e ti manda avanti… perché sì, è vero, qual senso di precaria esistenza è ciò che ami tanto, anche se non lo sai. Non vuoi che questo: aggrapparti al ramo, avare paura, guardare lontano i monti o la striscia di mare che combacia con l’orizzonte… Vacillare è la tua vocazione.

 

vacuo 

Essere e non divenire, stare qui, come sospesi, qui sui rami dell’albero che naturalmente è una quercia, una grande quercia: tra il cielo e la terra, tra il non agire e il fare chissà cosa, domani, che non verrà mai. Dormire, poltrire, forse sognare. Destarsi finalmente,  scendere dall’albero e muovere qualche passo per andare….

No, per non andare da nessuna parte, e invece ritornare al punto di partenza, qui, tra i rami. Ci sono tanti modi per sperimentare la parola vacuo: anche scrivere può rientrare in questo, anche se io respingo tutti i folletti, diavoli e tutte le creature stravaganti che abitano nella nostra mente e che vogliono invitarmi a compiere azioni inutili e dannose. Eh no, intanto devo stare qui  e non ribellarmi a questo mio eterno stare nel nulla e devo invece rimandare a casa quegli spiritelli, così mi libererò dall’angoscia della prigionia delle disillusione e perciò sarò pronto a vivere di nuovo, ad agire, cioè in sostanza a scrivere, perché per me vivere significa scrivere, eh che ci posso fare?

Intanto che ci penso, io vado a piedi, in macchina, col calesse, con il triciclo; vado sotto la pioggia, la neve e la burrasca; vado con l’ombrello, un orologio costoso al polso, un pensiero fisso in testa. Non vado da nessuna parte.

 

vacuometro 

È lo strumento che misura il grado di vacuità di ognuno di noi. Lo inventò il professor Harold S. Blomery dell’Università di New York nell’ormai lontano 1910. com’è fatto ‘sto strumento? E che ne so! Mica posso sapere tutto io, che vi credete? Io ne ho sentito parlare: è un coso a forma di… si applica al… e poi c’è l’esito del risultato. Si va dal grado 0 di vacuità al grado 100. al grado zero ci sono tutte le persone molto impegnate: commercialisti, avvocati, professionisti in genere, puttane, Presidenti della Repubblica, scrittori americani alla moda… Persone molto impegnate e che non stanno lì a perdere tempo. Al grado mille c’è il mio amico Bruno che trascorre il suo tempo al bar sotto casa mia. Si mette al tavolino e ordina un caffè. Legge il giornale. Poi, verso mezzogiorno, un altro caffè. Come direbbe il professor Harold S. Blomery, ci sono individui che riuscirebbero a far andare in tilt il vacuometro poiché sfondano quota 100. Come Bruno, appunto. vado

 

vagabondo

L’uomo che vuole sognare cammina per la città. Segue un suo istinto, volta l’angolo della chiesa, s’infila in una stretta via di un quartiere antico, una qualsiasi suburra, riprende la via principale, trafficatissima, caotica, dove transitano più automobili che esseri umani, e procede inarrestabile e deciso nella sua indecisione perenne, poiché sempre si dice: devo fermarmi? E dove vado ora? Ma cosa sto facendo?… eppure continua a camminare, e vede se stesso e il mondo come in un sogno, e non soltanto come un sogno ad occhi aperti ma come un incantesimo universale nel quale solitamente si vive ad occhi chiusi, sperando nel risveglio, nella visione chiara e vera, non dunque privata e vana. Il vagabondo è un sognatore che aspetta di svegliarsi, e cerca il luogo, il momento adatto perché ciò avvenga.

 

vagheggiare 

Vagheggiare la cosa più lontana, ché deve rimanere tale, come la donna: altrimenti sarà troppo vicina, troppo di carne, troppo presente e corruttibile. Così prendendo tale abitudine si diventa lontani da tutto, con un carico di purezza che sfianca, vivi come un angelo… ma un angelo che poi dovrà tornare a casa, nella sua prigione, a dire sì e no alle persone e a tutte le altre cose che non si fanno allontanare facilmente. Ecco, forse potremmo dire che chi vagheggia è un angelo caduto: sentirà la mancanza del Cielo, come un paese da cui è stato esiliato. Ce la farà questo angelo a rialzarsi, ad affrontare la cosiddetta realtà senza rinnegare se stesso? È questo il punto. Tutti i miei migliori auguri agli angeli caduti di questo pianeta. Coraggio!

 

15 novembre 2024

 

Vocabolario personale della lingua italiana.(Prima Parte). 

(Le cose non sono come le vedono tutti, ma cambiano a seconda di chi le guarda. Così cambia il significato delle parole. La parola casa vuol dire qualcosa di approssimativo che va bene per l’uso quotidiano che ne vogliamo fare. Ma quella stessa parola ha mille altri significati per ognuno di noi, se non ci accontentiamo e sprofondiamo dentro noi stessi). 

A.

abbastanza

Abbastanza vivo io sono, oh certo, ma forse per la legge del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, potrei anche dire molto semplicemente e direi quasi candidamente: abbastanza morto. Come appunto ci si sente nelle domeniche pomeriggio che ci tocca passare. Quella narcotica spossatezza che dobbiamo non alla stanchezza del lavoro ma al riposo stesso: alzarsi tardi con la testa vuota, leggere il giornale in piazzetta davanti al cappuccino, tornare a casa e mangiarsi un piatto enorme di pasta che ci lascia ripieni come un pollo… per riandare così ancora una volta a letto, ché c’eravamo appena svegliati, con quel languore che ci ha dato pure il vinello del Castelli che c’hanno regalato.

Poi, dopo la siesta ronfante e immorale, ci rialziamo e ricominciamo a svegliarci, col caffè, col doppio caffè… fino a quando, verso le sei del pomeriggio, ci ritroviamo davanti al televisore a guardare i gol delle partite di calcio. E allora lì è il culmine della dissolutezza domenicale. Ormai siamo cotti e stracotti, si potrebbe dire che abbiamo perso qualsiasi connotazione umana. Siamo bestie da campionato, ci si sveglia un attimo per un cross che sulla destra ha fatto delirare la folla, per il tiro in porta del supercampione che ha centrato l’angolino basso della porta. Siamo robot a cui hanno scollegato i fili, siamo ex uomini che si sono spinti troppo in là, verso gli orizzonti dell’Insensatezza e dell’abitudine domestica, nell’abisso domenica del Non Ci Sono Più e del Forse Non Ci Sono Mai Stato. «Sì, va bè», dice il mio vicino di casa che è venuto a chiedermi lo zucchero, e al quale ho accennato certi miei stati d’animo, «ma il Milan che fa?».

Quando a sera andiamo a portare giù il cane siamo veramente abbastanza vivi e abbastanza morti. Il cane alza la gamba, fa lo schizzetto, ficca il muso in ogni sporco angolino della strada. Ci sembra più cosciente di noi, più responsabile, più sveglio.

Poi sul divano fumiamo il sigaro toscano, che finalmente ci dà il tono giusto. Ecco, alle undici di sera cominciamo ad uscire da quell’orrendo stato psicofisico nel quale abbiamo vissuto per tutta la domenica. Ma ormai la giornata è trascorsa. Siamo stati abbastanza sciocchi da passarla in questo modo. Ma è questo il nostro destino. Perché siamo abbastanza sciocchi e pigri e vigliacchi e rinunciatari. E mai cambieremo.

 

abbandonato 

Lasciato solo in un angolo. Abbandonato da una donna, che perfida non si degna nemmeno di farci una telefonata, ben sapendo che soffriamo tanto (ma così deve essere, anche questo lo abbiamo imparato). Il cane abbandonato lungo la strada. Macché cane, addirittura il bimbo appena nato, già morto. Lo lasciano in un cassonetto. Lo lasciano lì, nella sporco dei rifiuti, rifiuto tra i rifiuti. Non ci può essere Dio, perciò, per quella carne lasciata ad imputridire. Eppure era nata per vivere, per muoversi, per crescere. Qui pare il nocciolo di tutto: la vita che vuole affermarsi e che nello stesso tempo nega se stessa. Scandalo supremo. La vita mangia se stessa. Entra ed esce. Luce o buio… Dove, dove può esistere una ricomposizione di questa frattura, di questo crollo universale? Lì, lì, in quella pattumiera pubblica, tra il vomito ripulito sul pavimento e l’avanzo marcito, lì, lì, il vero mistero, lì l’unico groviglio che siamo costretti a sciogliere.

 

abbagliare 

Come fanno gli occhi di lei, la superiora, l’inclassificata, la mairaggiunta e mairaggiungibile, che può darsi non esista realmente poiché nessuna donna esiste in quella forma stralunata e amatissima, sì, in quella maniera anche un pochino retorica in cui noi la immaginiamo. È un sogno, più che altro. Siamo grati a colei che, magari senza volerlo, riesce ancora ad illuderci, ad abbagliarci, a far germogliare queste parole nei nostri cuori ormai desertici, nei rari momenti di grazia. Entriamo in questi istanti e ci rinchiudiamo in essi, sprangando porte e finestre e lasciando là fuori la cosiddetta realtà. Così possiamo finalmente fiorire, o forse è più onesto dire marcire nel nostro sogno, cioè nel sogno dei suoi occhi che abbagliano. Poiché questo nostro sognare, sapete, alla fine ci porterà ad un culmine che è una catastrofe, un buon motivo per dannarci l’anima, però saremo felici per alcuni meravigliosi istanti (che non è poco).

 

abbigliamento 

Quel modo di vestirsi, il pantalone che arriva millimetricamente preparato sull’orizzonte micidiale del sedere per farci sbavare, a me e a tutti, perché tutto deve essere casuale, naturale, spontaneo, falso, ipocrita, meraviglioso, assurdo, ragionevole, una cosa da puttana, da santa, una cosa divina e da porcile. È giusto così.

 

abbacchiato 

Che sarebbe il marito a cui è stato detto per l’appunto che c’ha le corna. È senza dubbio abbacchiato. Anche se poi quello si può pure incazzare perché in effetti per quale ragione uno deve stare lì a sentirsi dire che la moglie è una un po’ mignotta e cose del genere… lei, la dolce mogliettina che, possiamo certamente supporre, non avrebbe mai pensato di commettere adulterio, oh no. «Ma c’è cascata» pensa lui, il marito cornuto che tutti noi potremmo a questo punto chiamare tranquillamente il cornutaccio, «soltanto perché ha trovato sulla sua strada di donna angelica ed eterea e immacolata un uomo cattivo che l’ha traviata». Sì, è verissimo, questo lo sappiamo, è lui che l’ha trascinata in quel baratro oscuro. La candida pura innocentissima mogliettina non ci avrebbe nemmeno lontanamente desiderato certe cose, nemmeno per un solo istante le avrebbe sfiorato la mente il pensiero e l’intenzione cosciente di venir meno agli obblighi e doveri di donna maritata e fedele. No, no, di certo no, possiamo dirlo con certezza qiasi assoluta. «È stata è colpa sua, di quel maschione» conferma il marito e cioè il supercornutaccio. Magari era uno di quel maschi incredibilmente dotati sessualmente che l’ha stuzzicata facendoglielo vedere e allora lei, poverina, dài e dài, c’è cascata, l’ingenua. Che sarebbe stata fedele e casta e devota solo al proprio maritino; ma se uno non la smette nonostante i dinieghi più fermi e invece insiste, insiste, insiste, cosa deve fare una povera femminuccia ritrovandosi a tu per tu con un affare del genere, eh?, me lo sapreste dire, miei cari lettori? «Pure una santa ci cascherebbe» risponde il Grande Cornuto, il Cornuto tra i Cornuti, premio Nobel per la cornutaggine, primo classificato al Campionato Mondiale dei Cornuti del 2024. «Ovvio, tutte le mogli ci cascherebbero…» ripete ossessivamente, poiché si è agitato e cerca di convincere se stesso e invece dovrebbe prendersela con filosofia perché è l’unica cosa da fare in questi casi, lasciatevelo dire da uno che c’è passato in situazioni del genere. In fin dei conti queste sono delle enormi stronzate e non c’è da soffrirci più di tanto, non ne vale proprio la pena. Invece il campionissimo dei cornuti, alla fine, s’è fatto venire l’ulcera. E va bè. Però se l’è meritato, questo bisogna dirlo.

 

abbacchiare 

Significa rendere triste, depresso. Come quando si dice qualcosa di spiacevole a un’altra persona. Tipo dire a un marito tradito di cui abbiamo parlato proprio adesso: «Tu c’hai le corna!». Lo fai diventare triste, abbacchiato, per l’appunto. Poiché è brutto sentirsi dire certe cose, oh sì.

 

abietto 

Ecco una parola che mi è sempre piaciuta. L’ho trovata sempre familiare. E poi io sono così, non posso negarlo. Cioè sono proprio abbietto. Infatti me lo dice sempre il mio vicino di casa, l’inquilino del quarto piano. M’incontra davanti all’ ascensore e dice: «Sei un essere disgustoso, ripugnante. In te l’abiezione raggiunge livelli impensati. Mi fai schifo. Susciti in me una ripugnanza talmente grande che io sempre ho conati di vomito quando t’incontro».

Allora io domando: «Ma scusami, perché?».

«Ah, il perché mi domandi, porco della malora” mi risponde lui, «e lo vuoi proprio sapere? Allora va bene, te lo dirò, sta a sentire, e intanto entra in ascensore… Tu sei un uno schifoso perché fai finta di essere un innocente, uno candido e puro, ma è soltanto un modo che hai inventato per stare comodo comodo a casa tua lontano dal mondo. Reciti la commedia di quello sensibile, che non viene a patti col mondo, che rifugge la fama, il successo, che non desidera diventare ricco, e invece tutte queste cose tu le desideri terribilmente ma forse così tanto le brami che ci rinunci per la paura di fallire e di ritrovarti scornato. E’ soltanto una mascherata la tua. Sei molto peggiore di quegli ambiziosi che vedi spesso per la strada. Con occhi come fessure, nervosi, ansiosi… No, tu non vuoi diventare come loro: preferisci rimanere placido, tranquillo, lontano da tutto e da tutti… Ma la tua è soltanto debolezza, falsità, pigrizia. Fai veramente schifo. Dai, spingi il tasto per il terzo piano, fai in fretta che mi fai vomitare!».

Arriviamo al terzo piano, lui apre a porta della ascensore ed esce senza nemmeno salutarmi.

Io arrivo al mio piano, entro a casa mia e mi siedo sul divano. Penso: e se avesse ragione?

 

14 novembre 2024

 

Mi chiedo cosa fare per pubblicare La piccola dea in questa ultima, definitiva versione. Ho pensato che potrei telefonare all’editore Adelphi e dire, tanto per stabilire un rapporto più maturo tra autore ed editore che tolga di mezzo finalmente i soliti ricatti morali e recriminazioni e reciproche scorrettezze tra scrittori ed editori: «Se non mi pubblicate, io mi ammazzo».

Davvero farei qualsiasi cosa per pubblicare il mio libro. Io sono sempre stato un tipo un pochino orgoglioso, però in questo caso sarei disposto a lavare i piatti a pranzo e a cena per sei giorni alla settimana in casa del responsabile della collana Piccola Biblioteca, in quella del suo vice e nelle abitazioni di tutte le segretarie e dei fattorini e degli impiegati e dell’intero consiglio di amministrazione. Mi rendo altresì disponibile a portare a spasso il cane del direttore editoriale, a pulirgli il cesso di casa chinato in terra con lo strofinaccio, a fargli da autista, da cameriere, da ragioniere, da massaggiatore… Tutto ciò ed altro ancora in cambio della pubblicazione della mia piccola dea, di questo mio libretto che per me è come un figlio, un pargolo bisognoso di cure e di protezione, a qualsiasi costo: sono come un padre, anzi come una madre che sta per partorire il suo bambino e che dunque si preoccupa del futuro. Niente moralismi, niente pezze sotto il naso. È il mio libro, un pezzo della mia carne, la giustificazione della mia esistenza. Non ho fatto altro che lavorare per edificare questa specie di monumento alla minuscola ma tenacissima dea, affrontando il deserto della vita per oppormi al senso di morte e di vacuità universale che ho sempre provato, Sono stato capace soltanto di scrivere, e ho scritto questo libro, ad ogni costo. Devo essere pronto a qualsiasi sacrificio anche per pubblicarlo.

Mi sento proprio come Mariuccia, la prostituta di via Veneto della quale ero diventato amico ai tempi in cui vivevo al rione Monti, e che ho rivisto giorni fa dopo tanto tempo. Non lavora più, è diventata una anziana e dolce signora. Ha un figlio che ora ha finito l’università, ed è cresciuto bello, sano, educato. «Io ci tenevo a mio figlio» mi dice seduta ai tavolini di piazza Madonna dei Monti, «era ed è tutta la mia vita… allora dovevo pur mantenerlo, e quello era l’unico modo che ho trovato, che non era peggiore di altri. Tu col tuo libro devi fare la stessa cosa: telefona, vai a cena coi critici e gli scrittori famosi, lecca il sedere, sennò ti rimane nel cassetto. Tu devi lasciar perdere gli atteggiamenti da signorino orgoglioso e sprezzante, non vanno bene nella tua condizione, non te li puoi permettere». Mariuccia è come un Maestro per me, è come Krishnamurti. È la persona più saggia, la donna più brava e onesta che abbia mai conosciuto. Non a caso, per come va il mondo, ha fatto per anni la puttana a via Veneto. Ma io voglio diventare ancora più saggio di lei, ancora più spudorato eccetera eccetera. Per pubblicare questo libro arriverò forse a vendere il culo (che per Mariuccia invece era tabù) e pure la mia fidanzata e i parenti e il giornalaio sotto casa mia che non c’entra niente. Confido a Mariuccia i miei propositi e lei mi dice: «Bravo Roberto, sei diventato proprio una gran puttana!».

 

 

13 novembre 2024

 

Le pecore al pascolo… ma non in campagna: qui dietro, vicino a casa mia, nel parco dell’Aniene, lungo il fiume. Sì, perché a Roma succede pure questo. Che un gregge di pecore giunga da fuori città in una specie di corridoio di prati fra i palazzi costruiti a vanvera, senza nessun ragionevole criterio urbanistico: così il pascolo arriva fino a Montesacro, e la campagna si confonde con la città e la città con la campagna. Ieri ho visto un bel pastorello che nemmeno nelle Bucoliche di Virgilio. Chi era? Era italiano, straniero? Non ho avuto voglia di disturbarlo. A un certo punto ha tirato fuori la sua piccola pipa e se l’è accesa, tranquillo, e si è seduto sul prato. Le macchine passavano poco lontano, ma lui non se ne curava. Nemmeno le sue pecore ci facevano caso al traffico: erano scese sulla riva dell’Aniene, tranquille e forse felici a loro modo. Il più tranquillo e felice certamente era lui, il pastorello di Montesacro.

 

 

12 novembre 2024

 

Viaggia, parti adesso, vai lontano, nelle arie e sopra gli oceani, sulle nuvole e oltre il cielo. Viaggia, parti adesso e vai lontanissimo, ma non nello spazio, poiché tu andrai al di là dello spazio; non nel tempo, perché tu andrai al di là del tempo. Guarda in alto ma scava in basso, all’interno del cuore, dove tieni nascosto un tesoro, nel profondissimo buio. Quella è la meta, e lì troverai la risorse per vivere. Una luce ti aspetta, e tu nemmeno lo sapevi.

Viaggia, corri! Non ci sono valige da preparare per questo tuo viaggio. Conserva soltanto i buoni ricordi e lascia pure a casa i libri che hai letto e riletto. Sei nudo, sei povero, nessuno può guidarti lungo questo cammino imprevedibile: però tu sei coraggioso, mio amico e fratello.

È arrivato il momento, è l’ora giusta. L’alba è fresca, colorata. Non aspettare ancora nemmeno un minuto.

Viaggia, parti adesso… forse non tornerai mai più.

 

 

«Il cuore, simile a un calice di loto, rivolto verso il basso, sta sotto la testa, dodici pollici più in alto dell’ombelico. Risplende, circondato di fiamme, grande santuario del tutto, avviluppato da una rete di vene. Nella sua estremità c’è una cavità minuscola, dove il tutto ha il suo fondamento, e in mezzo a essa c’è un immenso fuoco, la fiamma universale, che irraggia in tutte le direzioni, verso il mondo e le stelle».

Mahā Nārāyana Upaniniṣad

 

 

 

 

 

 

 

11 novembre 2024

 

Sopra ogni cosa, il tuo nome.

Ma è vero anche il contrario: il mondo mi esclude, mi riduce al silenzio, mi sommerge, e il tuo nome scompare, insieme al mio.

Noi due siamo vivi in mezzo a questa battaglia tra l’essere tutto o niente, tra lo stare in cielo o sulla terra, ma così riceviamo un dono segreto, che non abbiamo mai avuto la follia nemmeno d’immaginare. Questo dono è conservato nei nostri cuori, ovviamente.

Comunque io grido il tuo nome dall’alto spartiacque, dove le voci dei vivi e dei morti s’incontrano. Sul limite dei boschi, delle radure, dei paesaggi che nessuno ha mai veramente veduto, che forse esistono o forse no: è lì che provo a cercarti. Così trovo me stesso. (Ma che me ne faccio di me stesso se non sto insieme a te?).

Grido il tuo nome, sopra ogni cosa.

 

 

Autofilologia. Fascicolo fotocopiato con testi battuti a macchina (Olivetti Lettera 22), ritrovato sotto un mucchio di volumi impolverati e (forse giustamente) dimenticati. Copertina di cartoncino verdeazzurro, titolo: Nove poesie. IL mio nome compare nella seconda pagina. Nell’ultima pagina c’è scritto: Le poesie sono state scritte nel 1986. Questa edizione,  a cura dell’autore, è dell’estate 1987. «Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti». Giacomo Leopardi.

Segue una dedica manoscritta: a mamma e papà

 

 

Al chiarore della pelle

rispondo con un verso,

che nel canto poi tu veda

specchiata la bellezza.

 

 

 

 

La sera ferma dei bar.

Il vino nel bicchiere.

Se una donna passa altèra,

la guardo dalla luna.

 

 

 

 

Nel deserto vai cercando

bellezza di lichene,

uno scopo o una vacanza,

speranza in quattro versi.

 

 

 

Come nuvola il mio cuore,

è un soffio fatto verso.

Così solo prende forma

la debole illusione.

 

 

 

Per il bimbo questa sera

felice è tutto il mondo.

Ma da grande sarà solo.

L’inganno si rinnova.

 

 

 

Nei porti dove l’amore

non cessa di soffrire,

stanno gli uomini delusi.

Ma ritornano al mare.

 

 

 

La bellezza della rosa

si paga con dolore.

La ferita poi si cura

coi petali del fiore.

 

 

 

Cercammo un sogno, una meta

che costasse la vita.

Ora la meta più ambita

è godersi la sera.

 

 

 

Viene, va, torna lontano

La bella sconosciuta…

Ma perché non l’ho chiamata?

Coraggio solo in versi!

 

 

 

10 novembre 2024

 

Prego i miei lettori di ascoltare lo sfogo di una giovane donna, mia amica, appena arrivata dall’Inferno. 

«Tu, dio terribile» dice lei, sdraiata sul letto, «hai di nuovo visitato la mia casa, sei venuto ancora a deludermi, ad infangarmi, a dissuadermi dal voler vivere, a piegarmi, a umiliarmi, a farmi male, ad uccidermi quasi e a lasciarmi mezza morta all’angolo di una strada: sì, laggiù, in quella fetida strada di periferia, ubriaca e piena di pasticche… là, sola, perduta, purtroppo non ancora morta ma viva solo per poter ancora soffrire…». Prende un momento il fiato. «Vieni da me adesso, perfido dio dell’amore, Eros, che strazi il cuore degli umani e delle donne, commuoviti almeno un poco, almeno per assistermi dopo che mi hai quasi ammazzato. Io voglio guarire. Sì, adesso, appena sveglia e ancora viva, questa mattina, ancora a letto, e chissà chi mi ci ha portato. Io ricordo soltanto la strada schifosa, il marciapiede puzzolente… ma stamattina voglio provare ancora a respirare. Sono ancora viva e posso riposare ancora nel tepore del letto. E se guardo fuori dalla finestra vedo il sole, un bel sole, e così… così potrei uscire di casa e andare a passeggiare, se lo voglio, se veramente lo voglio… Ma non ho la forza… Però devo sforzarmi, perché sono ancora viva dopo ieri sera, quando volevo morire in quell’angolo di strada brutta, sporca, di notte… E poi per chi? Per cosa?… Proprio non posso, non ce la faccio a sopportare… Lui non mi vuole ed è come se la vita mi avesse detto:  tu non sei degna, io ti escludo, tu devi morire… Ma no, non m’importa, non m’importa più di niente, devo soltanto alzarmi da questo letto e dimostrare a me stessa che sono capace di continuare a vivere… Sì, sì, devo alzarmi e andare a passeggiare perché la voglia di vivere, mi è stato detto, sempre ritorna come un meccanismo che non si arresta… Io voglio soltanto piangere ancora perché è bello piangere e consola il cuore… Ma poi devo alzarmi da questo letto, oh certo. Infatti adesso, la sottoscritta, Marina S,. decide di tirarsi su dal letto, si alza e si fa addirittura una doccia, per quanto possa sembrare difficile, e poi si mette addosso il vestito più bello e se ne va in giro per le strade della sua città… e così le amiche le diranno vedendola passare: «Ma guardate Marina… sì, Marina… che se ne va tranquilla e felice per la città, dopo quello che è successo».

È rimasta sdraiata, Marina. Ora si alza un poco sui gomiti e si osserva nel grande specchio dell’armadio. Si trova sciupata, brutta… Pensa al coro immaginario delle amiche: «Ma guardate Marina. Quanto è tranquilla, ma guardate quanto è felice!».

Si distende di nuovo sul letto. Non ce la fa ad alzarsi. «Quanto sto male, porca miseria» dice piangendo, «sto proprio male!».

 

 

9 novembre 2024

 

Dunque l’arte, cioè la pittura, sopravvive per il fatto che in ogni appartamento, dal più grande e lussuoso al più piccolo e misero, ci sono pareti da riempire, da abbellire.

 

 

Stavo in Vespa, un po’ fuori Roma. Superai un ciclista che, in quella strada in salita, arrancava faticosamente. Io mi accostai un momento e gli dissi: «Serve una spinta?». Così, per scherzare, non so come mi venne in mente, forse ero di buonumore. Lui si mise a ridere, disse che in effetti, era una buona idea. Allora ci salutammo e andai avanti. Tornando verso casa lo vedi che veniva in senso contrario. Ci salutammo per un istante.

Ecco, un’amicizia durata qualche secondo, che però in un certo senso durerà in eterno.

 

 

Quella volta, invece di andare alla presentazione della rivista letteraria Nuovi Argomenti e incontrare le solite persone, le solite facce, andai a fare una passeggiata e vicino a un cassettone trovai un libro, una vecchissima edizione della Bhagavad Gita. Ecco dove stava la verità, o almeno un tassello di quel mosaico che potremmo chiamare verità, in mezzo all’immondizia. Non mi stupisce affatto.

 

 

Le antichissime chiese di Roma dopo il restauro diventano sempre più brutte. Perché la loro bellezza stava, almeno in buona parte, nei colori sfumati, nelle pareti screpolate, cioè nei segni che il tempo aveva lasciato. L’idea sarebbe quella di riportare l’edificio a com’era all’inizio, per rifarlo come nuovo. Così si rovina tutto o quasi tutto. Stessa cosa con le normali case. Le ripuliscono, tolgono i meravigliosi colori imprecisi, sovrapposti, mescolati come il tempo ha voluto, naturalmente, senza il lavoro dell’essere umano che spesso, invece di migliorare, peggiora.

 

 

8 novembre 2024

 

 

Avanti, mondo. Fa’ quello che vuoi, come sempre, e ancora.

Questa è la mia preghiera mattutina.

Mi schiaccerai anche oggi? Oh certo, non ho dubbi. Eppure sono ancora vivo, abbastanza vivo per sperare di non essere abbattuto come una bestia da allevamento quando è il momento di venderla per farla mangiare.

Sono qui, per essere piegato ma non morire ancora, e per intestardirmi in questo mio desiderio cosciente che non vuole essere di misera sopravvivenza: non voglio che un minuto scorra dopo l’altro, e poi un’ora e un giorno e un anno… perché vivere tanto per vivere, no, non vorrei.

Vieni, mondo, sono ancora tuo. Un tuo figlio, che tu accogli e poi punisci. Ma quali sono stati i miei peccati?

Siamo i tuoi animaletti, noi tutti, e docilmente ci abbandoniamo nelle tue braccia.

Permettimi ancora da vivere un poco, e concedimi almeno di scrivere una preghiera inutile come questa.

 

 

Una poesia di Dylan Thomas  

Nella mia arte o mestiere scontrosamente esercitato nel silenzio notturno, quando soltanto la luna infuria e gli amanti giacciono nel letto con tutti i loro affanni tra le braccia, io mi affatico su una luce che canta, non per pane o ambizione, né per vanità o per vendere fascino sui palcoscenici d’avorio ma per il comune salario del loro più intimo cuore. Non per il superbo che s’apparta dalla luna che infuria io scrivo su queste pagine di spuma, né per i morti che torreggiano con loro salmi e usignoli ma per gli amanti che abbracciano tutte le angosce dei secoli, che non pagano lodi né salario e non si curano del mio mestiere o arte.

 

In my craft or sullen art/Exercised in the still night/When only the moon rages/And the lovers lie abed/With all their griefs in their arms,/I labour by singing light/Not for ambition or bread/Or the strut and trade of charms/On the ivory stages/But for the common wages/Of their most secret heart./Not for the proud man apart/From the raging moon I write/On these spindrift pages/Nor for the towering dead/With their nightingales and psalms/But for the lovers, their arms/Round the griefs of the ages,/Who pay no praise or wages/Nor heed my craft or art.

 

(traduzione in prosa di r.v.)

 

 

 

7 novembre 2024

 

Ah, ecco quello che sono. Quello che sono sempre stato e che avevo dimenticato perché mi sono perso. Non ho fatto altro che disperdermi, dissolvermi, svanire, allontanarmi da ciò che avrei potuto essere ma che non ero, e non sono.

Proprio da quel punto lì. Me lo ricordo benissimo. Fu uno degli episodi che posso citare con maggiore chiarezza. C’era la strada lungo una valle delle Dolomiti, che andava dritta da Cavalese a Predazzo. Io ero in un piccolo albergo di Ziano. Spesso, di sera, prima di andare a dormire, aprivo la finestra della mia camera e vedevo le automobili che andavano in fila, sotto le montagne, dentro il silenzio della notte. Ma lontano erano quelle automobili dall’albergo dove stavo io. Come un fruscio si sentiva. Ecco, quello era uno di quei momenti che ricordo meglio, ed ero un bambino. Da lì mi sono poi allontanato, per disperdermi.

Ma una canzone dei Beatles mi riporta con grande precisione a un altro di quei momenti. Era una festa di compleanno. Paola, ragazzina che non so come facesse ad essere già così femminile pur avendo appena tredici anni. Ma forse sono io a ricordarla così. Il mio primo bacio. La sua pelle sotto le mie mani che la tenevano stretta ai fianchi mentre ballavamo Let it be, che era, diciamo così, un lento che si poteva ballare in coppia.

Ecco, io ascoltando adesso questa canzone ritorno tutto intero a quello che ero, e da cui mi sono allontanato. Nulla è cambiato. L’amore in fondo è tutto lì. Quelle erano le prime impressioni e quelle sono rimaste se ancora spira il vento caldo della vita.

Mi accorgo però che non posso descrivere il nucleo vero di quelle sensazioni, ma solo accennare alla superficie di esse. L’odore, la pelle sotto le mie mani, il buio, le persone che ballano vicino a me.

Capisco che arrivare al centro di tutto questo significherebbe arrivare veramente alla verità su me stesso, e allora ciò significherebbe giungere alla meta di tutta una vita, e allora non si avrebbe più bisogno di niente, tanto meno di scrivere. Forse scrivere vuol dire rimandare eternamente, girare intorno a uno di quei momenti, avvicinarsi e poi tornarci di nuovo e trarre da questo andare e tornare nuove energie per potersi ancora librare in aria, cadere, per rialzarsi e tentare ancora il volo, ancora e ancora.

Mi sembra che, almeno questa mattina, Let it be sia il canto della mia liturgia personale. La mia religione non ha preti, né chiese dove entrare a pregare. Ho una speranza che è comune a tutti i fedeli di tante altre religioni del mondo, cioè salvare la mia anima.

Mi distendo sul letto, chiudo le luci. Mi avvicino a quello che ero, mi dissolvo, mi allontano, mi ritrovo. Ascolto ancora questa canzone. Giusto, lascia che sia.

 

 

 

 

6 novembre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, decima e ultima parte

 

Tra me e la vecchiaia. 

«Dunque dovevi arrivare, prima o poi…» dico io.

«Era inevitabile» risponde la vecchiaia.

«Ma guarda che c’è ancora tempo, puoi tornare indietro, non mi sento vecchio e la mia età non significa essere vecchi. Sono un uomo “maturo”, sì, diciamo così».

«Certo, certo… però non mi scapperai, tra qualche tempo. E sarò vecchiaia vera: vari problemi fisici, se non gravi perlomeno invalidanti, depressione, ansia, solitudine…».

«Vattene affanculo, io sarò un vecchietto arzillo e diritto, bello, ricco, sempre in viaggio per andare a fare nuotate meravigliose alle isole Hawaii, e poi andare in Nepal, Sri Lanka, Indonesia, senza trascurare Messico e  Brasile e Stati Uniti, eccetera eccetera. Insieme alla mia Teresa, ovviamente. Ci divertiremo un sacco. Già mi vedo in partenza. Ti saluto brutta e triste vecchiaia, vai da qualcun altro».

«Come no!» risponde lei, decrepita, che sembra la Befana ma senza scopa. «Tutti vorreste questo. Anche alla mia amica, quella vestita sempre di nero, non siete capaci di trattarla con gentilezza e comprensione».

«Parli della Morte?» domando.

«E di altro dovrei parlare? Siete capaci soltanto di ribellarvi, di protestare, d’insultare… Ma lei fa soltanto il suo lavoro».

«Vabbè, comunque la signora mi verrà a trovare un giorno, nel sonno, mentre sto sdraiato su una bella spiaggia. Sarà una cosa dolce e in un certo senso giusta. L’accetterò. Ma tu nel frattempo te ne puoi tornare da dove sei venuta. Ripassa tra un po’ di anni».

«Scusami, sai, non volevo infastidirti. In effetti, sei ancora un bell’uomo, anche se in questi dialoghi imprevedibili hai un po’ abusato di questo giochetto, diciamo così autoreferenziale, cioè il trucco di parlare di te stesso usando i tuoi personaggi. Sembri ancora un ragazzino, anche se me lo fai dire tu».

«Però è vero» dico io, «lo dice pure Teresa… Comunque adesso vai, hai milioni di esseri umani a disposizione. Ti saluto. E cerca di rimetterti un po’ a posto, hai un aspetto terribile. Fai ginnastica, usa le creme di bellezza, vai alle terme… La prossima volta che mi verrai a trovano non voglio nemmeno riconoscerti. Sarai ringiovanita, avrai l’aspetto di una bella ragazza. Pensa, la vecchiaia che diventa giovane!».

«Eh, magari… Però almeno mi ha fatto bene parlare con te, sono meno triste».

«Certo, perché il sogno ha un grande potere. Per qualche istante può vincere la consueta, noiosa, tragica realtà. E non è detto che sognare non faccia bene alla salute!».

«Forse hai ragione» dice lei, «almeno devo andare dal parrucchiere a farmi i capelli. Sono contenta di aver partecipato a questa serie di dialoghi imprevedibili. Stravaganti, poetici, ironici, polemici…. Penso che però sia arrivato il momento di terminarli e di passare ad altro. Giusto?».

«Sì, è vero. Questo è l’ultimo dialogo imprevedibile. Andiamo avanti, passiamo ad altro. Ci sono tante cose da dire, da scrivere. Altri argomenti da trattare. Del resto i miei lettori, pochi ma buoni, aspettano le cose che scrivo in questa rubrica intitolata Diario del re del bosco. Non posso deluderli. Ciao vecchiaia, io me ne vado a fare una bella passeggiata. E mi raccomando, fai il viaggio al contrario: da veccha a ragazza, da ragazza a bambina, da bambina a neonata, fino a tornare nella pancia di tua madre per poi rinascere un’altra volta».

«Porca miseria, le idee non ti mancano..».

«Infatti. Ora rileggo ciò che ho scritto e lo pubblico sul mio sito, come ogni giorno. È una bella giornata di sole. Bisogna essere felici».

 

 

 

 

 

5 novembre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, nona parte

 

Tra il cadavere e la tomba. 

«Certo, è un po’ umido qui…», dice il cadavere appena messo sottoterra.

«Bè, cosa t’aspettavi? Una camera da villaggio vacanza, o di un hotel a cinque stelle? Bisogna adattarsi nella vita!» risponde la tomba.

«Ma che mi prendi per il culo? Io sono morto, casomai mi dovrei adattare nella morte!».

«Scherzavo… su, non te la prendere».

«Sì, sì, e chi se la prende… Però c’è un silenzio di tomba (scusa la battutaccia) e poi, essendo una tomba di famiglia, non è che si facciano le feste, quaggiù. Tutti zitti, tutti a farsi mangiare dai vermi… Che allegria! Ma scusa, non è che ogni tanto si possa uscire a fare un giretto? Nei film degli zombi io li ho visti i morti che scoperchiano le tombe e si fanno una bella passeggiata».

«Quelli sono film, mio caro, è fantasia, pura immaginazione», ribatte cortesemente la tomba.

«Ah, perché questa sarebbe la realtà? Io non l’avevo mai visto un cadavere che parla con la sua tomba!».

«Hai ragione, questa non è una cosa vera. È l’invenzione un po’ macabra di Roberto Varese, questo scrittore che ha la capacità di passare dal sublime al volgare, dal poetico al grottesco, con grande vivacità e sapienza letteraria».

«Oh santo cielo, questa autocelebrazione se la poteva risparmiare» dice il cadavere. «Finiamola qui, che è meglio. Ciao simpatica tomba!».

«Ciao mio bel cadavere! E tanti auguri!».

 

 

 

 

 

4 novembre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, ottava parte 

 

Tra Babbo Natale e la Befana. 

«Tra poco ci toccherà fare questa stronzata solita delle feste di Natale, io vestito col costume rosso, la barba… ma a chi diavolo è venuta in mente questa storia del Babbo Natale?» domanda lui.

«È una cosa nordica, penso, che poi è stata introdotta in Italia» risponde lei. «Io la mia origine, dovessi dirti, non la conosco, forse ha un origine “nostrana”, davvero non saprei».

«Ma non ha nessuna importanza» dice lui, «tanto sono cose per fare un po’ di soldi».

«Vero. La gente s’inventa di tutto per i soldi» dice la vecchina con la scopa, «sono capaci di speculare su Gesù Bambino, la Madonna, Giuseppe, i Re Magi… e ti ricordi questa faccenda di halloween, un paio di mesi fa?».

«E come no? I maghetti, dolcetto e scherzetto… Ma del resto, che male c’è? La gente ha bisogno di distrarsi, di divertirsi…» dice Babbo Natale rimuginando. «Nulla di strano. Capodanno, la Befana, Pasqua, il Primo Maggio, Ferragosto… Sono feste che con il tempo perdono significato, E quelle religiose, che sarebbero cosa seria, vengono sfruttate per soldi e per fare un po’ di casino. Ma perché stupirsi? Il mondo deve andare avanti».

«Certo, nessuna sorpresa, soltanto mi sono francamente rotta le ovaie di partecipare alla solita sceneggiata. Ma la gente non si annoia mai, non vuole mai qualcosa di nuovo? Ancora sta vecchia con la scopa gli va bene?».

«Bè, sono cose commerciali, la gente deve campare, i negozi fanno gli ordini, sono pronti ad accogliere i pupazzi, i giocattoli, eccetera. È un business che ancora funziona. E finché ci pagano, cara mia…».

«Certo, andiamo avanti… Però il prossimo anni dobbiamo cambiare qualcosa. Io mi presento giovane, minigonna mozzafiato, seni rifatti, labbra a canotto. Tu ti togli il costume e la barba e rimani nudo come mamma t’ha fatto, anche se una madre non ce l’hai mai avuta, sei solo un prodotto commerciale e il personaggio un po’ infiacchito e sulla via del tramonto».

«Ottima idea!» esclama Babbo Natale. E in più ci facciamo le canne, e grossi cylum riempiti di hashish, ma di qualità buona, ottima, non la robaccia che si trova comunemente. Libanese puro, non so se mi spiego… E poi ci mettiamo a distribuire  a tutti lo stupefacente».

«Giusto. E poi ci mettiamo pure a protestare, sì, innalziamo cartelli con sopra scritto qualcosa, non importa cosa, e ci mettiamo a sbraitare, e se arriva la manganellata della polizia, meglio ancora. Tutta  pubblicità. La protesta, meglio se assolutamente inutile, va sempre di moda. Però deve essere “politicamente corretta”, di questi tempi. Una cosa a favore dei gay, contro il riscaldamento globale… ».

«Vabbè dai, lo facciamo il prossimo anno perché ci dobbiamo preparare bene. Per queste feste faremo la solita scena scontatissima» dice Babbo Natale. Però ci devono pagare subito, cash insomma. Niente carte di credito, bonifici bancari e assegni per Babbo Natale e la Befana che portano i regali ai mocciosi viziati. Io arriverò sulla slitta elettrica, o per lo meno ibrida, tu dovresti scendere nel camino che però non ce l’ha più nessuno, dunque ti consiglio di salire in ascensore e lasciar perdere le cazzate».

«Ok, allora ci vediamo, caro mio» dice la vecchina. «Stammi bene. E mi raccomando la barba, lunga, bianca, come quella di Walt Whitman».

«Okkey tesoro. A presto».

Infine si vedono allontanarsi col sottofondo delle canzoni di Natale, tipo White Christmas cantata da Bing Crosby, oppure Merry Christmas nella versione più recente di Ed Sheeran ed Elton John.

3 novembre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, settima parte

 

Tra la nave e il passeggero. 

«Andiamo, andiamo disperatamente, al di là degli oceani e dei cieli già conosciuti» dico io.

«Accendo i motori a tutta forza per navigare veloce, per varcare questo mare che conosci fin troppo bene, amico mio».

«Sì, partiamo, adesso. Ho bisogno di allontanarmi da questo luogo impossibile, ormai invivibile. Nuovi orizzonti mi aspettano per essere oltrepassati. Andrò così lontano che, arrivato a destinazione, non riconoscerò più nemmeno la mia faccia. Perché il vero viaggio è quello che facciamo dentro noi stessi. Troverò una nuova luce, laggiù, lontanissima, vicinissima, cioè nel punto più profondo del mio cuore. Andiamo».

 

 

 

 

2 novembre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, sesta parte

 

Tra me e la Vespa.

«Non ti sei stancato di starmi sul groppone?» dice la mia Vespa 300 GTS.

«No, non mi sono stancato» rispondo io. Finché ce la farai, mi porterai in giro, dove voglio, quando voglio».

«Spero che almeno mi tratterai bene. Già qualche problemino ce l’abbiamo avuto per mancanza di manutenzione, cioè deplorevoli ritardi nel cambiare l’olio, di controllare le gomme eccetera eccetera. Non vorrai ridurmi come la tua precedente Vespa, la gloriosa PX200».

«No no, stai tranquilla» dico io, «sarai maneggiata e gestita e pulita come non mai. Abbiamo ancora tanta strada da percorrere insieme».

«Lo spero… Allora dove andiamo oggi?».

«Al lago di Nemi, dove sennò?».

«È proprio una mania… Comunque non mi dispiace questo viaggetto. Prendiamo il Grande Raccordo Anulare, arriviamo all’uscita della via Appia, la prendiamo, facciamo tutta la strada passando per Albano, Ariccia… poi arriviamo a Genzano e svoltiamo a sinistra e ci ritroviamo sull’orlo dell’antico vulcano, e da lì contempliamo il lago, la magnifica visione che ci ha sempre incantato. Non solo a noi due. Anche a James Frazer, l’autore de Il ramo d’oro. Solo che lui non sarà venuto in Vespa, ai suoi tempi. Avrà preso un calesse, penso. Comunque da lì cominciamo dolcemente a scendere verso il lago, guardando il lago come in una lunga carrellata cinematografica… il nostro lago, sempre silenzioso e bello. Poi oltrepassiamo il Museo delle Navi senza navi, facciamo il giro della riva e ci fermiamo alla fonte di Egeria: così bevi e ti rinfreschi la faccia nell’acqua benefica. Poi risali in sella ed eccoci finalmente alla spiaggetta. Qui ci riposiamo, io raffreddo il motore e tu ti siedi. In questo mese di ottobre, in un giorno lavorativo, non ci sarà nessuno, o soltanto i pochissimi amanti del lago che da sempre si ritrovano qui, anche d’inverno, e spariscono quando arrivano le orde dei bagnanti e dei visitatori senza rispetto, che buttano in terra le cartacce, fanno sentire le loro orrende musichette e si tuffano come fossero al mare, magari a Coccia di Morto… Stiamo un po’ lì, poi tu ti mangi il panino che ti sei portato dietro e torniamo indietro».

«Allora si parte?» domando io.

«La benzina ce l’ho?».

«Tranquilla, hai il serbatoio pieno».

«Okkey ragazzo!» dice la mia Vespa rossa fiammante, partiamo! Il nostro adorato lago ci aspetta! Non ci ferma nessuno!».

 

 

1 novembre2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, quinta parte

 

Tra la rivista erotica degli anni Sessanta intitolata Caballero e la rivista Ermeneutica letteraria, edita da Fabrizio Serra editore.

«Ammazza oh, ma guarda che me capita de incontrà!» dice la rivista Caballero, che vedevo quando ero adolescente, insieme ai miei amichetti. Chi aveva coraggio, andava dal giornalaio a chiederla, però molto rifiutavano di darcela perché era vietata ai minori, e noi eravamo proprio ragazzini, dodici, tredici anni.

«Direi proprio uno strano incontro, non vi è alcun dubbio» risponde l’altra rivista. «Non vorrei apparire scortese, ma proprio non capisco l’opportunità di questo dialogo».

«E daje, adesso non fà quella superiore, mica te vojo dì niente de offensivo!» dice la Caballero.

«No certo, però non credo che lei nemmeno conosca ciò di cui mi occupo».

«Bè, effettivamente…».

«Ecco, vede? Allora le dirò che io intendo proporre, in un momento della cultura critica non privo di ripiegamenti regressivi, un ambito teorico e applicativo del metodo ermeneutico sul versante letterario, al di là di idee precostituite e di delimitazioni temporali».

«E sarebbe?».

«Sarebbe che io, rifacendomi ad una nozione complessa e composita di metodo, sottratto a formalizzazioni concettuali e motivato da un tempo di comprensione veritiera, cerco di seguire la via del recupero piuttosto che della innovazione, e una prassi sperimentale che evidenzi le implicazioni filosofiche della critica. È chiaro? Per questo l’ermeneutica letteraria può trovare la propria linfa nel retroterra intellettuale di alcuni critici del secolo scorso (Gadamer, Ricoeur), costituito da una vera filosofia (o da una vera scienza o da una vera arte) dell’interpretazione. Lei invece di cosa si occupa esattamente?».

«Di cosa mi occupavo vorrebbe sapè, perché io da mo’ che non sono più stampata. Ero una delle prime riviste erotiche pubblicate in Italia, ma non ero porno. C’erano le foto di donne nude, un po’ lascive, che a quei tempi già facevano notizie, e poi dei fotoromanzi. Ero venduta in un sacco di copie, ero famosa. Poi è finita, non sono più stata pubblicata. Ma tutto finisce, vero?».

«Sì, purtroppo è vero, tutto finisce».

 

 

 

 

 

31 ottobre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, quarta parte

 

Tra il prete e la chiesa.

«Io non credo più ma che posso fare adesso? Quello che è rimasto è l’amore per la Vergine Maria. La venero e le chiedo benedizioni. L’amore è come la fede? Ma la mia ragione si rifiuta di accettare i dogmi della religione. Dio, Spirito Santo, il Figlio, l’Eucarestia, sono parole a cui non riesco più a dare significato. Servo la Messa senza crederci. Questo è il peccato peggiore. Dovrei un giorno, dopo avere celebrato l’ultima Messa della giornata, dire ai fedeli: “Andate in pace ma prima voglio dirvi che questa è l’ultima volta che mi vedete. Vado via perché non posso continuare così. Non  sarò più prete, non sarò più niente. Non so come vivrò. Ma non posso continuare a vivere nella menzogna”.

Non avrò mai il coraggio di farlo. Aprirò come ogni mattina il portone della chiesa e la sera lo chiuderò.

Ora è il momento di chiudere. Sono le otto di sera. Mi siedo sui gradini della chiesa. Mi appoggio con la schiena al portone. Ti chiedo di sostenermi come fossi cosa viva, tu che sei stata basilica del mio cuore, la cattedrale della mia anima».

 

 

 

30 ottobre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, terza parte

 

Tra la madre e il figlio morto.

«Cosa ho fatto per meritarmi questo?» dice la madre al figlio morto. «Sono sola ormai. Non posso più dire nulla a nessuno perché soltanto a te io volevo parlare. Ho cominciato a farlo quando stavi nella mia pancia, ricordi? Sentivo che ti muovevi e io ti sussurravo le parole dolci che ogni madre dice al proprio piccolo. Poi sei nato e ti tenevo al seno e ti nutrivo, e ti dicevo di non succhiare troppo, eri vorace, volevi crescere in fretta. E infatti sei cresciuto. Come niente eri in piedi e ti muovevi per casa e io ti stavo dietro, attenta che non ti facessi male. Mi ricordo il primo distacco, il giorno in cui andasti all’asilo. Che pianti, che strilli, non ci volevi andare e io ho dovuto sopportare e reprimere l’istinto di riportati a casa. Potrei mettermi ad elencare tutti i piccoli distacchi: il primo viaggio da solo, le serate con la fidanzata con relativi ritardi notturni che mi facevano preoccupare… Ma adesso, adesso come faccio ad aspettarti per l’eternità? Ho voglia soltanto di morire anche io e di raggiungerti, di stare insieme, in una tomba, nel buio e nella polvere con i minuscoli animali che si nutrono dei corpi. Ma almeno starei insieme a te, figlio. Non voglio lasciarti solo.

Ma tu vorresti che la facessi finita, che con un solo rapido gesto volassi oltre la finestra per raggiungerti? Saresti contento così?

Forse non vorresti che soffrissi, che mi deturpassi cadendo al suolo, e non vorresti che mi ritrovassero piena di sangue, che la tua mamma diventasse una specie di mostro orrendo.

Forse vuoi che restiamo vicini, io qui e tu nella polvere o in cielo, tra le stelle, in qualche luogo che sembra lontanissimo e forse invece è vicinissimo, separati soltanto da una rete invisibile che ci impedisce di vederci e di parlare ma non di sentire la vicinanza, il calore che ancora possiamo darci.

Io ti sto vicino e ti tengo la mano e mi sembra che tu dorma un sonno profondissimo, e che mentre dormi, sogni, e questo sogno ti porta lontano, Un giorno, dieci anni, quanto ci vorrà per rivederci? Che grande pazienza dovrò avere. Tu però per tutto questo tempo mi vedrai e mi seguirai e mi sussurrerai all’orecchio parole dolci, come quelle che ti dicevo quando ti tenevo tra le braccia appena nato. Sono sicura che lo farai, e io le ascolterò con tutto il cuore. Ne ho bisogno. Comincia adesso, ti prego, e non smettere mai di parlarmi, figlio».

 

 

29 ottobre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, seconda parte

 

Tra me e il lago di Nemi.

«Come sei bello, lago, tu il lago più bello che abbia visto, sei più bello dei laghi delle Dolomiti… cioè no, non sei più bello, certo, loro stanno lassù, meravigliosi, però tu hai una bellezza diversa, più intima, sei pieno di leggende che ti hanno fatto diventare assolutamente speciale, unico. Perciò io ti amo e ti considero il lago più bello del mondo. (Questo succede nei grandi amori, nei quali l’aspetto fisico dell’amato, o dell’amata, viene esaltato, esagerato). Quante volte mi sono bagnato nelle tua acqua fresca durante le più calde giornate e nottate estive: circondato dal bosco, immerso in te come nel grande accogliente ventre di una madre, sono stato felice.

Per questo mi sono interessato ai tanti siti di grande valore archeologico che si trovano sulla tua riva: la villa di Cesare, il tunnel che ti unisce alla valle  di Ariccia, oltre le pareti vulcaniche, e le navi di Caligola, riportate in superficie tanti anni fa e poi bruciate non si sa come e da chi, e innanzitutto il Santuario dedicato a Diana dove all’intero c’è il piccolo teatro dove si svolgevano i riti religiosi, perciò, primo fra tutti (molto probabilmente) il celeberrimo duello per la carica sacerdotale del “re del bosco”, qualcosa di enorme importanza, un teatro antichissimo sepolto sotto una palazzina abusiva, e di cui a nessuno importa assolutamente nulla. Eppure è una storia così affascinante, quella del rex Nemorensis, e famosa in tutto il mondo».

«Certo, per via del libro di Frazer, Il ramo d’oro» dice il lago di Nemi.

«Appunto. Però a giornalisti, politici, e perfino archeologi la cosa non pare interessare, come mai? Ho studiato la faccenda, ho scritto un articolo e creato questo sito, ho messo la pianta del teatro realizzata quando venne scavato il sito negli anni Trenta del secolo scorso e poi ricoperto, ma nessuno fa nemmeno un cenno. Eppure, che il teatro fosse il luogo dove si svolgeva il duello mortale non è una mia fantasia, ci sono molti indizi, e molte persone di grande valore e competenza hanno condiviso tale ipotesi. Ma a parte il duello, il teatro sta lì, sotto la villetta, ed è un abuso clamoroso, completamente illegale. Sai, caro lago, che spettacoli stupendi si potrebbero fare d’estate, se fosse riportato alla luce…».

«Sì, sarebbe meraviglioso» risponde lui, «e come sai il teatro è stato costruito per avere la visione del lago, cioè del sottoscritto, dietro il palcoscenico: una scenografia suggestiva, stupenda, non ci sono aggettivi appropriati…».

«Ma tutti stanno zitti, fanno finta di niente! Io ho studiato tanto, ho parlato con un sacco di persone, sindaci di Nemi, archeologi, giornalisti, ma a nessuno importa nulla».

«Non fa niente. Quello che dovevi fare, l’hai fatto. E poi nel tuo sito ti sei messo a scrivere ogni giorno il Diario del re del bosco, ottima idea. Inutile dire quante cose belle e curiose e interessanti riesci a scrivere».

«E vabbè, tu però sei di parte!».

«Certo, del resto chi meriterebbe di essere considerato e amato da me?».

«Tu mi consideri e mi ami? Ma sei un lago, il lago di Nemi, è una cosa folle!».

«Le cose folli arrivano là dove la ragionevolezza non potrà mai arrivare… Non preoccuparti, tu sei uno scrittore, il tuo mestiere è inventare, fantasticare, e dire il vero in tanti modi diversi… Ma insomma, quando mi vieni a trovare? Adesso è la stagione migliore, non ci sono quelli che fanno il bagno e hanno le radioline e i telefonini e si comportano come fossero al mare, magari a Fregene… Adesso puoi arrivare da Genzano, scendere giù fino alla mia riva, bere alla fonte di Egeria e poi sederti nel silenzio quasi assoluto».

«Sì, lago mio, verrò presto. E sai che ti dico? Forse è meglio che a nessuno interessi, altrimenti arriverebbero ruspe, televisioni, turisti… Ho saputo che sono stati stanziati fondi per il restauro del Santuario, in occasione del Giubileo. Che succederà? E il teatro, verrà preso in considerazione?».

«Anche di questo non mi preoccuperei… Sai bene come vanno le cose in Italia. Hanno stanziato i fondi ma forse non si vedrà mai nessuno e tutto continuerà come prima, come sempre. Il teatro resterà sotto la villetta e chi ci abita si godrà il panorama e il silenzio, alla faccia delle leggi contro l’abusivismo edilizio e soprattutto alla faccia di tutti voi, poveri cittadini di un disgraziato Paese. Il silenzio che ami tanto non sarà infranto da nessun rumore molesto, vedrai, e tu potrai godere a tuo modo della bellezza del lago di Nemi, che sarei io».

 

 

28 ottobre 2024

 

DIALOGHI IMPREVEDIBILI, prima parte

 

Tra la luna e il ragazzo.

Ragazzo: «Che mi faresti salire fino lassù?».

«No», risponde la luna.

«Ma scusa, perché no?».

«Ho detto no e basta!».

«Che stronza!».

 

Tra il passero e il davanzale.

Dice il passero: «Posso appoggiarmi un momento, sono un po’ stanco».

«Certo, certo…» fa il davanzale.

«Grazie, molto gentile».

«Soltanto, non fare la cacca, che poi la cameriera è costretta a pulire».

«E chi sarebbe poi questa cameriera?» domanda il passero, «se non sono indiscreto».

«Una filippina. Molto brava. Anche bella, sai? Tutti gli abitanti del palazzo la corteggiano ma lei non la dà a nessuno».

«E come mai? È frigida, ha problemi sessuali, è una suora che ha fatto i voti di castità?».

«No no, che voti di castità! È una mezza scema che vuole l’uomo dei suoi sogni, perciò non cederà a nessuno e mai cederà finché non troverà l’uomo adatto».

«Avoja ad aspettà» dice il davanzale. Con gli uomini che girano adesso, tutti mezzi froci, le verranno le ragnatele in mezzo alle gambe, poverina».

«E vabbè, una sua scelta. Dai, vieni, posati su di me, riposati, che sei stanco. Passero, passero dolce, ti accolgo volentieri… Però preferirei che ti facessi i cazzi tuoi!».

 

Tra il passero e il verme.

«Fai veramente schifo» dice il passero al verme. «Sei proprio un verme, di nome e di fatto».

«Quanto sei simpatico! E tu non mi guardare. Io lavoro la terra, e quando capita mangio i cadaveri di animali e di esseri umani».

«Ah, proprio un bel lavoro!».

«Mica l’ho scelto io, scusa tanto, eh? E del resto qualcuno lo deve fare, no? Mica tutti possono svolazzare e cinguettare tutto il giorno senza fare una benemerita minchia».

Il passero riflette… «Bè, in effetti, sono stato maleducato. Cosa posso fare per farmi perdonare?».

«Non saprei… Potresti farti mangiare da me. Così almeno staresti zitto per l’eternità».

«Ah ah ah, ma io non mi faccio mica prendere!».

Il passero si lancia e in un attimo il verme è cotto e mangiato.

Poi arriva la verma, cioè la moglie del verme appena deceduto. «Disgraziato di passerò, me l’hai magnato!» urla la verma, che a dire la verità è una bella vermetta, con le curve al punto giusto, un bel visetto, anche se sempre di verme, un invertebrato della specie dei Nematodi (dal greco: νῆμα nḕma cioè “filo”, ed -εἰδής, –eidḕs cioè “forma”), di forma cilindrica insomma, un po’ viscido, dunque non esageriamo. Continua a urlare la verma: «E ora come farò senza di lui! Era un gran lavoratore, anche a letto. Maledetto passero, la pagherai!».

Il passero non ci pensa un momento, si avventa sulla verma e se la mangia pure a lei.

Morale della favola: due vermi stecchiti e un passero con la pancia piena. Che storia triste… Quasi mi sono commosso ad averla scritta.

 

Tra me e l’ascensore.

«Ma perché sei sempre guasto? Ma ti hanno costruito apposta così? E io adesso mi devo fare sette piani di scale? Limortacci tua, ascensore di merda!». Mi dispiace usare questo linguaggio assai disdicevole, ma quando ci vuole, ci vuole. Tutti i giorni è così.

«Mi scusi signore» risponde l’ascensore, «mica è colpa mia se mi rompo sempre. Lei se la deve prendere con la ditta che mi ha installato. Sappia, signore, che sono cose delicate queste. Basta un nulla, e rimaniamo fermi. Per non dire di quelle volte che ci rompiamo e l’ascensore cade giù senza freni dall’ottavo, decimo piano con un essere umano dentro e lì non c’è scampo, il passeggero è bello che schiacciato come una salsiccia altoatesina, sa, che si chiama luganega, che poi non si capisce perché si chiama così se è una semplice salsiccia. Una è ‘na salsiccia nordica, quasi tedesca, e vabbè, ma sempre salsiccia è, per quale diavolo di ragione devi generare confusione. Uno va da quelle parti, alpine, bellissime, ed entra in una ristorante e chiede una salsiccia e il cameriere risponde che non ce l’hanno. Terribile equivoco, perché il ristorante perde un cliente per un semplice cambiamento di nome…».

«Va bene, questo discorso è molto interessante« dico io, però devo farmi adesso sette piani di scale pure con le borse della spesa, ti rendi conto?».

E l’ascensore risponde: «E che me ne frega a me!».

 

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27 ottobre 2024

 

Oh sì, la luna nuova di questa alba di autunno!

Sulla linea delle colline, sorge ad est il chiarore che meglio conosciamo, che abbiamo visto e rivisto, descritto e catalogato in tutto ciò che abbiamo scritto, in poesie di quattro versi o lunghi poemi, negli estenuanti resoconti ad amici durante le fredde e piovose serate d’inverno quando è il momento della confidenza, dell’intimità, della ricerca di un comune sentire, dunque di un comune vedere. Ma il neroblu della notte risponde tutto intorno: insiste, non retrocede e pare voglia respingere nemmeno per un solo istante ed annullare una volta per tutte quel tenue miscuglio di luci, come se fosse possibile impedire all’alba di non imporsi nel cielo. È una battaglia in aria.

Il buio resiste: neroblu contro gialloazzurro… è pieno il cielo di diversi modi d’intendere la luce. (Noi, che assistiamo allo spettacolo ogni volta avvincente, cambiamo repentinamente gli stati d’animo poiché ogni sfumatura ci scava dentro). Finalmente giunge una specie di arancione, molto denso, deciso, e trova posto vicino all’azzurro. Vuol dominare la scena? Sì, no, e chi lo sa… però si trasforma presto in un rosso di fuoco che pretende tutto lo spazio circostante e anche lo spazio nostro profondo.

Allora noi voltiamo lo sguardo e rimaniamo sorpresi da questa luna che ieri, sì, proprio ieri sera, pareva assente, nascosta dietro alle nuvole,  che sono i paraventi del cielo c preservano i pianeti e gli altri remotissimi astri per le ore di meraviglia e di estasi. Non l’avevamo notata, nemmeno pensata, quella luna. Sarebbe ingiusto dire che perciò non esisteva? Certamente, perché tutto esiste anche se non appare ai nostri occhi. E chissà com’era. Una luna non è mai uguale all’altra, giusto?

Le notti e le giornate si avvicendano continuamente, eternamente: il lavoro, la famiglia, gli affetti… e la terra ci manca sotto i piedi perché il senso di tutto ciò, come il tempo, ci sfugge. Non siamo più capaci di distinguere un giorno dall’altro. Soltanto alzando gli occhi al cielo, davanti a questa grande messinscena dell’alba e della luna, ripetuta ogni volta ma sempre diversa, ci rendiamo conto che oggi è oggi e che ieri era ieri. Scopriamo cosa siamo adesso, e cosa vogliamo davanti al giallo, al rosso, all’azzurro prima delicato e poi solenne e poi imperioso che alla fine vince su tutto il resto. Ritroviamo qualcosa di sensato, di ragionevole in questo trascorrere del cielo da un colore all’altro. Ogni luce ci fa ritrovare, ci fa comprendere un pezzetto della nostra oscurissima vita.

Luna nuovissima e insolita, tu rinnovi i nostri cuori, eh sì, i nostri cuori ancora giovani, e per sempre!

 

 

 

 

26 ottobre 2024

 

Dopo la catastrofe, tiro a campare. Leggo le notizie del giorno traendo insegnamenti da omicidi, incidenti automobilistici, guerre, discorsi dei politici. Commento amaramente, al bar, coi pensionati, il declino inarrestabile del mondo.

«Ma quando c’era Lui» dice il sor Giovanni, seduto davanti a un quartino di vino bianco, ricevendo segni d’assenso dagli altri ma non da me, «queste cose non succedevano!».

No, non succedevano. Ma non succede mai niente, in fondo. Le cose accadono e basta, scorrendo sulla superficie delle cose, senza cambiare nulla della sostanza del mondo, incomprensibile, inalterabile. Anche adesso, cosa volete che succeda?

Insomma, me ne sto tranquillo a sognare come sarebbe bello il mondo se si potesse… Ma non si può.

E così, facendo finta di niente, io vado incontro al mio destino dopo la catastrofe. E quale sarebbe il mio destino? Stare immobile sotto al sole, al bar dei pensionati. Sto fermo a farmi scaldare la faccia mentre fuggo da me stesso senza farmi vedere da nessuno, una fuga interiore dal me stesso di cui sono stufo ed arcistufo. Per arrivare dove? Dove si arriva dopo la catastrofe, è chiaro.

Perché è vero: dopo la catastrofe, la musica può essere molto dolce. Infatti, proprio in quel momento, delicatissime note di violino provenienti da una finestra aperta piovono su questo gruppo di persone sedute ai tavolini di un bar. Ma chi è che sta suonando? Non si sa. Un musicista, evidentemente, che si sta esercitando.

Sono il solo ad apprezzare queste melodie, che nascono e crescono proprio quando non ho più speranze né timori. È una musica molto bella, anche con interruzioni e ripetizioni, che trascrivo nella mente, aggiungendo il suono di una campanella che mi sembra si accompagni perfettamente al suono del violino: Dìn Don, Dìn Don… Per apprezzarla bisogna prima aver superato la catastrofe. Essere  dunque morti e rimorti, e poi rinati come esseri non più umani ma animali, vegetali, e minerali o forse semplicemente esseri inclassificabili, che sentono dopo aver tutto sentito, che piangono dopo aver pianto su ogni cosa e persona.

Che ve ne pare?

Dopo la catastrofe, si può ricominciare a nominare le cose: cielo, casa, donna, bambino… sì, usando parole nuove, inaudite, che sembrano le solite ma possiedono invece una purezza e una limpidezza inaspettate. Adesso, perciò, riprovo a parlare ma capisco che è solo un balbettare, dopo la catastrofe.

 

 

 

25 ottobre 2024

 

Ci sono cose che passano definitivamente, che scompaiono alla vista e muoiono e mai più ritorneranno, anche se però ci sono quelle che rimangono rinchiuse eternamente nella tomba che ci portiamo dentro e che si espande ogni giorno, interiormente, infinitamente, senza bisogno di marmo e di fiori intorno, la nostra tomba dappertutto e per sempre.

Ma quando apriamo un tubetto di caramelle Charms! «Oh la mia vita è cambiata da quando compro le Charms! Tutte le amiche mi invidiano quando mi vedono aprire un tubetto di Charms!».

Davvero è una fortuna per tutti noi che esistano le caramelle Charms! Sì, sicuro! Da una parte c’è la tomba e ciò che contiene, cioè quasi tutto, e dall’altra il tubetto colorato e luminescente e stupefacente. La scelta, mi pare, è obbligata. Chi mai accetterebbe l’esilio se potesse rimanere in patria? Chi mai amerebbe il buio se potesse un raggio di sole spezzare la tenebra? Chi mai resterebbe povero e con vestiti stracciati a chiedere l’elemosina agli angoli delle chiese con i pidocchi che gli saltellano sulla testa se potesse vivere in una grande villa sulla Costa Azzurra a godersi il sole settembrino ai bordi della piscina guardando in trasparenza nel bicchiere di cristallo un liquido multicolore lasciando vagare la mente e per considerare alla fine di quel vagare com’è facile abbandonarsi totalmente al lusso, ai piaceri del vivere, all’immoralità dei comportamenti sessuali, alle corse folli su automobili sportive lungo la costa di Monte Carlo come in quel famoso film con Gary Grant e Grace Kelly, ai viaggi intorno al mondo, ai Safari in Africa, alle spese più futili, alle serate mondane…

Lì, sul bordo della mia piscina appena sopra Monte Carlo, osservando il bel panorama della Costai, in compagnia della signora Olga e di Teresa ma anche di Cristina e Giovanni, io ad esempio domanderei al fedele maggiordomo (ex di Potere Operaio, poi entrato nella colonna romana delle Brigate Rosse): «Dimmi, caro, cosa c’è in programma stasera?».

Allora lui risponderebbe: «Oh, nulla di speciale, signore. C’è una festa dalla principessa Dodi».

«Uffa che noia!» esclamerei, se davvero vivessi in una grande villa sulla Costa Azzurra a godermi il sole settembrino ai bordi della piscina guardando in trasparenza nel bicchiere di cristallo un liquido multicolore e lasciando così vagare la mente per considerare infine com’è facile abbandonarsi al lusso, ai piaceri del vivere, alle mollezze dei costumi, eccetera eccetera. Il problema è che lì non ci sto, e temo non ci starò mai. Ma non importa. L’importante è che io possa aprire un tubetto di caramelle Charms e sognare di vivere in una grande villa sulla Costa Azzurra a godermi il sole settembrino ai bordi della piscina guardando in trasparenza nel bicchiere di cristallo un liquido multicolore lasciando così vagare la mente, eccetera eccetera e così via all’infinito, poiché è evidente che non soltanto io ma nessun altro preferirebbe una caramella qualsiasi a una Charms, la notte al giorno, l’amaro al dolce, il morto al vivo, il deserto alle grandi e floride vallate del Nord Dakota quando le marmotte scivolano nell’acqua di un torrente provocando un piccolo sciacquettio. Però mi chiedo: per tutta questa pubblicità gratuita che sto facendo non meriterei un enorme pacco di tubetti Charms? Oh sì che lo meriterei, ma nulla di più, oh no, perché altrimenti sarebbe pubblicità vera e propria e perciò farebbe schifo, e io non mi vendo a nessuno, mi dispiace. Preferisco la purezza alla sporcizia, il sole alle tenebre, la poesia alla creatività pubblicitaria.. ed è per questo che preferisco le Charms!

 

 

 

24 ottobre2024

 

«Bisognerebbe avere la forza di attendere: raccogliere in sé per tutta una vita (per tutta una lunga vita, possibilmente) i succhi più dolci; e solo allora, solo alla fine, riusciremmo forse a scrivere non più che dieci righe di poesia».

 

Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge

 

 

Estate.

 

 

Estate, ma dentro il cuore. Dimentichiamo il freddo che non porta a nulla ed entriamo trionfalmente con fanfare e squilli di trombe nella nuova stagione che, almeno per quanto mi riguarda, sei tu.

Vedi, per spiegarmi e farti credere ciò che sto dicendo dovrei elencare e descrivere tutti i nostri baci e le carezze e gli appuntamenti all’una di notte e poi le confidenze… Ma basterà dire: è questa l’estate. Estate a piazza Trilussa, scendendo da via Garibaldi, e a Ponte Sisto.

Estate in pieno inverno. Con la pioggia e il traffico impazzito. Proprio così. Estate quando arrivi tu.

Quando arriverà l’estate domani mattina, a che ora esattamente? A piazza Fiume, alle undici di mattina, davanti alla Rinascente?

 

 

 

Ma sì, è sempre l’estate, dico a me stesso, la sua estate, purché lei si distenda sul prato in un modo che ho già avuto la fortuna di vedere l’aprile scorso come gesto annunciatore e ora in autunno inoltrato rivedo come decreto e conferma: squillano le trombe dei fiori che sbocceranno, ballano in aria le farfalle che non ci sono ancora, mentre in coro le nuvole… eccetera eccetera. Basta che l’amata si distenda sull’erba per dare inizio all’estate.

Ciò che segue sarà pubblicato in Cielo: «Quel primo bacio fu dato da R. a T. il 22 aprile 2024 alle ore 15,46 nei dintorni di Roma, nella radura di un boschetto, a due passi dal lago di Bracciano. Lei si era distesa sull’erba e lui si accostò per baciarla. Poi lei gli prese la testa fra le mani e si abbracciarono con un certo ardore… lei si scostò per prendere fiato. Lui le mise una mano sul seno e subito dopo, e questo forse lei non se l’aspettava, almeno non così rapidamente, sotto la gonna… Allora lei rispose a quell’attacco slacciandogli la cintura dei pantaloni… a quel punto fu lui a rimanere sorpreso… Dunque ricapitolando: lei che si distende sull’erba, baci, mano sul seno, sotto la gonna, slacciamento della cintura…». Dal libro Baci e Carezze tra R. e T., resoconto del 22 aprile 2024 redatto da Angelus Novus II e Gabriele IV. Edizioni del Paradiso, pagg. 315, denari celesti 24,50)

 

 

 

 

 

23 ottobre 2024

 

 

Correre, poi fermarsi e cominciare a scavare una buca, profonda, talmente profonda che… sbuchiamo dall’altra parte del pianeta, dopo tanto buio, finalmente alla luce!

Poi mettersi a dormire. Dormire, all’infinito, sognando molto, fino alla fine dei tempi. Spegnersi, dunque. Morire veramente a noi stessi.

Poi alzarsi e ricominciare a vivere, ma… Bruciare. Bruciare davvero per trasformarsi come l’Araba Fenice. Così volare sopra il mondo. Uccello, angelo.

Siamo noi, talvolta, così.

 

 

Mio sogno, mio diletto, paura di non raggiungere il cielo, fiore, terra bagnata odorosa: aspettami, ecco, vengo da te… Fiore, sì, terra e cielo e tutto il resto ma soprattutto: sogno, mio sogno.

Ora, a quest’ora, sono tuo davvero. Interamente, assolutamente.

Prendimi con te. Non lasciarmi qui. Adesso posso immergermi in te e dimenticarmi. Sono vivo solo in questo gioco profondissimo e vero.

 

 

Questa è la fine, mia dolcissima amica, è la fine di tutte le cose, di tutte le domande e delle pochissime risposte che abbiamo ottenuto dopo una vita intera di dubbi e d’incertezza. Mia incantevole amica, che mi stai aspettando da troppo tempo ormai, qui finiscono i desideri e le speranze, le belle serate e le brutte giornate, tutti i colori della luce e perfino il buio più tenebroso. Ma non bisogna avere paura di questo fatale avvenimento: strazianti sono soltanto i primissimi momenti di questa attesissima fine. Poi ogni ansietà, ogni timore si placa diventando un ricordo che già sta svanendo, e così ci sciogliamo nel tuo abbraccio silenzioso, mia dolcissima amica.

 

 

Prendere un ferry boat dall’isola di Manhattan ed arrivare a Long Island, oh yea, mi ci vedo proprio anche se forse non lo prenderò mai quel ferry boat, peccato perché sarebbe bello saltare su quel traghetto che se però si chiamasse semplicemente traghetto e non ferry boat perderebbe quasi tutto il suo fascino mentre per fortuna si chiama proprio così, ferry boat, e se ci saltassimo sopra tutti insieme ci porterebbe dolcemente navigando nelle acque newyorkesi tra i grattacieli e la spiaggia di Long Beach dalla quale potremmo ammirare tutto il panorama e cioè un bel pezzo di costa fino a Great South  Bay, oh yea, e forse anche oltre nelle giornate serene arrivando a contemplare, verso sera, le luci che si accendono dalla parte opposta e dunque Long Branch o addirittura Bradley Park, luoghi che ci fanno sognare ad occhi aperti come non riuscirebbero mai Ladispoli o Tor San Lorenzo ed è per questo che sarebbe bello saltare sul ferry boat che chiamandosi appunto ferry boat ci trasporta come niente fosse lontano da questo cazzo di posto dove viviamo.

 

Robertare…

 

Io roberto

Tu roberti

Egli roberta

Noi robertiamo

Voi robertate

Essi robertano

 

 

Io robertavo

Tu robertavi

Egli robertava

Noi robertavamo

Voi robertavate

Essi robertavano

 

Io robertai

Tu robertasti

Egli robertò

Noi robertammo

Voi robertaste

Essi robertarono

 

Io roberterò

Tu roberterai

Egli roberterà

Noi roberteremo

Voi roberterete

Essi roberteranno

 

Roberta tu!

Robertate voi!

 

Robertando

Avendo robertato

 

Robertante

Robertato

 

 

 

 

22 ottobre2024

 

Fondare una religione, una rivista letteraria, un’azienda multinazionale. Fondare uno Stato in Africa Centrale. Sì, può essere bello. Ma è ancora più eccitante distruggere, annientare ciò che avevamo costruito con impegno, fatica. Sì, l’ebbrezza di distruggere se stessi facendo saltare in aria la speranza che ci aveva tenuti in vita per un certo periodo di tempo. Minare le fondamenta del nostro essere, della Storia, della grande illusione universale!

Così forse arriveremo a quel Vuoto di cui parlano i monaci buddisti, i mistici, coloro che sono andati oltre ogni desiderio e ambizione. Ho conosciuto persone che, del tutto inconsciamente, durante la loro vita non hanno fatto altro che distruggere tutto ciò che avevano intorno, la propria professione, cose e amicizie, specialmente amicizie, riuscendo perciò a realizzare un ambizioso programma d’incenerimento e di sconfitta personale e che si sono ritrovate quasi felicemente dentro un vuoto siderale, in una specie di paradiso dove riposavano e mai più soffrivano.

Disfarsi dell’inutile, di ciò che sembra necessario, attaccare il palazzo d’inverno delle nostre stupidissime e assurde ambizioni!

Ma forse è un’ ambizione anche questa.

 

 

 

 

Rinchiudersi in un convento. Sì, dove fuggire per scacciare le angosce e le tentazioni e quegli spiritelli perfidi che mi girano nel cervello e per ritrovarmi finalmente dietro alte e spesse mura a pregare Dio di salvarmi l’anima mia nei freschi mattini quando ci si alza presto e l’alba è piena di promesse e la giornata intera si stende limpida e inoffensiva e senza alcun intoppo fino a sera, purché la vita resti fuori da quelle mura, lontana e così indecifrabile al di là di quel grosso portone che la terrebbe separata per non disturbare mai più quella ritrovata pace impermeabile al vento caldo e pieno dei profumi e dei ricordi che mi porterebbero il ricordo di lei e tutti i desideri e i rimpianti se io appunto non restassi dietro a quelle mura impegnato a salvarmi l’anima che però un giorno potrebbe svanire per essere stata troppo al chiuso e al freddo.

 

 

Alto, altissimo… Irraggiungibile e inconoscibile, misterioso.

Neve in cima a una montagna, lontano. È come un bacio, il più intenso che si possa dare (o ricevere), è come una solitudine difficilmente sopportabile eppure bella, ricca di tante cose e che non fa rimpiangere nessun tipo di compagnia. È un nocciolo duro intorno al quale girare. Alto, altissimo questo ripiegarsi su se stessi, questo scendere fino in fondo.

 

 

Abdicare, è interessante questo verbo poco usato che leggo per caso in un vecchio libro. Io conosco la storia di una uno che una volta ha abdicato davvero.

Abdicare… sì, come stava sul punto di fare il re Faruk d’Egitto la mattina del 18 giugno 1952 ad Alessandria, nel grande studio al secondo piano della reggia, a favore del figlio che proprio in quei giorni aveva compiuto appena due anni. Chiaro che l’atto di successione al trono era soltanto formale, non c’era bisogno nemmeno di un consiglio di reggenza: Nasser e gli altri ufficiali dell’esercito egiziano, che erano riusciti ad attuare in poche ore il loro colpo di Stato militare, non avevano alcuna intenzione di formare un consiglio di reggenza, era evidente, e non aspettavano altro che di abolire la monarchia. Al trentaduenne Faruk, salito al trono all’età di sedici anni nel 1932, non restava dunque che mettere la firma su quel foglio che un colonnello traditore aveva già posato sulla sua scrivania.

Gli avvenimenti fino a quel punto erano stati precipitosi e violenti; e soprattutto casuali, in quanto la Storia, noi ormai l’abbiamo capito, non procede secondo una logica precostituita e ineluttabile ma seguendo le imprevedibili leggi del Caos. Forse se egli avesse avuto il tempo di parlare al generale della caserma del Cairo, suo fedelissimo, i colonnelli di Alessandria non avrebbero avuto il coraggio di procedere nel piano golpista. Sarebbe bastata una telefonata, pensava Faruk guardando le facce incattivite dei golpisti, e con qualche sparatoria tutto sarebbe tornato a posto. Ma quando sulla reggia erano cominciate a piovere proiettili e colpi di mortaio, le linee telefoniche erano state interrotte. Lui, Faruk, aveva prima pensato a sistemare le figlie e la moglie dietro un armadio, nella camera da letto, e poi era corso al telefono. La linea era ancora attiva. Era riuscito a fare una telefonata al Primo Ministro che lo aveva tenuto occupato più del necessario: fischiavano le pallottole, cadevano le bombe, non era il momento di mettersi a sviscerare le cause di quel colpo di Stato, ma quando quello iniziava a blaterare… forse nemmeno si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Quando smise di parlare con quel politicante inetto, finalmente compose il numero del suo vecchio amico che guidava la grande caserma di Alessandria e che si trovava dunque a poche centinaia di metri dalla reggia dove egli si trovava circondato. Il telefono aveva fatto uno squillo e poi aveva taciuto. Sarebbe bastato qualche attimo in più per parlare col generale che sicuramente sarebbe accorso per difenderlo e scacciare i ribelli, che non erano più di duecento/trecento soldati dotati di pistole, mitragliatori e artiglieria leggera. Certo, magari non sarebbe bastato il suo intervento e la resa dei conti sarebbe stata semplicemente rinviata: la situazione era ormai compromessa, di questo ormai bisognava rendersi conto, disse a se stesso. Quegli ultimi giorni erano stati terribili: gli incendi e i saccheggi provocati da quei pazzi dei Fratelli Musulmani, gli scontri in parlamento e nello stesso governo… Il colpo di Stato non era che la logica conseguenza di una crisi economica e politica che era cominciata con la grave sconfitta nella guerra con Israele nel ’48. Già, era tutto cominciato da lì… e lui, Faruk I, re dell’Egitto e del Sudan, sovrano della Nubia, del Kordofan e del Darfur, non era riuscito a fermare il disastro…

Queste riflessioni le stava facendo continuando a rimanere seduto alla sua scrivania mentre i militari aspettavano in piedi formando un cerchio attorno al suo tavolo. Stavano aspettando troppo? Non importa, si disse, un re abdica una sola volta nella vita e quella per di più era la fine della dinastia che aveva regnato in Egitto per quasi due secoli, dai tempi di Mehmet Alì.

Faruk alzò lo sguardo verso la finestra: da lì si vedeva il mare e il porto di Alessandria, e le mura della grande moschea e più in là il deserto… Una bella mattinata di giugno, era quella. Durante la notte il vento aveva spazzato via l’afa e l’aria adesso era più fresca.

Gli venne in mente che avrebbe potuto alzarsi e avvicinarsi subito alla finestra per guardare il panorama e riflettere un poco. Ma allora i colonnelli avrebbero protestato. Fino a quel momento non c’erano state minacce fisiche, se non implicite, dunque era meglio pazientare e cercare di andare incontro alle loro esigenze di ribelli molto indaffarati. E poi, riflettere su cosa? Non c’era altro da fare che firmare il foglio…

Dunque prese la penna e fece ciò che tutti stavano aspettando con ansia: firmò. Poi, con un grande sforzo, sentendosi improvvisamente esausto, si alzò in piedi per raggiungere la finestra nel silenzio assoluto.

Un gabbiano passò velocissimo davanti ai suoi occhi sbucando da dietro ai tetti per dirigersi verso il porto e il mare.

 

 

Decalogo.

Non andare, non muoversi, non raggiungere mai la meta. Forse un giorno partire, sì, ma sbagliando subito strada, intenzione, visione del mondo. Ritrovarsi sempre al punto di partenza.

Amare per non essere amati. Piegare la testa di fronte all’amato: dire sì, sì, e ancora sì, ad ogni costo. Mai non cedere, mai non volersi umiliare. Anzi aggiungere: «Non mi vuoi? Non importa, non posso smettere di desiderarti per sempre».

Pregare all’aria aperta, sotto il sole, insieme a tutte le creature che, ignorate, fanno della loro muta esistenza un lungo credo: poiché se ballano i filamenti delle alghe (e tu l’hai visto lo spettacolo marino al di là della maschera da sub, amore mio), anche i pesci multicolori si muovono al ritmo segreto del mare, del grande mare, del mare infinito.

Le nuvole viaggiano veloci dentro il quadro della tua visione, ma non sto parlando di adesso: hai undici anni e con tuo fratello sei sdraiato sull’erba a guardare il cielo… ed ecco che, mute, le creature del mondo dicono la loro preghiera, che non è altro che chiedere di vivere e respirare.

Descrivere ciò che non si riesce a descrivere, perché è dietro alla facciata delle cose e delle creature e della gente: il mondo incerto, invisibile, che sta davanti ai nostri occhi ed aspetta soltanto una voce. Ma questa voce non l’ascolteremo mai.

 

 

Salutiamo la nostra amica e complice, a cui da sempre abbiamo teso la mano. Dico veramente: da sempre. Soltanto che prima, e questo prima giunge fino a poco tempo fa, cioè fino a ieri, tutto ciò era un inconscio richiamo a cui noi rispondevamo con un battito di ciglia, con un sussurro a noi stessi, con uno sguardo verso laggiù, laggiù, dove non c’era nessuno, nessuno.

Oggi invece salutiamo la nostra amica che si annuncia con dolcezza. È l’autunno e sarebbe bello morire.

La sentiamo nell’aria. È qui attorno e canta: la canzone della gestazione e del disfacimento. Nel procedere si arretra. Si nasce per morire. Quanta gioia e stanchezza nella germinazione, nel seme che si spacca per far entrare la vita!

Dunque, se è vero che in ogni inizio c’è sempre la fine, noi salutiamo in ogni nascituro il vecchio che sarà, e il prossimo morituro. Andiamo dall’ostetrica e l’abbracciamo piangendo, e poi le diciamo con  rabbia: «Tu favorisci la morte di questa povera creatura!».

La nostra amica è vestita di nero, sì, ma soltanto per abitudine. Ci sorride, vedete? Sta sorridendo ed è una bella ragazza. (Accidenti come è bella!).

Corriamo ad abbracciarla.

 

 

 

 

21 ottobre 2024

 

Ma chi è veramente uno scrittore? (Parliamo di quelli veri, che sono pochi, rarissimi. Mi dispiace ma è così). Ecco, lui s’interessa a cose che di solito nessuno immagina, a curiosità imbarazzanti, corre incontro a stranezze che non avremo mai il coraggio di affrontare. Ma lui ha il tempo, la voglia di fare tutto ciò, poiché è una specie di mestiere il suo, questo di vivere così, e non potrebbe farne a meno.

Gira per la città. Perfettamente in incognito. Non ha divise, travestimenti, nessuno gli riconosce un ruolo qualsiasi. Cammina, come il più solitario degli uomini, con le mani in tasca, come il più grande fannullone sulla faccia di questa Terra, eppure è uno che si prende la briga di andare a cercare il pelo nell’uovo, per così dire, in tutto ciò che vede. In fondo, davvero, svolge una mansione importante anche se sconosciuta e i risultati del suo impegno verranno resi noti molto più tardi, talvolta dopo anni e decenni e forse anche mai. Almeno su questo pianeta.

Faccio un esempio: sta camminando per la via più trafficata della sua città contornato dal solito trambusto di automobili, folla, puzza di gas di scarico, ma ad un tratto alzando gli occhi al cielo si accorge di una nuvola immensa che incombe su tutto e su tutti, un cumulo gigantesco, minaccioso e meraviglioso. Un fungo atomico sembra. Ma la vita scorre placidamente, nessuno s’accorge della minaccia, forse perché minaccia non è affatto. Non importa. Avrebbe potuto esserlo. E comunque questo spavento o stupore suo sarà testimonianza del fatto che quel giorno, come una specie di sentinella, un uomo stava attento al cielo, alle nuvole che assomigliano ad esplosioni atomiche. Un tale uomo è esistito, si dirà, facendo un lavoro appartato ma assolutamente necessario. Dopo chissà quanto tempo e magari secoli verrà resa nota una paginetta del suddetto che spiegherà l’evento; o invece no, non sarà reso noto proprio nulla perché quella paginetta andrà perduta e forse non sarà stata nemmeno scritta dal nostro beneamato ficcanaso perché può darsi non abbia avuto voglia di scrivere una sola parola. Sapete, lui è così. Non si tratta di pigrizia. Mentre gli altri producono, si agitano freneticamente, più che altro egli aspetta, continuando a passeggiare con una certa lentezza, un passo dopo l’altro. L’importante, pensa, è esistere, passeggiare, osservare, senza apparire o aver voglia di riconoscimenti. Forse i suoi resoconti saranno pubblicati su altri pianeti, in lontanissime galassie come ad esempio il pianeta chiamato Brahmaloka, che si trova un po’ sopra lo Svargaloka, dimora degli Dei. Insomma una specie di paradiso, anche dell’editoria, suppongo. Là vengono pubblicati i migliori libri scritti in ogni angolo dell’universo, in edizioni sfolgoranti, multicolori, che destano meraviglia soltanto a guardarli, figuriamoci poi a leggerli. Ogni parola è registrata, anche quel verso scritto da un ragazzo adolescente che mai più si è dedicato alla letteratura. Un solo verso. Ma quel verso resterà, per sempre. Almeno finché non diventa pura luce. Ma tutti diventeremo pure luce, dico noi carne ed  ossa con tutte le parole e i silenzi e tutto ciò che abbiamo detto o non detto. Soprattutto i silenzi saranno apprezzati e conservati: le persone che non hanno mai scritto assolutamente nulla, riceveranno l’equivalente di cento premi Nobel per la letteratura, ma senza un soldo. Nel Brahmaloka i soldi non sono necessari, questo affermano con totali sicurezza i testi sacri, cioè i Purana innanzitutto.

Altro esempio. Una coppia di giovani si bacia sulla panchina di un parco pubblico. Il nostro ficcanaso, il nostro inviato speciale sul fronte della vita quotidiana, è rimasto lì in piedi ad osservarli fino a quando il ragazzo non si è accorto della sua presenza e non lo ha cacciato in malo modo. Ma lui non stava facendo nulla di male. Candidamente stava meditando ed osservando ponendosi la seguente domanda: è lui che ora sta succhiando la lingua a lei, o è lei che lo sta facendo, oppure si alternano?

Più tardi, quello stesso giorno, tanto per fare un ulteriore esempio, vede ad un incrocio due automobili che si sono appena scontrate. C’è anche un’ ambulanza e uno che si tiene un pezzo di garza sulla testa per arginare un’emorragia. Una donna urla raggiungendo tonalità altissime. Questo urlo è modulato, come un fosse una specie di canto di uccello. Gli infermieri stanno caricando una persona sulla barella per portarsela via, all’ospedale, mentre un gruppo dei Testimoni di Geova cantano un inno religioso, e tutto ciò gli sembra allo stesso tempo drammatico e ridicolo, e poi in quel momento un bambino s’affaccia alla finestra e grida: «Signori, Ehi Signori! È possibile portare qui quell’uomo? Io vivo da solo in questo lugubre appartamento. Non ho fratelli, e i miei genitori mi risultano estranei. Ho bisogno di un amico. Lo accudirò, lo curerò con infinita attenzione, ve lo prometto. Per favore, portatelo su!».

Finiti gli esempi.

 

 

 

20 ottobre 2024

 

Ancora preso dalla dolcezza del risveglio mattutino sul limitare del sonno, ascoltai il cane dei vicini abbaiare non alla luna ma al sole, che già era alto, altissimo nel cielo. Però restai a letto pensando: devo alzarmi, devo reagire alla mia terribile pigrizia.

Dunque era giunto il tempo delle decisioni irrevocabili, pensai, come diceva tanti anni fa un filibustiere, un uomo che era diventato importante, un nevrotico, un uomo incapace di starsene a casa tranquillo a leggere un libro o a poltrire dentro il letto, insomma un essere umano incapace di riflettere, di ragionare. Ce ne sono stati tanti nella Storia. Anche adesso il mondo ne è pieno. Mica tutti dittatori. Diciamo persone che sembrano avere una certa propensione alla rottura delle scatole altrui. Basta essere un capoufficio. Che rompe, rompe, rompe… fino a quando i suoi impiegati dicono in coro (non in sua presenza), durante la pausa pranzo: «Ma perché, stramaledetto uomo, non te ne stai a casa?». Invece potrebbero dirgli le seguenti illuminanti parole: «Caro capoufficio, scopri lo yoga della non-azione, della stasi che non è una stasi, della fuga che è un rimanere. Impara la meditazione del fiore di loto, che agisce non agendo, che fa vivere non vivendo, che permette di morire non morendo». Questo potrebbero dire quegli impiegati al loro capoufficio. Sarebbe cosa gentile e innanzitutto utile. Molti di noi dovrebbero imparare questo tipo di meditazione. Se la praticassero, il mondo cambierebbe. Commercialisti stressati tornerebbero dalle loro mogli bisognose di giochi nuovi e proibiti. Ingegneri una volta ingegnosi ritroverebbero l’ingegnosità perduta sognando ad occhi aperti e scoprendo come può essere ben costruito e funzionante un sogno che procura piacere e risana la mente. Transessuali brasiliani sempre a caccia di soldi, la smetterebbero di speculare sull’ambiguità sessuale dei maschi repressi e tornerebbero in patria, che so, magari a Bahia, togliendosi finalmente quel trucco pesante e ridicolo dalla faccia e ritrovando così semplicità, pulizia, onestà. Nonne senza scrupoli la pianterebbero di provocare micidiali sensi di colpa nei nipotini chiamandoli al telefono per dire: «Non mi vieni mai a trovare!». Presidenti degli Stati Uniti la smetterebbero di favorire guerre in giro per il mondo per difendere la supremazia americana suo mondo occidentale e per una volta nella vita spegnerebbero il telefonino per rilassarsi leggendo la Baghavad Gita in mezzo al giardino della Casa Bianca osservando gli uccellini che sui rami si disinteressano del potere, della fama, dei sondaggi di opinione, presi invece interamente da un alito di vento, dalla nuvola che in quel preciso momento sta passando sul cielo turchese di Washington… Tutte queste persone, e molte altre ancore, cambierebbero non poco la loro vita se conoscessero la meditazione della non-azione, che non è altro che un’azione “interiore” e disinteressata.

Però io, dopo aver pensato a tutto ciò, decisi che dovevo almeno alzarmi dal letto. Decisione non facile. Ma coraggiosamente la presi. E passai all’azione pura e semplice, ormai inevitabile. Scostai le coperte. Mi alzai sul busto e poggiai sul pavimento la gamba sinistra, e poi quella destra: ero seduto sul letto. Guardai fuori dalla finestra. C’era un pallido sole. Già, in fondo è autunno, dissi a me stesso. La stagione dei raffreddori, dei dolori articolari, della sonnolenza dopo pranzo. Sarebbe meglio rimettersi a dormire. Ma dovevo alzarmi in piedi e arrivare in cucina, ad ogni costo: là mi sarei seduto di nuovo e avrei fatto colazione.

Raccogliendo tutte le mie forze, mi ritrovai in piedi. Feci un passo in avanti, verso il corridoio. Ero inebriato, drogato dal fervore dell’agire, del fare, del combinare qualcosa. «Inizia una nuova vita per me» pensai. «Andare in cucina, e poi cominciare a viaggiare! Visitare nuovi oceani e continenti, non fermarsi mai più! Oltrepassare l’orizzonte, varcare la linea del già conosciuto, del già vissuto. Raggiungere tutto ciò che vive ed esiste altrove! Comprare un biglietto di sola andata, preparare i bagagli, salutare i parenti trattenendo le lacrime, fare in modo che il nostro desiderio di fuga e di abbandono delle responsabilità coincida perfettamente con ciò che ci aspettiamo dalla nostra faccia guardandoci nello specchio. Sì, conoscere noi stessi per mezzo di un’avventura, balzare in avanti senza badare alle conseguenze. Ora è il momento, sono pronto! Ecco, nulla e nessuno mi può fermare! Dimenticatevi di me. Addio, addio a tutto e a tutti!».

Così andai in cucina a fare colazione. Poi tornai subito a letto.

 

 

 

19 ottobre 2024

 

 

Fuggita ovunque, tornerai dappertutto. Perché semplicemente cercandoti, aspettandoti, noi già un poco ti troviamo. Sei la Luminosa, anzi l’Incandescente: quando stanotte ti sei voltata a guardarci, e poi ci hai chiamato, abbiamo finalmente potuto seguirti, calmi, non impauriti come al solito quando procediamo senza sapere dove andiamo.

Queste continue invocazioni, queste preghiere mattutine ti annoiano, lo so. Vorresti giocare con i tuoi amici, lanciare la palla in cielo, farla rimbalzare sulla faccia della luna. E tu gioca, chi te lo impedisce? Salta, corri, canta!

All’inizio, quando avevo cominciato a pensarti, mi divertivo come un matto; ora, appena sveglio, mi commuovo pensando a come sei e a come diventerai…

No, non a come diventerai. Il futuro non viene preso in considerazione in questa mia preghiera o sogno. Esiste soltanto la parola adesso accompagnata dalla breve ma significativa parola qui.

Adesso, in questa fredda mattina. Qui, chiuso nella mia camera.

Aiutami a vivere, Luminosa!

 

 

 

 

Ecco, arriva un usignolo, forse un airone o qualsiasi altro uccello bianco e immacolato almeno nel piumaggio che sbuca dalle nuvole e plana dolcissimamente su questo pianeta di fuoco e di pianto per risollevare il nostro spirito impigrito, ma tu resterai delusa a contemplare meschini dolori e ancor più meschini desideri. Stranissima fanciulla, che vivi e non vivi, che respiri solo nel profondo e sei presente come fossi miele (ma sei anche carne) e aria (ma sei anche terra), e così inganni il mondo e la sua durezza, perché nulla ti tiene incatenata al metallo, né un rimorso né un dovere: piuma contro corazza, spiga di grano contro coltello, oppure…

Ma no, non c’è maniera degna di descriverti, e descrivere questa situazione che ci vede coinvolti: i paragoni, le similitudini, le metafore, pur mescolati in un ritmo inatteso, si perdono nell’insensatezza e nella pochezza delle nostre capacità di esprimere e di vivere. Il silenzio, certo, sarebbe preferibile. Ma possiamo noi, Luminosa, rimanere muti? No, non possiamo, non è giusto. Che ce ne importa di non essere all’altezza!

Siamo quello che siamo, e tu sei quella che sei, cioè una strana specie di bambina, una voglia fra le nuvole, un pensiero che vaga, un desiderio inconfessabile, una poesia nata nel profondo del cuore e che lungamente ci ha impegnato, insomma una cosa troppo bella per non creare scandalo, per non risultare incomprensibile e alla fine noiosa per chi assiste a questo spettacolo dall’esterno: tu sei un’idea, sì, ormai lo sappiamo, e cioè un nodo in fondo all’anima, eccetera eccetera (inutile perdere altro tempo, tu nemmeno ascolti!).

Oh mirabile Luminosa, resta tra noi, non te ne andare. Siamo i tuoi devoti soldatini, pronti a tutto. Aspetta ancora un poco prima di ripartire. Abbiamo da dirti altre curiose sciocchezze, quelle che a te piacciono tanto!

 

 

 

 

18 ottobre 2024

 

Vincente Aleixandre

(frammento da “La distruzione o amore”)

 

 

Eccolo finalmente, il piccolo scarabeo che arriva al verbo,

Tristissimo minuto,

Lento roteare del giorno miserabile,

Rapinatore minuscolo di tutto ciò che mai potrà aspirare al volo.

È questo un giorno qualsiasi

Come vita che indugia sull’orlo dell’arena

 

(traduzione di r.v.)

 

 

 

Più vado avanti nel tempo e più mi convinco di essere molto diverso da come pensavo, e cioè: faccio schifo. Consideriamo l’invidia, ad esempio. Qui si concentra l’immondizia di un uomo, se proprio vogliamo considerarlo tale. Leggo articoli e recensioni sui libri di miei cari amici che hanno pubblicato presso case editrici importanti, ricevuto premi letterari importanti ed elogi dai migliori critici, mentre io mi dibatto ancora nell’orrendo sottobosco letterario, ed il sentimento vero e genuino che sento affiorare in me è quello dell’invidia, chiaro e limpido come l’acqua di un laghetto di montagna; anzi, sporco e intorpidito come una fogna a cielo aperto. È inutile che finga con gli altri e innanzitutto con me stesso: io sono invidioso. Ma peggiore di un invidioso qualsiasi, perché non lo ammetto. Provate a farmelo confessare, non ci riuscirete nemmeno con la tortura. (E questa paginetta,  allora? Tra pochi istanti verrà cancellata riducendola e mai nessuno la leggerà! Ma prima voglio sfogarmi).

«Mica sarai invidioso» mi diceva ieri Teresa dopo avermi sentito parlare di quell’amico che, dicevo, «è bravino, sì… ma avergli dato quel premio, be’, mi pare esagerato!».

«Invidioso io?» ho risposto quasi gridando, colpito nel punto più profondo del mio marcio cuore, «ma stai scherzando, dico, stai scherzando per caso?». Non sono uno di quegli invidiosi lisci e rotondi con occhi cattivi che s’incontrano spesso;  invidiosi da quattro soldi, d’accordo, ma almeno onesti, in pace con se stessi. No, io sono un invidioso dalla coscienza infelice, incapace di liberarmi da quei sentimenti spregevoli che distinguo nettamente nel mio animo. Sono consapevole, ma inetto.

Perciò ho ragione io: faccio schifo.

 

 

 

UN INCONTRO IN CHAT 

 

Cercatore 1958  Ehi…

Bocca di rosa  Dimmi…

Cercatore 1958  Da dove dgt?

Bocca di rosa  Roma.

Cercatore1958 Anche io.

Bocca di rosa  Anni?

Cercatore 1958  Sessantacinque. Tu?

Bocca di rosa  Diciannove.

Cercatore 1958  Ah, bene. Mi fa piacere parlare con una ragazza giovane come te. A te non dispiace se facciamo due chiacchiere, no?

Bocca di rosa  No, non mi dispiace… anzi, mi piacciono gli uomini maturi.

Cercatore 1958  Ah sì? Bene… ma senti, tu che fai nella vita? Studi, immagino….

Bocca di rosa  Sì, sono iscritta al primo anno della facoltà di lettere, all’università La Sapienza…

Cercatore 1958 Ma davvero? Sai, io sono uno scrittore… cioè, provo ad esserlo. Forse ti interessa questa cosa di me…

Bocca di rosa Uno scrittore, davvero?

Cercatore 1958  Eh sì.

Bocca di rosa Sono onorata.

Cercatore 1958  Ma figurati…

Bocca di rosa  E cosa scrivi?

Cercatore 1958  Mah, nulla di particolare: poesie, racconti, poi due libri, una specie di romanzi…

Bocca di rosa  Ma le hai pubblicate queste cose?

Cercatore 1958  Certo! Ho pubblicato un libro di prose e poesie, che poi ho continuato a riscrivere per molti anni… Una cosa un po’ strana, magari poi te ne parlerò.

Bocca di rosa  Ehi, allora sei famoso! Wow!

Cercatore 1958 Ma no! Non sono famoso, ma nemmeno completamente sconosciuto…

Bocca di rosa  E non me lo vuoi dire come ti chiami?

Cercatore 1958 Bè… Preferirei di no, altrimenti  non potrei più parlare liberamente con te e magari dire cretinate…

Bocca di rosa Cretinate? del tipo?

Cercatore 1958  Ma non so…

Bocca di rosa  Porcate? Cioè, cose di sesso?

Cercatore 1958  Bè, insomma, non so, forse anche quelle, non si sa mai…

Bocca di rosa  Mica ci sarebbe nulla di male…

Cercatore 1958  Ah no? Pensi così? Interessante…

Bocca di rosa  Sai, io sono molto interessata al sesso…

Cercatore 1958  Sempre più interessante… Del resto, con quel nickname che ti sei messa,  c’era da aspettarselo… chissà quanti inviti da parte dei maschiacci della chat…

Bocca di rosa  Effettivamente… sì, mi piace stuzzicare i vecchi porci come te…

Cercatore 1958  Dai, ora non esageriamo…

Bocca di rosa   A me poi piace molto succhiare e leccare, sai?

Cercatore 1958  Ah…

Bocca di rosa  Come no! Ne vado matta…

Cercatore 1958  Ah sì? Hai capito…

Bocca di rosa  Sì, sì… Ho sempre voglia, io!

Cercatore 1958  Bè, fantastico… Senti, ma tu hai detto che abiti a Roma, no?

Bocca di rosa  Sì, l’ho detto.

Cercatore 1958  Allora perché non ci sentiamo al telefono?

Bocca di rosa  …

Cercatore 1958  Hai letto cosa ho scritto?

Bocca di rosa  Sì…

Cercatore 1958  E allora?

Bocca di rosa  Non posso.

Cercatore 1958  Non puoi… Ma sono le quattro del pomeriggio. Possiamo sentirci più tardi, se vuoi, o domani.

Bocca di rosa  No, non posso.

Cercatore 1958  Ma scusami, perché non puoi? Sei una studentessa universitaria, puoi fare ciò che vuoi durante la giornata, che problema c’è?

Bocca di rosa  Non posso spiegarti.

Cercatore 1958  Cioè? Non puoi spiegarmi perché non ci possiamo parlare al telefino? Ma guarda che puoi dirmi tranquillamente tutto quello che ti passa per la testa, non hai nessun obbligo nei miei confronti. Se non vuoi sentirmi, pazienza. Puoi essere sincera con me.

Bocca di rosa  No.

Cercatore 1958 No cosa? Che non vuoi sentirmi o che non puoi essere sincera?

Bocca di rosa  Ora vado.

Cercatore 1958  Come, vai? E mi lasci così?

Bocca di rosa  Sì. Non posso trattenermi adesso, mi dispiace.

Cercatore 1958  Scusa, allora sentiamoci dopo, dammi il tuo numero..

Bocca di rosa  No.

Cercatore 1958  Ma perché no? E perché mai? Guarda che non ti rompo le scatole, ti chiamo adesso ma poi non vuoi non ti chiamo più.

Bocca di rosa No. Mio padre non vuole che dia il mio numero di telefono agli sconosciuti in chat.

Cercatore 1958  Tuo padre non vuole? Ma come, dici che a te il sesso e poi dici che non puoi dare il numero di telefono perché tuo padre ha detto che non puoi dare il numero agli sconosciuti in chat… Mah. È stranissima questa cosa. Mica la capisco…

Bocca di rosa  Ecco, bravo, non la capire.

Cercatore 1958  Sì certo, non la capisco… Anzi, adesso, se ci rifletto un poco su… mi viene da pensare che…

Bocca di rosa  Cosa? Cosa ti viene da pensare?

Cercatore 1958  Bè, mi è venuto un dubbio atroce…

Bocca di rosa  Che dubbio?

Cercatore 1958  Sì, davvero atroce. Mi sa che tu…

Bocca di rosa  Io?…

Cercatore 1958  Credo che tu sia… Insomma, potrebbe essere che tu non sia una ragazza ma un maschio, cioè uno di quelli che si divertono ad usare il nickname femminile per prendere in giro le persone…

Bocca di rosa  Dai, non fare il cretino.

Cercatore 1958  Per cortesia, se sei un maschio, dimmelo.

Bocca di rosa  Sei proprio scemo… Ma come, sto fremendo di voglia, non lo capisci ancora? Ho voglia di te…

Cercatore 1958 Per la miseria… Niente male per una ragazza di 19 anni… Piuttosto disinibita, direi…

Bocca di rosa  Va bè, ciao, allora chiudo…

Cercatore 1958  No, aspetta un momento… Non chiudere. L’ho capito, sai? Sei un uomo, vero? Dimmelo, dai… Sarebbe onesto se me lo dicessi… Capisco che non è facile dirmelo dopo che mi hai preso in giro per tutto questo tempo, ma provaci. Ti riscatteresti… Non ce l’ho con te… Sei un omosessuale, vero? Ti diverti a far eccitare i maschi e così ti ecciti anche tu, tiri fuori la tua anima femminile, la esprimi in questo modo…. Però, dico, è possibile che tu mi consideri così ingenuo? Per quanto tempo volevi andare avanti con questa storia? E meno male che non ho abboccato completamente, che non mi sono fatto coinvolgere sul serio, altrimenti chissà per quanto tempo saremmo stati qui a dire stupidaggini… ma non hai qualcosa di meglio da fare? Capisco che certi certe volte non si sa come passare il tempo… Dai, su, coraggio, dimmelo… Sii sincero… Dimostrati uomo almeno per una volta, non fare sempre la femminuccia… Non preoccuparti, non mi arrabbio. E poi, scusa, tanto siamo lontani e anonimi, e perciò anche se mi dovessi arrabbiare che te ne importa? Puoi chiudere e tanti saluti… Ma tranquillo, non ti offenderò, non ti dirò nemmeno una parolaccia, ok? Coraggio. Confessa. Mi dispiace che tu non sia una vera ragazza molto sensuale, studentessa di lettere all’università La Sapienza, mi dispiace davvero tantissimo. Per alcuni momenti ti ho immaginata, come una bionda, cara ragazza, con lo sguardo intenso e intelligente, la gonna corta e due belle gambe… ne vedo tante di ragazze come te… Sì, una ragazza di cui innamorarsi immediatamente… da incontrare una domenica pomeriggio dopo averci parlato in chat… Ma sì, un colpo di fortuna, perché non dovrebbe capitare a me?… una ragazza a cui piacciono gli uomini più grandi, maturi, forse perché le è mancata la figura paterna in quanto cresciuta soltanto con la madre dopo la separazione dei genitori e perciò perennemente in cerca di un uomo che possa amarla ma anche proteggerla, guidarla, consigliarla… e io lo so quanto un giovane abbia bisogno di una guida… Io sarei stato il più paterno degli amanti, e il più comprensivo, e il più dolce… Chissà, magari sei davvero una ragazza… In fondo potrebbe ancora essere possibile… Certo, non fai molto perdissolvere i miei dubbi, ma… Forse è che tu sei veramente una ragazza timida, discreta, riservata… talvolta fai la sfrontata ma più per reagire a quella tua profonda inconfessabile timidezza che tieni celata come un tesoro, come un piccolo diamante irraggiungibile, segretissimo, inconoscibile… Sì, sicuramente, ora comincio davvero a pensare che tu sia una dolce fanciulla immacolata e pura come un giglio e delicata come un granello di sabbia che il vento della brutalità umana può sollevare e portare lontano e disperdere ma non distruggere, no, perché la tua purezza è impossibile da violare, ah certo, la tua inconfondibile castità e sincerità è comunque indistruttibile se un uomo, un uomo meschino come me ha osato (seppure per un istante) mettere in dubbio la tua sacrosanta identità di giovanissima studentessa dedita alle sudate carte delle lettere, agli studi filologici, all’impegno intellettuale che però non intralcia la tua spensieratezza, i tuoi giochi innocenti con le tue compagne di studi quando di sera, finito lo studio, vi ritrovate a ricamare, a bisbigliare dolci sciocchezze, a confidarvi le vostre speranze di diventare madri esemplari, spose fedeli… Oh perdonami cara figliola, come ho potuto anche lontanamente approfittare della tua sincerità, della tua limpida esistenza di brava ragazza di famiglia perbene, educata magari dalle suore, che veste sempre sobriamente, come una collegiale (la gonna sopra il ginocchio, il golfino blu, i capelli raccolti in uno chignon perfettamente arrotondato sulla testa, i mocassini col tacco basso essendo tu alta e slanciata e quasi magrolina e certamente senza alcun bisogno di tacchi alti come altre ragazze quasi grasse e volgari e certamente non pure e immacolate come te), oh come ho potuto dubitare?… Ti prego di scusare la mia mancanza di fiducia. Se riuscirai a comprendermi e a perdonarmi, io sicuramente riuscirò a cambiare la mia vita solitaria e triste e malinconica e un poco indecente. Sì, cara, con il tuo aiuto ce la farò a redimermi… Finalmente! Era una vita che aspettavo quest’occasione! Mi vedo già con te al parco a passeggiare con il nostro primo figlio in carrozzina, scambiandoci dolci sguardi e fremendo però talvolta di desiderio semplicemente per una piccola carezza un poco più ardita, e più tardi a casa di tuo padre e tua madre finalmente riuniti che, all’inizio titubanti per questo pretendente alla mano della figlia un po’ troppo maturo, senz’altro comprensivi ci aprono la porta guardando le paste che teniamo in mano poiché, da persone intelligenti, hanno capito che il nostro amore è più grande di ogni cosa, di ogni differenza di età o di condizione sociale o di razza eccetera eccetera… Comincerò a svegliarmi presto la mattina, vedrai, amore mio, troverò un vero lavoro anche se a questa età non è facile trovarlo, non berrò più il vino da quattro soldi insieme all’amico Bruno al bar di piazzale Adriatico, non fumerò più due sigari toscani ogni giorno ma soltanto una volta al mese… Tesoro, tesoro mio inimmaginabile, mio preziosissimo fiore innocente e vilipeso dalla mia malvagia mancanza di coraggio, di speranza, di fiducia, di buona disposizione mentale… Dimmi, amore mio limpidissimo, dimmi il tuo vero nome, cominciamo finalmente la nostra vera nuova vita insieme… dimmi la verità, soltanto la verità della tua purezza!

Bocca di rosa  Mi chiamo Salvatore Lipari, 56 anni, di Padova. Commercialista. Sposato con un figlio. Chiudo. Ciao.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

17 ottobre 2024

 

Un amico, un vecchio amico che non vedevo da anni, un po’ più grande di me, incontrato per puro caso, mi rivolge una domanda alla quale non è stato difficile rispondere: «Ma tu la ricordi come è fatta la fica?».

Io ho risposto così. «No, no, impossibile ricordarla e descriverla oggettivamente: ormai è diventata immaginaria, irreale, circonfusa di gloria perché nel passato era stata investita da un desiderio così forte da mandare fuori strada chiunque.  Forse in certi casi l’abbiamo trasfigurata eccessivamente e malamente, peggio di Dante con quella di Beatrice, e così ogni spiegazione è diventata azzardata e ridicola, e perfino le più serie ipotesi scientifiche hanno perduto credibilità. Esiste ancora, non esiste più?… E chi lo sa. Ognuno la vede a modo suo. Chi se la ricorda alta, chi rasoterra, e chi addirittura pesante cento chili. Alcuni, che non l’hanno mai vista da vicino, parlano di una cosa colorata come l’arcobaleno in cielo dopo l’acquazzone. Altri ancora, invece, hanno raccontato con spavento di un buio tenebroso nel quale procedere con estrema cautela, dotati di un lumicino in mano e stando attenti a dove mettere i piedi.

Dunque un ricordo impreciso, un abbaglio. Ma questo abbaglio è la sua vera essenza; non dunque nella sua cosiddetta realtà dovremmo cercarla  ma nel nostro puro delirio di ossessi che rimasero per così dire sconvolti con l’incontro/scontro con quella stranissima cosa che le donne indossano ogni mattina quando escono di casa per riporla la sera nei cassetti per tenerla al sicuro, a meno che qualcuno non sia invitato a cercarla nella stanza, di qui e di là, come in un gioco, guidato soltanto dalla voce della proprietaria dell’oggetto che dice: «Fuoco, fuochino…». Poi se la si trova c’è un premio, ma io non mi ricordo bene quale.

La vera fica, quella che abbiamo sempre sognato e risognato, è un un’ipotesi, forse un assoluto. Esiste nel paradiso delle idee. Ce la portiamo nella mente. Ci fa riflettere sul suo mistero e sul mistero di tutto il resto. È una delle porte della nostra chiesa, e la nostra chiesa è ovunque.

 

 

 

 

16 ottobre 2024

 

La zanzara, che per puro e semplice istinto riesce ad evitare i colpi della mia ciabatta ma soffre di vivere e forse vorrebbe morire e finirla con un’esistenza così schifosa, vola imperterrita nell’aria calda della mia stanza, facendo capriole nell’aria, planando un solo momento sul mio vocabolario, l’amato, vecchio Zingarelli. Rimane ferma, immobile per vedere cosa faccio, e io che posso fare? Allora mi costringe a riflessioni molto profonde, direi quasi filosofiche.

Medito sulla misteriosa volontà di Dio. Egli desidera che esista ad ogni costo lo stramaledetto insetto ronzante e pungente, questa succhiatrice di sangue ad oltranza, però custode e vestale del Corpo, che essa sollecita e tiene sveglio, in guardia contro tutte le piccole e grandi minacce.

Così la mia zanzara diventa ragione di speculazione e forse di salvezza. Eccola lì,  sul vocabolario Zingarelli, quattordicesima edizione, 1978. Mi fissa… oppure fa finta di niente. No, no, mi fissa certamente. Avverte l’incombente pericolo, cioè la mia ciabatta che sta abbattendosi su di lei. Sono il suo Dio, e questo è il giorno del fine. Amata fine, sua unica amica. Infatti, mentre si diffonde nella stanza un celebre brano dei Doors, The end, io e lei ci prepariamo veramente a questo rituale, al sacrificio che si rinnova ormai ogni notte da quando è iniziata l’estate, questa estate, e la chiamano estate…

La mia ciabatta si alza, solennemente, nel silenzio della notte. Lei, la zanzara, è immobile. Dio, se esiste, vuole che si compia questo sacrificio: uccidere, uccidere, uccidere il prima possibile…. Perché si rispetti e si segua docilmente la forza che fa girare il mondo. Se invece Dio non esiste, tutto è vano e non c’è ragione di eliminare questa innocente e inutile succhiatrice di sangue umano. Ma io non posso vivere pensando che Dio non esista. Dunque, con tutta la mia poca fede delle due di notte, io farò scendere come una ghigliottina la mia ciabatta su questo essere vivente e dunque dotato, forse, di anima, che potrebbe perciò trasmigrare. Facciamo dunque partire l’anima imprigionata nel corpicino schifoso, facciamo un’opera buona.

La mia ciabatta, esattamente alle ore 2,14 del 16 ottobre 2024, scende come la spada di Damocle sulla copertina del vocabolario Zingarelli. Sprach! Il corpo della zanzara viene spiaccicato, il sangue schizza sulla scritta del volume, una A viene quasi artisticamente modificata sulla punta dal colore del pigmento naturale, che poi sarebbe il mio sangue succhiato poco prima, e ad eterna memoria quello sbafo, certo non pulirò la copertina del mio vecchio vocabolario.

Il rito è compiuto. La zanzara non era innocente e inutile. Dio esiste.

 

 

 

 

«Sei uno scrittore ancora acerbo nonostante la tua età non sia acerba manco per niente visto che ormai hai superato abbondantemente i sessantacinque anni». Questo mi ha detto la mia amica Rosy. Eravamo seduti al tavolino del solito bar di Val Melaina.

«Avresti del talento ma lo disperdi, lo vanifichi in queste paginette senza alcuna consistenza, senza una struttura, e l’idea di questo Diario del re del bosco è semplicemente ridicola. Tu vorresti che questi pezzettini che scrivi formassero, come in una specie di puzzle, un ritratto chiaramente percepibile di te stesso, ed invece il risultato è un caos, qualcosa che non ha alcun senso, insomma un autentico disastro».

Stavamo bevendo il caffè, Io stavo zitto. Allora Rosy ha proseguito il suo discorsetto. «E poi questo libro, La piccola dea: hai impiegato più di quarant’anni per scriverlo, e ora che cosa ci vuoi fare? E l’altro libro, Il re del bosco, che fine ha fatto? Lo stai riscrivendo? Lo finirai tra vent’anni?… Ah, ma a te non importa, vero? A te non importa mai di nulla. Sei superiore, tu. Però poi ti lamenti e ogni tanto, quando ti prende la crisi depressiva, mi dici che ti senti un autentico fallito».

«Sì, devo ammetterlo…».

«E sai perché ti senti un fallito? Te lo dico io: perché lo sei. E sempre lo sarai. Ah ah ah… mi fai ridere, anche perché altrimenti dovrei piangere. Fai ridere me, i tuoi amici, l’universo intero. Tu riusciresti a far ridere anche Nostro Signore se mai avesse voglia di occuparsi di un essere caduto così in basso, ma per fortuna non credo lo farà, altrimenti Gli verrebbe voglia di punirti e mandarti all’inferno!».

Poi ha chiamato Antonio, il barista, e sua moglie Franca, che sta alla cassa, che subito si sono avvicinati. «Sentite cosa sto dicendo a questo imbecille!» ha detto a quei due onesti lavoratori. «Secondo voi, non sarebbe meglio se andasse ad ammazzarsi? Proprio non lo capisco questo insistere a vivere ad ogni costo».

Loro tacevano. Allora ha continuato, rivolgendosi a me. «Bestia, ecco quello sei, nient’altro che una bestia. Non hai nemmeno il coraggio di togliere il disturbo. Stramaledetto da Dio e dagli uomini! Disgraziato!… Anzi, pensandoci bene, meglio che non t’ammazzi perché tu saresti tanto imbecille da farlo qui!»

«Ecco, proprio una cosa che vorrei evitare» ha detto il barista. »Ci mancherebbe soltanto questo!» ha detto la cassiera.

Allora Rosy, voltandosi di nuovo verso me, ha continuato a insultarmi. «Curati, vai in una clinica per malati mentali gravi, e una volta guarito vai a lavorare, ma su serio. E soprattutto smetti di scrivere. Ti prego in ginocchio. Guarda, ecco, sei contento ora che mi vedi prostrata davanti a te?».

Si era messa in ginocchio davanti a me. «Smetti di faticare inutilmente idiota! E per favore non mettermi dentro il tuo libro, non farmi fare la figura della stronza, non ho voglia di diventare un personaggio come hai fatto con questi poveracci». Antonio e Franca annuivano con la testa.

Allora si è rialzata e si è seduta di nuovo. «Ma che lo dico a fare, tanto ormai ci sono dentro, vero? Hai registrando nella tua testa bacata quello che veramente una volta ti ho detto per priportarlo fedelmente adesso in una cornice immaginaria come questo bar di Val Melaina… Disgraziato, lo so che in quanto autore tu puoi farmi dire ciò che vuoi, ad esempio che La piccola dea è un libro meraviglioso e che soltanto la povertà di questi nostri tempi impedisce al pubblico di conoscerlo, di apprezzarlo, ma che dico, di adorarlo. Certo, mi stai facendo dire ciò che desideri, vigliacco, e così magari noi tre diventeremo i protagonisti di una commedia intitolata Tre personaggi invece che due alla ricerca di un autore a Val Melaina. Divertente, vero?… Ma adesso la finisci di farmi parlare bene di te, eh?… maledetto falso ipocrita, ti rendi conto che è assurda questa cosa che stai scrivendo? Il tuo stato d’animo va su e giù come una barca in alto mare e dunque mi fai parlare bene o male di te a seconda di come ti senti… I tuoi stati d’animo sono estremamente variabili e perciò passi repentinamente dall’autoesaltazione ad una denigrazione in fondo eccessiva perché in realtà sei solo uno che cerca di scrivere una pagina decente in questo meraviglioso Diario che tutti dovrebbero leggere, grandi e piccini e che si merita una fama eterna. Diciamolo: sei uno scrittore grande, unico, e sarai immortale!».

Rosy si è alzata. Ha abbracciato Antonio e poi Franca, che avevano le lacrime agli occhi, non so bene per quale motivo. Non mi ha salutato. Mi ha guardato facendo una strana smorfia. Poi ha cominciato a ridere istericamente, mentre si allontanava.

«Mah, vai a capire le donne!» ho detto a me stesso, montando sulla Vespa per tornare a casa.

 

 

 

 

 

 

 

15 ottobre 2024

Granello dopo granello, svuoteremo la clessidra del tempo che ci è stato offerto, non richiesto. Così entreremo nel Dopo, che è un vasto mondo proibito a chi non ha mai abitato nel Prima, cioè i non nati, i non partecipanti, tutti coloro che non hanno avuto la fortuna (o la sfortuna) di essere stati chiamati (sarebbe meglio dire, strappati) alla quiete della non esistenza. Giunti ad un solo varco, entreremo ovunque. Ci aspettano gli angeli che si sciolgono in un sospiro, gli amici fraterni che ritroveremo come se niente fosse (infatti, quasi nulla è accaduto, soltanto un lampo tra il primo granello e l’ultimo).

Ma perché il Dopo si nutre del Prima? Ce n’era proprio bisogno? E a noi cosa ce ne viene in tasca?

«Tutte domande sciocche», dirà l’amico più caro che da tanto tempo ci aspettava. Passeggeremo con lui… che ora è diventato una specie di angelo vaghissimo, eppure vero, un occulto guizzo, una giravolta dell’anima.

Dunque non preoccupiamoci… Ecco, mi sembra che stia per cadere l’ultimo granello infilandosi nell’imbuto della clessidra, nella fatidica strettoia…

Ma no, abbiamo ancora tempo, evviva! Cavalchiamo i tristi pensieri, occupiamoci di questo Niente supremo, andiamo a fare una bella passeggiata!

 

 

 

Lei dorme.

Tutto il passato le torna davanti agli occhi in forma di suoni e colori, nel suo sogno al quale assisto senza vederlo, muto, fermo, immaginando.

Davanti a sé, lontano, vicino, a fior di pelle, come su uno schermo: l’infanzia, la giovinezza… Padre, madre, fratelli. La guerra, l’amore, mio padre… poiché lei che dorme è mia madre.

E poi, se andiamo più in là nel sogno: Allumiere e il Monte delle Grazie da cui si vedeva quando era bambina, e si vede ancora, tutto il mare fino in fondo all’Isola del Giglio, laggiù, nel suo sogno che io non vedo, qui, muto, immobile, però non cieco se riesco a immaginare.

Lei dorme e sfiora il mondo, lo lascia sullo sfondo del suo sogno. E laggiù, in fondo al mondo, sicuramente ci sono io, che ora la sto guardando mentre dorme. .

 

 

 

La gloria, il successo, la fama letteraria? Oh sì, come no. Però soltanto dopo morto. Altrimenti non c’è più gusto: detesto la volgare ambizione. Oramai conoscete, cari lettori di questo Diario del re del bosco,  la mia aristocratica noncuranza, il mio olimpico distacco. Perciò, vi chiedo compostezza quando accadrà l’inevitabile. Niente isterismi. Certo, ai funerali di Stato vi toccherà andare, ci tengo alla vostra presenza.

Immagino già la scena, come la vedessi con gli occhi di un trapassato, dunque con il tipico distacco di chi si trova nell’Aldilà: che poi, quando sarò là, per me diventerà Aldiquà, e perciò l’attuale Aldiquà sarà l’Aldilà, chiaro no? Vedo la scena come se accadesse in questo preciso momento. Mattarella, il Presidente della Repubblica, scuro in volto, che scuote la testa rassegnato, anche se è difficile rassegnarsi in certi momenti, mentre una lacrimuccia gli scende sulla gota. Si vede in televisione che sta mormorando qualcosa tra sé e sé. Qualcuno riesce a leggere il labiale: «Non sono mai riuscito a comprenderlo fino in fondo e ora, ahimè, è troppo tardi!». Il Capo del Governo, Giorgia Meloni,  si regge a malapena sulle gambe guardandosi attorno con aria spaurita. Il Ministro della Cultura, che non mi ricordo come si chiama, piange a dirotto sulla spalla di Vittorio Sgarbi, anch’egli inconsolabile ma con il volto raggelato in una smorfia di virile sopportazione.

Intanto il popolo, sul sagrato davanti alla basilica, rumoreggia inquieto. Qualcuno grida: «Santo subito!». La forza pubblica decide di transennare la piazza poiché le autorità non riescono a varcare il grande portone della basilica…

Ma il mio pensiero va a loro, ad ogni singolo componente la folla in attesa sul sagrato per un ultimo, lungo applauso. Mi commuovo, fin da ora, per te, umile casalinga che per un poco hai abbandonato i fornelli per venire a lanciare un bacio verso la bara, e anche per te, aitante manovale, che hai sospeso la dura fatica d’ogni giorno per sfiorare con la punta delle dita il legno che mi ricopre, e perfino per te, inappuntabile e infaticabile autista dell’azienda pubblica dei trasporti che hai lasciato in mezzo alla strada l’autobus stracolmo di persone (che dunque bestemmiano e battono i pugni sul vetro dei finestrini) per raggiungere le spoglie mortali di colui che è stato capace di donarti quella poesia di cui tanto avevi bisogno… Grazie, grazie a voi tutti che mi avete così tanto amato!

Ma, ecco, si apre il portone della grande chiesa e s’intravede il feretro che sta uscendo dopo la Messa. Un grande silenzio scende sulla piazza. La cassa da morto viene portata a braccia da alcuni dei più noti critici letterari. Li riconosco tutti… ma non faccio nomi altrimenti gli esclusi si potrebbero offendere. D’un tratto, sorge un brusio che presto si trasforma in affannoso grido comune e poi in boato. Ma cosa chiede il popolo quasi ribellandosi a quell’atroce evento? Ecco cosa dice, come un solo uomo, come una sola voce: «Varese, perché ci hai abbandonato?».

«Uno spettacolo indimenticabile, irripetibile» si leggerà il giorno dopo sul Corriere della Sera. «Mai s’è vista qualcosa del genere. La folla sembra impazzita. Idolatria? Forse. Ma in questi momenti anche chi scrive, devo confessare, si sta facendo prendere dall’emozione: sul taccuino cadono calde lagrime, mentre il cuore, diciamo così, sanguina senza sosta. Ma né lagrime né sangue devono bagnare la carta, oh no, poiché lui non l’avrebbe voluto. Ci avrebbe chiesto di essere forti e di continuare il nostro lavoro, che un tempo è stato anche il suo lavoro. Ebbene sì, dobbiamo continuare a descrivere ciò che è difficile raccontare a parole: non ci sono infatti parole che possano varcare un dolore vasto come il mare, grande come il cielo, immenso come questo mondo che adesso piange e piangerà per sempre il grande poeta».

Insomma, un funerale degno di me, che pure sono così schivo e non amo le lodi e innanzitutto rifuggo da qualsiasi forma di vanità personale.

Il corteo si muove tra due ali di folla. La banda suona una marcia funebre di  straziante bellezza. Le donne, sui marciapiedi, vestite di nero, si strappano le vesti, si gettano in terra… La città si ferma. Ma che dico: l’intero Paese si ferma, il mondo intero. (Il presidente americano piange in televisione. Carlo, Re d’Inghilterra proclama il lutto nazionale. Miguel Mario Díaz-Canel Bermúdez, l’attuale Presidente di Cuba e perciò diretto successore di Fidel Castro, si accende il più grosso sigaro mai visto ed invita a prendersela con filosofia, ma si vede che dentro è distrutto). Ad un certo punto la polizia deve caricare e sparare lacrimogeni ad altezza d’uomo perché la folla pericolosamente s’avvicina alla bara con chissà quali intenzioni…

Ma basta, basta! Era soltanto per dire come io vedo la mia gloria postuma. Adesso arriverà l’infermiere per darmi le pillole. Io non vorrei prenderle ma qui in clinica mi hanno detto brutalmente: o le pillole o la camicia di forza. Allora io scelgo le pillole e faccio finta di non sapere le cose che so riguardo alla mia gloria postuma. So tutto ma sto zitto. Furbo, eh?

 

 

 

 

 

 

 

14 ottobre 2024

 

ALTRI ROMANZI IN MINIATURA

 

Il richiamo della foresta

di Jack London

 

Buck non leggeva i giornali, perciò non poteva sapere a quali guai stava andando incontro: un prezioso metallo giallo era stato scoperto al nord. Servivano cani robusti e col pelo folto, proprio come lui.

Strappato con la forza e l’inganno ad una vita serena, comoda ed un poco noiosa, dovette presto imparare la legge spietata del mondo: o si domina o si è dominati. Non più carezze sul muso dunque, ma feroce violenza tra i cercatori d’oro, e cioè bastonate, corda al collo ed ogni genere di umiliazioni.

Ma nella lotta per la sopravvivenza, patendo e ringhiando, Buck iniziava a trasformarsi. Sprofondando sempre più nella terribile vita della foresta, diventava cattivo, così come volevano i suoi nuovi padroni. Rispondeva agli attacchi degli uomini e degli altri cani da slitta, mentre sentiva il richiamo antico di un branco di lupi, nascosti tra gli alberi. Poi scomparve.

Questa è la storia di Buck. Ora gli indiani raccontano di un Cane Fantasma che uccide i cacciatori della loro tribù. Dalle sue spaventose fauci si leva il canto dell’infanzia del mondo.

 

 

Cuore di tenebra

di Joseph Conrad

 

Su quella barca attraccata sul Tamigi, Marlow se ne stava  seduto a poppa e raccontava. «Ho risalito un fiume lungo e tortuoso», diceva, «simile ad un immenso serpente, laggiù in Africa. Attorno a me, i lugubri segnali del caos, della follia: il suono del tamburo, che sorge dalla giungla e non si ferma mai; la presenza minacciosa dei selvaggi, nascosti tra gli alberi; la stupida frenesia dei bianchi che sognano il denaro.

Strisciavo nell’acqua e nell’aria calda e ferma, verso Kurtz, il commerciante d’avorio che era impazzito.

Quando arrivai a destinazione, all’ultimo stadio di quell’inferno, trovai un uomo vestito da buffone: in mezzo a teschi umani appesi nel vuoto, egli mi spiegò come il suo padrone avesse stregato l’intera tribù e quanto fosse stanco e malato.

Durante la notte andai a cercare Kurtz per sottrarlo al suo incubo. Lui, sdraiato nell’oscurità, mi aspettava.

La mattina dopo partimmo, ma Kurtz era pronto per morire. E morì, infatti. Io tornai in patria ed incontrai l’unica persona al mondo che lo avesse davvero conosciuto, una donna che mi disse: era impossibile non amarlo. Ed era vero. Penso che avrebbe potuto diventare un grande artista, un rivoluzionario, qualsiasi cosa. invece precipitò in una tenebra infinita».

 

 

Pan

di Knut Hamsun

 

Mi piace ricordare le interminabili giornate estive lungo i fiordi e nella foresta. L’odore delle radici e del fogliame mi riempiva di gioia. Insieme ad Esopo cacciavo tra gli alberi, poi tornavo alla mia capanna e mi stendevo sul legno a guardare il mare, le nuvole… Esopo mi stava accanto, con i suoi occhi buoni di cane.

Ogni tanto incontravo Edoarda, la figlia del medico. Veniva a trovarmi e restava in silenzio.

Un giorno m’invitò ad una gita in barca. Mi amava, non mi amava? Io le sfilai una scarpa dal piede e la gettai in acqua.

Il dottore mi diceva: «Ha un umore instabile, è capricciosa e bisognerebbe punirla». Conobbi Eva. Mi amava. Ma non pensavo a lei.

Edoarda non mancava d’incoraggiarmi ma nello stesso tempo si mostrava diffidente. Mi faceva molto soffrire. Allora decisi di andare via. Presi il fucile, accostai la canna al collo di Esopo e tirai il grilletto.

Quando salii sul battello, lei era al molo. Ma non disse niente.

Ora vado in India, in Africa, chissà dove. Io appartengo alle foreste e alla solitudine…

Documento del 1861.

Glahn è morto, è stato ucciso.

Si dimise dall’esercito e venne fino a qui, nella foresta tropicale. Beveva e faceva ogni genere di cose scandalose. Si racconta che volesse dimenticare una certa ragazza della sua terra, su al Nord.

Io lo odiavo. Mi sfidava continuamente e mi chiamava vigliacco.

Io so come e da chi è stato ucciso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13 ottobre2024

 

«Ma c’è qualcosa» mi ha domandato stamattina il barista di un bar di Val Melania, «che potrebbe mutare questo tuo stato di rincoglionimento precoce?».

Io ho risposto: «Cosa? Ma che dici? Ma come ti permetti di offendermi?». Tipica reazione da rincoglionito. Che non ammette nulla, anche le cose più evidenti ma soltanto quando sta da solo, e parla con se stesso. Del resto, che rincoglionito sarei se non mi comportassi da perfetto rincoglionito?

«Volevo dire, brutto stupido che non sei altro» ha continuato, «che forse sarebbe meglio per te non crogiolarti in questo tuo stato perennemente fuori dal mondo reale. Non puoi sempre autoassolverti tirando in mezzo questa storia dell’essere poeta. Cioè, non credo che tu possa confidare eternamente nell’aiuto degli Dei (e nota la maiuscola della parola Dei che tu, raccontando questo episodio non si capisce se vero o inventato, mi hai messo in bocca). Insomma, bisogna che maturi, che cambi, che cresci. Che diventi, in sostanza, meno rincoglionito di quello che sei e che sei stato sempre. Hai capito, rincoglionito che non sei altro?».

Nel bar c’era molta confusione. Era la pausa pranzo. Presi la tazza del caffè davvero buono e risposi conciliante, con grande calma. Non mi andava di litigare. Però non mi andava nemmeno di fare una brutta figura.

«Allora sei anche tu un rincoglionito» dissi, «poiché ciò che tu chiami rincoglionimento è semplicemente una condizione interiore, un fatto insito della mia natura, non posso fare niente per cambiare, lo capisci o no? È anche la mia condanna. Credi che se non fossi veramente un po’ rincoglionito sarei qui, ora, a parlare con uno che poi non è nemmeno reale ma soltanto frutto della mia fantasia?».

«Oddìo, no!» ha esclamato lui, «questa cosa del racconto nel racconto, il metaromanzo, la letteratura che parla si stessa, roba da Neoavanguardia degli anni Sessanta, te la potevi davvero risparmiare. Ormai non c’è alcun dubbio: sei un vero, autentico, irripetibile, grandioso rincoglionito!».

Io mi asciugai le labbra con una salvietta di carta e andai alla cassa, senza salutarlo. Stronzo, pensai. Appena uno dà un po’ di confidenza, ecco che subito se ne approfittano. Non permetto a nessuno i parlarmi in questo modo.

«Cosa paghi?» ha chiesto la signora Franca che sta alla cassa ed è la moglie di Antonio, il barista.

«Un caffè e un cornetto».

«Nient’altro?».

«No, nient’altro» ho detto io.

«Ne sei proprio sicuro?».

Sono rimasto sorpreso. «Certo che sì» ho risposto, «cosa credi, che prendo qualcosa e poi non lo pago?».

La cassiera ha alzato le sopracciglia come per dire: be’, perché no? c’è da aspettarsi di tutto da uno come te.

Allora mi sono davvero arrabbiato: “Ma la volete sapere cosa penso? Tra tante cose che ho scritto in vita mia questa mi sembra veramente la più cretina e inconcludente. Forse perché oggi non avevo nulla di buono in testa. Eh sì, altrimenti non avrei scritto una storia ridicola con due personaggi ridicoli come voi due!».

Antonio dal bancone è rimasto un momento in silenzio. Poi ha detto:  «Allora potevi evitare di perdere tempo e di costringerci a vivere questa esistenza fittizia, puramente letteraria, che inevitabilmente si concluderà tra pochi istanti, manco fossimo i protagonisti di una dramma intitolato Due personaggi in cerca di autore a Val Melania… Ecco cosa ci aspetta: svanire, perderci nel vuoto, nella dimenticanza».

«Mi dispiace, non posso farci nulla». La cassiera piangeva… Mi sono avvicinato all’uscita. Franca improvvisamente ha gridato: “No, non voglio scomparire così dopo la parola Fine, ti prego, continua a scrivere, a farci esistere!».

Prima di uscire mi sono voltato e senza provare alcuna pietà ho detto: «Addio Antonio… Addio Franca… Il vostro destino è segnato. Svanirete , adesso, nel perfetto nulla, dopo la parola Fine».

FINE.

 

 

 

12 ottobre 2024

 

Chissà che fine avrà fatto quel mio compagno di scuola, al Liceo scientifico Archimede, militante di Lotta Continua, che alle assemblee mi diceva sempre: «Varè, annamose a confrontà sulle basi reali der discorso!» (che tradotto vuol dire: «Varese, non perdiamoci nelle inutili argomentazioni teoriche ma confrontiamoci sulle cose vere, reali».

 

 

Mio padre sta morendo ma un fiore apre la sua corolla.

In una carrellata di colori, vedo il nero sentimento del rimorso. Ma se in cima al quadro un azzurro più intenso capovolge il senso, io mi sollevo fino a quell’altezza per svanire o ricominciare.

È così. Se sprofondiamo, troviamo la luce. Mentre in pieno sole rimaniamo accecati e non ci accorgiamo di nulla.

Perciò abbandono il lutto che mi sta opprimendo in anticipo e comincio a camminare, senza pensieri, con le mani in tasca e il bavero alzato, verso la catastrofe annunciata, verso la rinascita.

 

11 ottobre 2024

 

FOLLIE CITTADINE

 

Nei due W.C. della Stazione Termini, quelli che si trovano al piano di sotto, a sinistra e a destra del grande spazio commerciale, dal quale si accede alla metropolitana, hanno scritto sui muri una verso di Catullo, completamente sbagliato. Nei bagni riservati agli uomini e anche in quelli per le donne. Quali intenzioni avevano? E poi, chi l’avrà fatta concepita questa assurdità? Andando a cercare nei libri del grande poeta si vede che sono stati presi due versi dal Carme 70. La strofa alla quale appartengono i due versi è la seguente: 

 

Nulli se dicit mulier mea nubere malle
Quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
In vento et rapida scribere oportet aqua.

 

Che non sarà di nessuno, dice la mia donna:

soltanto mia, dovesse tentarla pure Giove.

Dice: ma ciò che la donna dice ad un amante,

scrivilo nel vento o in acqua che va rapida.

 

(traduzione di Salvatore Quasimodo)

 

Invece hanno scritto:

 

QUOD DICIT IN VENTO ET RAPIDA SCRIBERE AQUA

 

Ma che vuol dire? Hanno tolto le parole: “Dicit: sed mulier cupido” e “amanti“, ma perché l’hanno fatto? E ora che cosa vorrebbe dire questo verso? Io non ho il coraggio di tradurlo…. E poi che c’entra nei bagni della Stazione? Io non riesco a trovare un senso. È una totale assurdità.

Però tutto ciò è meraviglioso. Ho visto però, passando da quelle parti, che recentemente ci sono stati dei lavori di ristrutturazione. Avranno tolto le scritte nei bagni? Un giorno di questi voglio andare a controllare.

 

 

Vicino alla vetrinetta dell’agenzia funebre vicino a piazza Fiume è rimasto incollato un manifesto per l’organizzazione di feste, matrimoni, battesimi eccetera. È un po’ sbiadito, però si legge bene. Probabilmente l’avevano incollato lì prima che l’agenzia per i servizi funebri mettesse la vetrinetta. Ma all’agenzia non hanno ritenuto di dover togliere il manifesto. L’avranno fatto apposta? Sono saggi uomini che vogliono esprimere la caducità dell’esistenza? Oppure, più probabilmente, nemmeno l’hanno notato, e se l’hanno notato non gliene frega assolutamente un cazzo.

 

 

Le pile esauste. Sul bussolotto che raccoglie le pile scariche c’è scritto così: PILE ESAUSTE. L’hanno scritto quelli dell’azienda comunale per la raccolta dei rifiuti, l’AMA. Ma perché non chiamarle semplicemente “scadute” o “scariche”? No, l’AMA ha deciso così. È il linguaggio della burocrazia. Completamente folle.

 

 

 

 

 

10 ottobre 2024

 

Questa storia che vi racconto è divertente, con dei risvolti un po’ inquietanti. Ovviamente è vera anche se inusuale. Ma di cose strane è piena la vita, no? E poi oggi sono contento e felice e mi diverte raccontare una cosa abbastanza assurda, sono di ottimo umore alla faccia di chi non mi vuole bene, e pure Teresa è contenta, cioè la mia compagna…. Non mi piace questa parola, “compagna”, ha qualcosa di politico, e nemmeno mi piacerebbe chiamarla «camerata Teresa!».

Insomma, io mi trovo in questa situazione. Era stata costruita da mio padre e dai suoi fratelli una tomba di famiglia, la Tomba Varese, al cimitero di Prima Porta, poco fuori Roma, uno dei due cimiteri della Capitale (non penso ce ne siano altri). Ora non vi sto a tediare con i particolari, ma per assurdi cavilli burocratici il posto che era stato riservato a me non ce l’ho più. Sono stato sfrattato dalla tomba dei Varese.

Quando morirò non potranno seppellirmi lì perché assolutamente i posti sono tutti occupati per i futuri parenti morti. Che, a quanto pare, ci tengono tantissimo a stare, da morti, nella Tomba dei Varese. E li capisco benissimo. Anche a me sarebbe tanto piaciuto starci. Teresa, gli amici, il sindaco di Nemi, il Ministro della Cultura, il Presidente americano Trump, Putin, la segretaria del Partito Democratico Elena Schlein, Giorgia Meloni e tutti gli avrebbe potuto portarmi un fiore, lasciare una poesia, piangere e bagnare la tomba di lacrime, togliere le foglie cadute sul marmo, stappare una bottiglia e brindare in mio onore dicendo una di quelle frasi del cazzo, del tipo: «A lui piacerebbe, sì: brindare vicino alla sua tomba e ricordarlo con allegrezza», eh come no, ’na contentezza che non te dico, limortacci vostra. Io lì coi vermi che mi si mangiano e questi stronzi che si divertono, e vabbè.

Fatto sta che ora non ho più la tomba e quando muoio non ci sarà manco un loculo per accogliere il mio corpo (e che corpo! voi lo sapete, che fisico!), dunque come farò?

Attenti voi, ve lo dico in anticipo. Io sono l’uomo senza tomba. Andrò a cercare un luogo dove riposarmi per l’eternità, busserò alla porta di casa vostra…

«Toc Toc!».

Sarà verso mezzanotte. Qualcuno di voi, svegliato d’improvviso, domanderà: «Chi è a quest’ora?».

«Sono io, l’uomo senza tomba».

«No, no, aiuto! C’è Varese, l’uomo senza tomba!».

Ma io con la mia forza di zombi butterò giù la porta ed entrerò in casa e poi… e poi….

«Ah, ah, ah, ah!», che bella risata vi farò in faccia!

Ma poi andrò via perché in realtà un morto non può rimanere tra i vivi. Andrò via, inoltrandomi malinconicamente nella notte fredda e piovosa. ..

Una bambina, una vostra piccola figlia più dolce e comprensiva, svegliata da quel trambusto, si affaccerebbe alla finestra e griderebbe: «Addio uomo senza tomba. Ti voglio bene! Torna quando vuoi a trovarci!».

(Il padre dirà da dietro al finestra: «Sta zitta, scema, quello è capace di tornare davvero. Tu non lo conosci Varese, Je ne devrais pas dire ça mais c’est un homme terrible!».

 

 

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9 ottobre 2024

 

Ogni tanto passo a via Scarpanto, una strada di Val Melania. C’è sul muro di un palazzo la targa che ricorda quattro ragazzi del quartiere, partigiani, uccisi dai nazisti. I nomi: Rizieri Fantini, Antonio Pistonesi, Renzo Piasco, Filippo Rocchi. Mi è stato detto che almeno un paio erano del gruppo politico chiamato Giustizia e Libertà, una formazione politica liberale e socialista. Mi chiedo se vedendo l’Italia di oggi, soprattutto la situazione di Roma, si farebbero ammazzare ancora in nome di certi ideali.

Ma durante la Storia sono stati numerosi i giovani che hanno sacrificato la propria vita per degli ideali politici. Sembra quasi “fisiologico”, naturale il momento della ribellione, più o meno pericolosa e violenta. Io con i miei occhi ho visto miei coetanei con le pistole in mano durante le manifestazioni più dure dei cosiddetti “anni di piombo”. C’ero quel giorno in cui a Roma, sul lungotevere, venne uccisa Giorgiana Masi, una studentessa, una ragazza normalissima che aveva partecipato alla protesta nelle strade del Centro, degenerata in scontri violentissimi tra le frange estreme del movimento e le forze dell’ordine (carabinieri e polizia). Io non partecipavo, come al solito, non prendevo parte. Osservavo, consideravo…. Ad un  certo punto mi ritrovai a Corso Vittorio, all’angolo con piazza della Chiesa Nuova. Vidi alcuni uomini che sparavano. C’era un fotografo vicino a me che scattò delle foto che in seguito documentarono che quelli non erano manifestati ma poliziotti in abiti civili, messi lì con il preciso scopo di creare disordine. Un vecchio trucco del Potere, di qualsiasi tipo di Potere. Infiltrarsi, guidare occultamente, sfruttare le buone intenzioni dei “rivoluzionari”… per dare colpa agli Autonomi, cioè ai manifestanti “estremisti”, di ciò che di grave, quel giorno, si pensava potesse accadere e che puntualmente accadde.

Quegli anni furono veramente atroci. Morti ammazzati, rapimenti, una tensione sociale fortissima. E c’erano, oltre ai terroristi “rossi” pure i giovani di destra, altrettanto fanatici e in alcuni casi autentici criminali.

Poi quella specie di rivoluzione passò senza troppo danneggiare le istituzioni statali. Certo, fece più male che bene. Forse un cauto riformismo in quei giovani miei coetanei avrebbe giovato a qualcosa, e invece no. Bisognava essere innanzitutto comunisti e poi scendere in piazza e scontrarsi con la polizia. Questa era la regola. Da lì al terrorismo ci voleva poco e infatti molti di quei militanti di estrema sinistra si ritrovarono nelle formazioni terroristiche. Era lo spirito rivoluzionario della gioventù che si doveva manifestare, in un modo o nell’altro.

Poi seguirono contestazioni sempre più blande, e si esaurì quella carica di insubordinazione che si trasformò abbastanza pietosamente nel rito delle occupazioni di scuole, stagionali, previste e paternamente sopportate perché i soliti figli inquieti della borghesia doveno vivere il loro quarto di luna rivoluzionario.

Ma i morti delle Brigate Rosse, e degli altri terroristi rossi e neri, se potessero parlare, cosa risponderebbero alla domanda: ne è valsa la pena?

Forse tutto ciò è accaduto sempre, in minore o maggiore misura, in ogni epoca. Penso ai giovani interventisti della Prima Guerra Mondiale, che non potevano immaginare in quale sconsiderata follia si stavano cacciando. E ai giacobini della Rivoluzione francese, finiti a tagliare teste in maniera indiscriminata. Gli esempi potrebbero essere tanti.

Certo ai vecchi rimane la triste consapevolezza, l’inutile ragione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8 ottobre 2024

 

Il montanaro  

 

 1.

 

Tutta una vita per arrivare fino a qui. E dovrò salire ancora. Sotto gli uomini si muovono lentamente; molto piccoli sembrano. Lontano è il mondo e io, aggrappato alla montagna, medito su questo vuoto.

 

 

2.

 

Era il giorno del matrimonio. Il cibo buono, i parenti col vestito della festa, i bambini che gridano e corrono nel giardino … Mia moglie aveva un vestitino celeste, un cappellino sbilenco. Timida e impacciata, e per questo ancora più graziosa, sembrava non aspettare altro che di scappare via, proprio come me.

Cerimonia religiosa, pranzo di una lunghezza estenuante, ballo in piazza… finalmente, la sera, prendemmo la macchina per andare in quella piccola radura dove sempre ci fermiamo per stare un poco da soli. Tra noi commentammo, spesso ridendo, tutto ciò che era accaduto durante la giornata. Ma troppo stanchi, rimandammo l’amore all’indomani.

 

 

3.

 

La nostra vita trascorreva lieta. Nacque nostro figlio. Le persone ci rispettavano. Si viveva con poco.

Tornavo a casa dal lavoro e non pretendevo altro che di riposarmi e di giocare col bambino.

 

 

4.

 

Ma presto sentii il peso di quella abituale serenità. Appena era possibile, me ne andavo all’alba sui prati coperti di rugiada e lucenti sotto il sole. Risalivo il torrente. Sulla linea delle colline vedevo spuntare le cime innevate.

Noi montanari amiamo i boschi e i ripidi sentieri, e poi ce ne stiamo le ore a contemplare la vetta più alta, che ci invita, che ci sfida. È una passione, questa, che ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, che a loro volta la ricevettero in dono dai nostri nonni, e così da generazioni. È una tradizione da tramandare e da difendere.

Salivo fino all’altipiano, e riscendevo a valle che era già notte. Tutto ciò per molti giorni di seguito. Cominciai a non andare al lavoro.

Mia moglie mi diceva: «Che cosa ti sei messo in testa? Sei impazzito?”».

Io non sentivo ragioni. Avrei potuto conciliare questa passione per la montagna con il lavoro e tutto il resto ma avevo come un’ossessione, una febbre. Di altro non m’interessavo: c’erano soltanto le rocce, appuntite, sullo sfondo del cielo. E quella cima più alta. I giorni passavano e io diventavo sempre più inquieto. Ormai conoscevo bene il percorso: bisognava percorrere la valle fino in fondo, poi risalire il torrente e prendere il sentiero che porta al rifugio. Da lì si alza lo sguardo al cielo, e si trattiene il fiato guardando la Punta della Civetta.

 

 

5.

 

E finalmente è arrivato il giorno, e l’ora.

Sono uscito di casa all’alba, facendo attenzione a non svegliare mia moglie. Il paese era immerso in una luce azzurrina che rendeva fantastiche le cose. I miei passi risuonavano nelle vie. Ero solo al limite di quel sogno che mi trascinava lontano.

I prati mandavano un odore di terra e di fiori. Ho seguito il torrente, e ho preso il sentiero per il rifugio… Il sole era già alto. L’interminabile parete, ora che si trattava di scalarla, mi incuteva paura. Ma ormai non potevo tornare indietro. Ho preso la via ferrata e sono arrivato sotto la parete. Ho lanciato la corda per il primo appiglio.

 

 

6.

 

Picchia con il martello, alza la gamba, fissa la corda, non abbassare lo sguardo, soffoca la paura…

Il sole scaldava la roccia, cominciava a bruciare la pelle. Io mi stancavo dopo pochi metri, la salita era molto più faticosa di quanto pensassi; ero inquieto e provavo rabbia verso me stesso perché il pensiero di lasciar stare, di tornare indietro, a poco a poco prese spazio nella mia mente.

Ma i pensieri bisogna scacciarli, toglierli via dalla fronte come il sudore.

Mentre calava il sole, ho preparato la cuccetta per dormire sospeso in aria.

 

 

7.

 

Io sono un bambino che si avventura in una fitta boscaglia. (Ecco cosa ho sognato a circa a quattromila metri di altezza). Mia madre mi chiama ma io proseguo a camminare nella vegetazione che non lascia filtrare nemmeno un raggio di luce. Proseguo nella semi oscurità… Poi mi accorgo di una luce. La seguo d’istinto e mi ritrovo in un cimitero. C’è un senso di grande serenità tra le tombe. Alcune giovani donne, vestite di nero, depongono i fiori e pregano con il sorriso sulle labbra. Io mi rendo conto di essere diventato un vecchio e mi chino su una tomba che non ha nome: sulla lapide è attaccata una mia foto da ragazzo e allora capisco che sono venuto a cercare la persona che ero e che è morta da parecchi anni. Qualcuno mi sussurra all’orecchio che una donna inginocchiata poco più in là, e di cui non riesco a vedere il volto, è mia madre. Allora mi avvicino e la tocco sulla spalla. Infatti è mia madre, che mi dice: «Non sapevi che sono viva?».

 

 

8.

 

Quando ho aperto gli occhi, poco fa, ho visto un uccello appollaiato sui miei piedi; li ho mossi ed è volato via. La vallata appare tra la nebbia che si dissolve a poco a poco. I tetti delle case lontanissime luccicano al primo sole.

Penso che in quei luoghi sono nato e cresciuto, consumando tutti i miei desideri, ignaro di subire un destino. Osservo quel paesaggio con un sentimento di lontananza ed estraneità. Da qui ogni cosa sembra futile e priva di senso. Dovevo salire fino a questo punto della montagna per comprendere che non appartengo più al mondo in cui sono vissuto. Se adesso fosse tutto spazzato via da una valanga, io non proverei alcuna emozione. Mi basta alzare lo sguardo verso la cima, e la vallata è scomparsa, annientata, mai esistita. Questa indifferenza è orribile ma a me interessa soltanto salire per allontanarmi ancora di più.

Scivolo con un piede, sono preso da vertigine. Mi cade la corda…

Forse non tornerò più indietro.

 

 

 

 

 

 

7 ottobre 2024

 

Il sogno che forse non è un sogno 

 

La nostra casa, che era distrutta e piena di lamenti che risuonavano tra le mura colpite dalla sfortuna, ora risplende sotto il sole, nella vallata. La linea delle colline forma il quadro della nostra visione. Un piccolo corso d’acqua (a sinistra, sullo sfondo) e un grande platano in primo piano, concorrono alla nostra beata rassegnazione.

I figli sono là, davanti a noi; giocano sul prato. I nostri genitori, seduti su una panchina, osservano i figli e i figli dei figli: prendono le misure tra una generazione e l’altra, ritrovano il senso della loro ormai lontana fatica. Vecchi, decrepiti, finalmente sorridono.

Ma chi è, chi è quell’uomo accanto al platano, ma spostato più indietro e col viso quasi nascosto da un ramo? Forse un solitario, un eremita, un uomo senza figli? Certamente non un uomo cattivo, poiché tutti sono buoni e in pace, qui, dopo tanto dolore e fatica.

La nostra amica, che ci accompagna dappertutto, ci chiede: «Non conosco quella persona…. E questo luogo dove ci troviamo esiste veramente?».

Noi non le rispondiamo… Però le diciamo che quello è Giorgio, suo fratello.

«Giorgio? Impossibile! È morto da dieci anni!».

Vedi, ti sta salutando. Coraggio, vai ad abbracciarlo. Anzi, andiamo insieme.

 

 

 

 

 

 

6 ottobre 2024

 

Cosa farebbe un vero poeta oggi? Arthur Rimbaud si collegherebbe con Zoom, in videoconferenza? Magari dall’Africa? E Dino Campana? Dal manicomio di Castelpulci?

Oggi tutto perde autenticità, è inevitabile. Non è facile essere veri, autentici, dunque vivi, non pupazzi che camminano e fanno finta di vivere. La maggior parte dei poeti e degli scrittori di oggi mi fanno ridere, o piangere, mi dispiace dirlo. Ma forse sono io che li vedo così. E magari faccio ridere io altrettanto.

 

 

E alla fine di una giornata contrassegnata dalla continua, esasperante considerazione sulla assoluta nullità di tutte le cose, arriva Bartolomeo a riparare la doccia. Con la mascherina. Lavora, fatica tenendola sul viso. Io gli sto per dire: «Ma le fa male questo cazzo di mascherina mentre si muove, lo capisce o no? Non c’è più il virus, è una normale influenza, non è la peste, certo a lei non fa niente, che è grande e grosso e sano come un pesce!». Ma sto zitto. E se avesse ragione lui? Chi può dirlo? Riguardo alla cosiddetta Realtà io ho delle informazioni di seconda mano, non leggo i giornali, la televisione è spenta da anni, diffido profondamente delle notizie diffuse via internet. Non mi fido nemmeno delle mie opinioni che formulate  ascoltando un paio di amici al telefono.

Comunque lui, Bartolomeo, ha fatto entrare in questa casa la gentilezza, la capacità di fare le cose bene, con ragionevolezza, senza tanti pensieri inutili (al telegiornale gli hanno detto che ci sono i contagi in crescita, e lui si mette la mascherina, non gli frega niente che la notizia sia vera o falsa oppure, se vera, presentata in maniera tendenziosa): ha riparato la doccia, si è preso quei pochi soldi che ha chiesto e se n’è andato. Una luce in mezzo alla tenebra: lui, Bartolomeo, l’uomo con la mascherina che ha riparato la doccia.

 

 

Ma è mai possibile che in Italia non si riesca a comprendere la pura e semplice verità delle cose, nemmeno su fatti tragicissimi, orrendi, bombe, morti ammazzati che grondano sangue sulla strada? Io ho visto da vicino alcune cose, ho incontrato persone che erano state accusate di essere mandanti di omicidi e che però giuravano la loro innocenza, e che hanno scritto libri, articoli, un milione di parole per spiegare questa loro innocenza, parole che a leggerle ad una ad una  quasi si credere alla loro sincerità. Eppure i loro accusatori sembrano altrettanto credibili.

Forse la verità sta nel fatto che ognuno vive la propria vita come un sogno e vede le cose che vuole vedere e nega il resto, che pure esiste, o che forse esiste soltanto nell’immaginazione degli altri.

Questo discorso si potrebbe allargare a certe persone che conosco, a poeti “maledetti” che vivono in case borghesi molto confortanti, ma non mentono affatto, sono veramente poeti e soffrono della loro situazione e se la prendono con i parenti che non li comprendono e vivono in una loro devastante solitudine. Ma abitano nei pressi di piazza Fiume, non sono mai partiti per l’Africa come Rimbaud, non perché manchi loro coraggio, infatti hanno fatto a se stessi anche di peggio. E però li si vede poi prendere la macchina che il papà gli ha regalato per andarsene in pizzeria con gli amici, altri poeti, uno più “maledetto” degli altri….

 

 

 

5 ottobre 2024

 

 

POESIE RITROVATE

 

 

Non amare le cose che sfuggono,

Che svaniscono. Fuggi tu piuttosto,

E considera la tua buona stella!

Le gambe delle donne misurano il mondo,

Un passo dopo l’altro, nel sabato sera.

L’aria odora di legna bruciata

Nei caminetti, di buone pietanze,

E risuonano grida e risate.

Ora la strada non fa paura.

Puoi sederti sul marciapiede e scrivere quanto segue:

Tutto è accaduto, nulla di difficile ti aspetta,

Solo il necessario inevitabile e fatale

Che chiude l’esistenza in un cerchio perfetto.  

La notte è lieve, fresca, vellutata.

Non hai bisogno di nulla.

Hai la tua vita così com’è,

Anche se povera ed appartata come quella di un gatto.

 

 

 

Amorevole sublime gioco,

Oppure guerra sul filo del rasoio,

Incontro di fantasmi… Ahi, liete parole,

Cadute indescrivibili e poco memorabili!

(Se domandi come e perché, io non so rispondere).

Questo verso sarà il più lungo, ma se penso al tempo sfugge via il senso.

Però il finale sarà migliore: pulito, più nettamente inciso;

E senza dire niente porterà a conclusione

Questa strana poesia.

 

 

 

Che senza amore e gioia

Mi vada consumando

A te mai non importa.

Io sogno, vago e piango

E senza decisione

La mia vita corre via…

Chi potrà mai perdonare

Tutta questa indegnità?

Tu sai la mia salvezza.

 

 

 

Il mare, la notte…

Io ricordo la preghiera dei baci,

Il verde delle conifere negli occhi di lei

Che angeli e diavoli affollavano, finestre

Della sua mente povera e plagiata

Dai racconti dei miei peccati o stranezze.

Conosci le parole che entrano nel cuore?

Non voglio dire basta!, è falso!, oppure addio!.

Al tramonto le cose si sdraiano

Come un vecchio con la pipa. Ma non c’è riposo

Nell’ansia della domanda

Che risuona davvero

Dentro il cuore.

 

 

 

 Uccelli, vastità del mondo

Che dorme sotto le campane ferme.

Nella pianura il sole è freddo: gli animali sono tristi;

Anche le donne e le cose sospinte tutte

E divorate.

 

 

 

La vita mia è una beffa, una cosa scombinata.

Ma bastano due versi e l’ho dimenticata.

 

 

 

Così nel sogno la mia donna mi baciò con la sua bocca fresca e mi nutrì di rosso d’uovo.

 

 

 

 

La stagione tormentosa,

Se cede ai giorni lieti,

Forse perde il suo languore,

Un fertile dolore.

 

 

 

Per il bimbo questa sera, felice è tutto il mondo.

Ma da grande sarà solo. L’inganno si rinnova.

 

 

 

Non guardare con pietà; piuttosto invidia dovresti tu provare. Questi fanciulli cenciosi sono vivi: come formiche si affrettano di sera. Così è la quiete. Tu oscuro te ne vai con i pensieri…

 

 

Per quelle belle si voltano le teste, m nessuno si accorge in questa via dell’esile ragazza filippina: attonita cammina nella sera, a Roma, in mezzo al traffico, con il vestito della tintoria… ignara che io però l’ho vista e ricordata.

 

 

 

In questo bel giardino (che ristoro la siepe ben curata e i fiori rosa!), la vita ammazza, distrugge, punisce: ché sotto oscuramente le formiche divorano l’insetto e idea dell’uomo, bugiardo giardiniere. Che ristoro!

 

 

 

                                                                   Oltre la stanza

 

1.

 

Capodanno resta chiuso dentro. Bei ragazzi al bar, sonnambuli.

 

 

2.

 

Lo squillo del telefono risuona, la grande casa vuota.

 

 

3.

 

Oltre la stanza, primavera in città: non fiori ma rumori nuovi.

 

 

4.

 

Se nasce, muore; se resta sconosciuto vive, l’amore.

 

 

5.

 

 

Suonato il campanello alla finestra, s’affaccia sorridendo la ragazza.

 

 

6.

 

 

Tutto sporco e stracciato, sotto il sole egli canta beato.

 

 

7.

 

 

Tanto cerca l’anima gemella, che la più brutta gli pare bella.

 

 

 

 

Nasce fecondo,

Eppure tace in fondo all’anima: è la luce

Dicono alcuni, il sempre eterno; forse soltanto è un rimorso.

Nasce e a stento cresce…

Noi siamo i suoi figli indesiderati, i bastardi,

Che vivono soli, senza nemmeno la guida di un maestro,

E mai ne conosceremo la fine.

Viaggia dunque, tu viaggia lontano,

Per i mari e per i cieli, per le terre del sogno!

Spera, viaggia, corri lontano,

Insieme ai nati morti, ai sopravvissuti, sì, insieme a tutti noi!

Viaggeremo, correremo lontano, non ci fermeremo…

Però mai ne conosceremo la fine.

 

 

 

 

L’amico buono,

Che t’aspetta un’ora a piazza Esedra,

E quando arrivi non c’è bisogno di scuse,

Perché lui è al di là delle scuse, dei ritardi,

Dei problemi irrisolti e dei soldi.

Apre la borsa da studente,

In mezzo a via Nazionale, e legge Catullo…

Puoi mostrargli il tuo lato peggiore

Giocando alle corse dei cavalli,

Sparando a zero sulle donne che, giustamente,

Non mi vogliono più. L’amico buono,

Che t’invita nella sua povera casa,

Ti prepara le uova al formaggio, squisite,

Poi ti legge il suo ultimo sonetto

Che forse non è buono (ma cosa ce ne importa?).

Quando è tardi si mette a dormire senza togliere la giacca

E nemmeno la cravatta. «Buonanotte» glielo dici tu,

Chiudendo la porta.

 

 

 

 

Trecentosette baci in mezz’ora: è il nostro primato.

Patria erotica, rettangolo di gioco è questo letto,

La nuova Olimpia amorosa. Inizia dunque la gara…

Noi siamo i vittoriosi, i grandi amanti,

Gli incoronati che si mostrano alla folla:

A me il trionfo delle carezze sul seno,

Tu campionessa del (CENSURA).

O regina delle mie labbra e dei miei polpastrelli,

Scendi con me nell’abisso!

Troppo fredda è per noi questa gente,

Che non vuole morire. Vieni, ti dico.

Tu rispondi: «Ecco, un solo momento…

Ti seguo!».

 

 

 

 

Perdere la pazienza, prendere un treno,

Abbandonare il peso dell’esperienza,

Fare di un solo gesto l’inizio e il compimento di una storia,

Amare per pochi istanti la tempesta,

Lasciare il domicilio, i pasti regolari,

Le rate da pagare, lo stipendio…

Correre alle ferite finalmente, al centro del proprio cuore

Dove ineluttabili destini sottoforma di silenzi

Aspettano di esplodere in grida!

 

 

 

Chissà quante sere a saperle contare,

Chissà quante belle giornate, quante ore passate a studiare

Lo scheletro del verso, la forma dello spirito sfuggente,

Mai veramente compreso,

Mai veramente spiegato,

Però sempre sezionato e misurato scientemente

Dagli ingegnosi pedanti con tutte le puzze sotto il naso

Inconfessabili, ma ben determinati a stabilire

Una volta per tutte, ogni volta, il Grande Codice,

Il Canone Universale, stampato in corpo nove e rilegato.

Ora tutto questo è passato…

Vago per la città, solo soletto, e mi sento invecchiato:

A piazza Navona, seduto sullo scalino del marciapiede,

Guardo le gambe delle turiste americane, delle francesi,

Anche quelle delle giapponesi…

Non ho niente da fare, tiro fuori il taccuino:

Ad una legge imprecisata io mi sottometto,

E l’inquietudine guida la mia mano

Che trema, s’impunta, non vuol ripartire e che pure costringo

Su questa paginetta immacolata.

 

 

 

 

Dormono le ore, dormono i minuti,

Dormono i passeri tutti in riga sul filo della luce

Mentre l’alba s’allontana e il dolore tace, dorme.

Dormono i boia del Texas e dell’Alabama,

Che pure sono stati bambini, i padri che sono diventati figli,

Le madri immerse nel candore del pianto,

Vive tra le piaghe e i germogli.

Che ora è, fratello? Resta, se vuoi, appeso alla luna,

E naviga sopra il marciume, tra l’affanno e il riposo.

Adesso la notte è lieta, ed invento liete parole:

Il verde fogliame dei tuoi capelli,

I cembali che rincorrono i violini

E spazzano via i sospiri dalla mia poesia!…

Dormono le onde in riva al lago, il vento,

Questi versi che scrivo nella sera,

Dormono, dormono, muoiono

Ma domattina si risveglieranno,

Amen.

 

 

 

 

Quei pensieri, quelle ambizioni sbagliate,

Quelle amare considerazioni sulla vita

Degli uomini che corrono laggiù,

Lungo l’autostrada che vedo dall’aereo.

Quelle voglie troppo piccole, eppure inconfessabili,

Non mi sorprenderebbero, non mi farebbero voltare la testa,

Non mi costringerebbero a sentirmi chissà chi:

Io, se sapessi, mi sentirei simile a loro,

Diventerei come quei puntini e non sarei più io

(O meraviglia delle enormi distanze e delle impressioni passeggere!).

Io, io, come quei pensieri, quelle ambizioni sbagliate,

Quelle amare considerazioni sulla vita…

 

 

 

 

Povera anima, conosci il tuo lignaggio.

Ogni sconforto era un gioiello, ogni tremore

Pura conseguenza. Oh quanto limpido e chiaro

Il tuo meschino procedere nel mondo!

Sprofondato in poltrona come su un trono,

Resta il corpo immobile: le ultime parole argentate

Hai forse sognato.

 

 

 

A nessuno vuole essere d’impaccio.

Col barboncino passeggia a piazza Vittorio:

Compra il giornale, che legge al bar, bevendo il cappuccino.

Poi prende poche cose che servono per cena.

Saluta il barista, il fruttivendolo, la guardia giurata…

Conosce tutti, la signora Luisa, ma nessuno conosce lei,

Nessuno la conosce veramente. (Suo fratello, giovanissimo,

Partì per l’Africa, ai tempi della guerra, e mai fece ritorno;

Poi si sposò ma dopo dieci anni rimase vedova.

Andò a servizio per campare… Di figli ne ha due,

Ma lei riesce a vivere da sola: cammina ancora bene,

e ancora è lucida, per niente rimbambita).

Piano piano se ne torna a casa, al quinto piano,

E per fortuna che c’è l’ascensore.

Ogni tanto riceve visite: amiche, vecchie signore.

Si mangia il gelato, si parla male del governo…

Fa passare il tempo, la signora Luisa, lo uccide lentamente,

Con calma, con scientifica sapienza.

Quando è sera, insieme al cagnolino,

Guarda qualcosa in tivù: e mentre guarda pensa a quand’era giovane,

E a come gli uomini si voltassero a guardarla.

Oppure pensa a una giornata trascorsa al mare, insieme al nipotino…

Gli occhi le si chiudono: meglio andare a dormire.

Si mette sotto le coperte e spegne la luce.

Dal buio, illuminato dal sogno, le viene incontro il fratello,

Quello morto in Africa, e il marito, che dolcemente le dicono:

«Luisa, vieni, ti aspettiamo…

È ora di rivederci».

 

 

 

 

 

 

 

 

4 ottobre 2024

 

Sul mio taccuino la splendida necessità,

La guerra felice concessa dal mio dio.

La vita scorre lietamente o dolorosamente,

Non importa: si tratta di messaggi ai solitari,

Ai pazzi veri, ai malinconici di professione.

La vita è senza meta, ma le parole ci guidano

O ci liquidano nel buio, nella luce, nel peccato:

Purissime azzurre sillabe che ci portano lontano,

Molto lontano, per renderci imprendibili.

 

 

 

 

Il grande castigo, il supremo sacrificio,

Il danno più grande subìto,

Che piaga l’anima fino al delirio,

Chi lo potrà cancellare, chi lo potrà riscattare

In questo vicolo cieco?

Il mondo è circondato dai canti:

Cantano le madri dei figli assassinati,

Cantano quelli che li hanno ammazzati…

Cantano insieme, madri e assassini,

Ma chi risponderà al richiamo?

Gli angeli accordano le loro arpe segrete:

Il mondo, infatti, viene cullato dai canti.

E questa ninna nanna

Forse salva il nostro pianeta infame.

Gli assassini, le madri, trovano pace

Nella lunghissima nota che nasce dal pianto.

 

 

Giubileo, un modo per fare soldi di questa Chiesa Cattolica in cui c’è tutto e il contrario di tutto. L’indulgenza plenaria si concede a chi viene a Roma, e che so’ scemi? Devono venire a Roma, a portare un po’ di soldi, sennò niente indulgenza. Solo per gravi impedimenti si può rimanere a casa e ottenerla. Ma per quali peccati si deve chiedere perdono in occasione del Giubileo? Non c’è già la Confessione, i vari Sacramenti, la Messa, tutti i giorni e tutto l’anno?

Ma la preghiera alla Vergine Maria non va perduta. Perché rivolgendosi a Maria si parla alla Madre, e la Madre, che forse si è incarnata in quella giovanissima di Nazareth, si manifesta in tantissime forme. Basti pensare alle molteplici divinità femminili dell’induismo: Pārvatī, Durgā, Sarasvatī, Lakṣmī e addirittura Kāli, che sembrerebbe quella meno materna di tutte. Invece, se si riesce ad andare in certi villaggi indiani, si vedranno templi con una Kāli materna, la più materna delle madri, perché lei e le altre non sono altro che figure femminili della Grande Madre. Ce lo ha insegnato il santo dei santi: Sri Ramakrishna Paramahamsa.

 

Una persona, a cui tengo molto, ha letto La piccola dea, interamente. Questo il suo giudizio:

“Carissimo Roberto, ho letto tutto e anche se tu mi dici sempre di non fare commenti, ti dico solo che sono parole divine. Un dio, una dea ti ha soffiato nell’orecchio per dirle”.

Mina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3 ottobre 2024

 

ROMANZI IN MINIATURA

 

                                                                                     Siddharta di Hermann Hesse

 

Non i riti della vecchia religione potevano appagare Siddharta, il giovane figlio del brahmino. Egli desiderava la Verità tutta intera. Nemmeno le rinunce sterili degli asceti lo attraevano. Perfino su Buddha aveva da ridire: la sublime Illuminazione non si può comunicare, diceva.

Allora il cercatore di Assoluto capovolse le dottrine che gli avevano insegnato: sprofondò nel mondo, in mezzo ai commerci e ai desideri carnali degli uomini-bambini, cioè nella comune esistenza.

Ma ciò non poteva durare a lungo. Presto Siddharta ebbe di nuovo sete di Verità. Così cominciò a domandarsi: com’è possibile trovare se stessi rimanendo lontani sia dal pensiero non veritiero che dall’azione sudicia e inutile, in una condizione neutra, tra cielo e terra?

A questa domanda rispose Vesudeva, un semplice barcaiolo: bisogna guardare dentro se stessi, disse, per imparare ad ascoltare. È lì, nel proprio cuore, la Verità.

 

 

                                                  Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hide di Robert Luis Stevanson                                                                    

 

L’avvocato Utterson, durante la solita passeggiata domenicale, venne a conoscenza di uno spiacevole e misterioso episodio: un certo Hide, gli dissero, aveva percosso una bambina ed era stato visto entrare nello studio del dottor Jekyll, noto scienziato. Purtroppo il nome di quell’abietto individuo non era nuovo all’avvocato: egli custodiva il recente testamento di Jekyll, suo cliente e amico, nel quale Hide era disegnato come unico erede.

Un uomo fu assassinato e tutti i sospetti caddero su Hide. «Non lo vedrò mai più!» promise il dottore ad Utterson che era andato a trovarlo, preoccupatissimo.

Lanyon, un altro scienziato, si ammalò gravemente e ciò sembrava avesse a che fare con Hide, e anche con Jekyll. La faccenda diventava sempre più strana. Poole, il maggiordomo, assistendo all’andirivieni di Hide presso lo studio del padrone ed ascoltando urla e lamenti in continuazione, chiamò Utterson e insieme sfondarono la porta.

Hide giaceva in terra, morto. Accanto a lui due lettere, scritte da Lanyon e da Jakyll.

«Una sera» scriveva Lanyon, «seguendo le istruzioni del dottor Jekyll contenute in un biglietto, prelevai alcuni ingredienti dal suo studio e tornai a casa. Qui, a mezzanotte, fui raggiunto da una persona in preda al panico: preparata in fretta una fumante pozione, la trangugiò davanti ai miei occhi. Quel che accadde mi ha fatto ammalare e sento la morte vicina… L’uomo si trasformò nel dottor Jekyll!».

La confessione di Jekyll fu senza reticenze. «Ho voluto separare il Male e il Bene mediante una potente droga» si leggeva sull’altro foglio, «e ora, per colpa della mia presunzione, sono perduto. La soluzione è nel suicidio: sì, uccidere Hide, porre fine al mio nefasto esperimento».

 

 

                                                                                        I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij

 

Il vecchio Karamazov, di cui voglio raccontare la storia, era un dissoluto e anche un violento. Un giorno fu assassinato, ma da chi? Forse dal figlio Dmìtrij, suo rivale in amore? Quando iniziò il processo, pochi ne dubitavano.

Intanto Ivàn, fratello dell’accusato, professava il suo ateismo: se Dio esiste, diceva, tutto è possibile. Era lui il vero colpevole. Smerdjàcov, il servo epilettico, disorientato da quelle idee, le aveva messe in pratica.

Dmìtrij infine venne condannato ai lavori forzati. Smerdjàcov s’impiccò.

Aljoša, il più giovane dei fratelli Karamazov, seguendo i consigli del monaco Zòsima, lasciò la pace e la solitudine del convento per tornare tra gli uomini, bisognosi di purezza e tenace compassione.

 

 

                                                                                             Luna di fiele di Pascal Bruckner

 

Eravamo felici, io e Béatrice. Sposati da poco, avevamo deciso d’imbarcarci su quella bella nave da crociera, verso Oriente. Volevamo andare verso il sogno, il mistero.

A bordo c’era anche un invalido, uno strano tipo, accudito da una donna giovane e bellissima, Rebecca.

Io e Rebecca ci siamo amati in maniera sconvolgente, caro mio. In principio sprofondammo nell’abisso dei sensi e in quello dell’amore sadico e masochista (esiste un altro genere di amore?). A causa di uno dei miei eccessi verbali, un giorno lei perse la pazienza e, per vendicarsi, mi spezzò la colonna vertebrale, riducendomi in questo stato. Amico mio, vedo che la desidera fortemente. Prego, la prenda se vuole.

Ma era soltanto un perfido gioco. L’invalido, sulla sua carrozzella, muoveva i fili di noi burattini: Béatrice s’innamorò di Rebecca, e io pure. Alla fine quel pazzo versò acqua bollente sul volto di Rebecca e quindi accusò me.

Conclusione: mia moglie mi lasciò e io rimasi a marcire in cella. Il nome del carcere turco in cui sono rinchiuso? Sàrk, che significa Oriente.

 

 

                                                                                             Il piccione  di Peter Süskind

 

Aveva un solo scopo: tenere alla larga gli esseri umani e vivere in pace. Ma un piccione, uno stupido e viscido uccello, d’improvviso travolse e distrusse la sua vita. Una visione agghiacciante. Piume ed escrementi sparsi sull’uscio di casa. E poi quell’occhio circolare, spalancato sul proprio abisso, che lo fissava.

Si recò al lavoro. Su e giù per otto ore davanti a una banca, a fare finta di difenderla, con tanto di pistola: un compito facile e ripetitivo, ideale per lui che aveva scelto quella quiete ostinata. Ma ora c’era il piccione.

Di notte si rifugiò in albergo. Si rese conto di non avere speranze.

Ci fu un temporale, quella notte a Parigi. La pioggia lo calmò quel tanto che bastava a farlo tornare a casa, all’alba. Lungo la strada si fece coraggio. Non c’era alternativa, doveva affrontare il piccione.

Quando giunse davanti alla sua porta, vide con sollievo che tutto era di nuovo a posto, pulito e ordinato. Del piccione nessuna traccia.

 

 

 

2 ottobre 2024

Danzare negli edifici del lutto. Pregare all’aria aperta, sotto il sole, insieme a tutte le creature che, ignorate, fanno della loro muta esistenza un lungo credo: poiché se ballano i filamenti delle alghe – e tu l’hai visto lo spettacolo marino al di là della maschera da sub – anche i pesci multicolori si muovono al ritmo segreto del mare, del grande mare, del mare infinito. Le nuvole viaggiano veloci dentro il quadro della tua visione, ma non sto parlando di adesso: hai undici anni e con tuo fratello sei sdraiato sull’erba a guardare il cielo… ed ecco che, muto, il mondo dice la sua preghiera – che non è altro che chiedere di vivere e respirare. Descrivere ciò che non si riesce a descrivere perché è dietro alla facciata delle cose e delle creature e delle genti: il mondo incerto, invisibile, che sta davanti ai nostri occhi ed aspetta soltanto una voce. Ma questa voce non può parlare.

 

 

 

 

 

1 ottobre 2024

 

La cosa abbastanza sconvolgente è che nessuno (giornalisti, critici letterari, scrittori, politici) abbia mai messo in risalto, scrivendo qualcosa come ad esempio un articolo ma anche semplicemente notandola e facendola notare, la citazione delle Passeggiate romane di Stendhal che ho inserito nel mio articolo, qui presente nel sito: «Considero il paesino di Nemi il quartier generale della Bellezza in Italia». Per verificare la citazione si veda il testo originale (Promenades dans Rome, Gallimard 1973, a pagina 658), e poi l’edizione italiana (Passeggiate romane, Garzanti 2004, a pagina 39). Già da alcuni anni esiste questo articolo e questo sito.

Nemmeno a Nemi, dico, il sindaco, un assessore al turismo… Quale frase pubblicitaria più utile e preziosa per il sito del Comune di Nemi?

(Tengo a precisare che io non c’entro niente, si potrebbe pubblicare la citazione e basta, senza assolutamente parlare di me). Le passeggiate romane sono uno dei libri più famosi di Stendhal.

Eppure, niente. Questo disinteresse ha qualcosa di terribile, eppure c’è qualcosa in esso che mi consola, che mi addolcisce invece di farmi arrabbiare. Forse ci sono gioielli che sfuggono proprio alla vista delle persone, troppo impegnate in altre faccende, perciò se gli fai vedere un miracolo divino, che so, l’apparizione di una enorme sfera luminescente in piena notte all’interno della piazza più affollata del mondo, nessuno la vedrà, o pochissimi. E forse è un bene. Dove c’è folla, c’è rumore, sudore, risse, insulti, partigianerie, liti, aggressioni, profeti improvvisati, televisioni, politici, ipocrisia eccetera eccetera.

Forse questo accade con il teatro del Santuario. Tutti sanno che esiste, sotto la villetta clamorosamente abusiva, ma a nessuno gliene importa assolutamente niente. In più la cosa è ancora più incomprensibile per il fatto che il “teatro” (non un teatro pubblico)  era il  luogo dove si svolgevano i riti del Santuario stesso. Molti indizi fanno pensare, come scrivo nel mio articolo, che il rito principale fosse lo scontro necessariamente mortale per ottenere la carica di “re del bosco”, forse in tarda età trasformato in una incruenta “rappresentazione scenica”.

Meglio così, appunto. Un tesoro che deve restare celato, forse per intercessione divina, che si serve del menefreghismo, dell’ignoranza, della vigliaccheria.

 

30 settembre 2024

 

Giornata impegnativa quella che mi aspetta oggi, dunque riporterò soltanto un piccolo episodio accaduto ieri pomeriggio. Prendendo il caffè con la mia Teresa, me ne sono uscito con una delle mie ormai tipiche riflessioni alquanto deprimenti sulla morte come destino universale, la crisi e l’inarrestabile decadenza del mondo contemporaneo, eccetera eccetera. Cose difficili da sopportare soprattutto per una persona appena tornata da una dura giornata di lavoro. Perciò lei ha replicato con una frase che suona più o meno così: «E mo’ basta con ‘sta morte! Io non ce la faccio più a pensare alle cose tristi! Che palle!». Tutta la frase, ma soprattutto quest’ultima vivace espressione, cioè «Che palle!», mi ha richiamato alla memoria una frase concettualmente molto simile dei Parerga e Paralipomena di Arthur Schopenhauer, un’opera considerata “minore” rispetto al celebre Il mondo come volontà e rappresentazione. Uscito in due volumi nel novembre del 1851, il libro contiene una serie di considerazioni su vari argomenti del tipo: Aforismi sulla saggezza della vita, Sulla filosofia e la scienza della natura, Della lingua e delle parole e altro. In un capitolo intitolato: Aggiunte alla dottrina dell’affermazione e negazione della volontà di vivere, si può leggere testualmente nella traduzione italiana pubblicata da Adelphi nel 1987 (in originale, a pagina 235 dell’edizione Ravensburger, Und nun genug mit diesem Tod! Ich kann nicht mehr an traurige Dinge denken! Was für eine Nervensäge!): Bè, in effetti me so’ rotto i cojoni de pensà sempre a ‘ste cose brutte, forse un massaggio cinese mi farebbe bene.

Poi Teresa ha aggiunto: «Se non la smetti, stasera la cena te la scordi, e me ne vado in pizzeria con le amiche!».

Questa frase nel libro di Schopenhauer non l’ho trovata.

 

 

 

 

 

 

29 settembre 2024

Dylan Thomas

 

La forza che scorre lungo lo stelo e fa esplodere il fiore, sospinge la mia verde età; quella che dissecca la radice degli alberi, è per me distruzione. Non so spiegarlo, ma la febbre invernale che appassisce la rosa, piega anche la mia giovinezza.

La forza che conduce l’acqua tra le rocce, fa circolare il mio sangue; quella che prosciuga il fiume, trasforma il mio vigore in spossatezza. Perciò chi beve a una sorgente inaridisce le mie vene.

La mano che agita l’acqua nello stagno, mescola le sabbie mobili. Il vento attorciglia le vele, eppure scioglie i nodi e soffia sul mio sudario. Non dico all’impiccato che sono io il suo boia.

L’amore nasce, si lacera, guarirà le sue stesse ferite. Io conosco il ritmo del firmamento, ma non so parlare dello scorrere delle stagioni.

Ora il verme, uscendo dalla tomba della mia amata, mi sta raggiungendo.

 

 

The force that through the green fuse drives the flower/Drives my green age; that blasts the roots of trees/Is my destroyer./And I am dumb to tell the crooked rose/My youth is bent by the same wintry fever.//The force that drives the water through the rocks/Drives my red blood; that dries the mouthing streams/Turns mine to wax./And I am dumb to mouth unto my veins/How at the mountain spring the same mouth sucks.//The hand that whirls the water in the pool/Stirs the quicksand; that ropes the blowing wind/Hauls my shroud sail./And I am dumb to tell the hanging man/How of my clay is made the hangman’s lime.//The lips of time leech to the fountain head;/Love drips and gathers, but the fallen blood/Shall calm her sores./And I am dumb to tell a weather’s wind/How time has ticked a heaven round the stars.//And I am dumb to tell the lover’s tomb/How at my sheet goes the same crooked worm.

(traduzione in prosa di r. v.)

 

28 settembre 2024

 

Libri sul mio letto. Ci dormo insieme. Non posso dire tutto. Non posso dire il libro a cui tengo così tanto che preferisco tacerlo, nasconderlo. Posso dire che il testo di questo piccolo volume, per me una vera rivelazione, è compresso, tenuto assieme ma forse è meglio dire incastrato tra una prefazione e una postfazione. Così ha voluto l’editore italiano. Se ci fosse stata soltanto una prefazione, da quando l’ho comprato, l’avrei sfogliata e anche letta. Ma la postfazione mi ha fregato. Eh no, è troppo. E che avete paura di quel testo? Bisognava intrappolare il libro di quel filosofo tedesco del Novecento. Questo mi ha urtato. Sono due o tre anni che ho il volume con me, ma non ho mai letto quel “prima” e quel “dopo”. Ho una tale sfiducia nella critica (certo, derivante da pregiudizi), che non ci riesco. Sono rimasto scioccato una volta da una postfazione al romanzo (o racconto lungo) di Joseph Conrad, I duellanti, che è un libro assolutamente geniale, scritto da un vero maestro. Bè, questo individuo, il postfatore, è stato così invidioso e stupido e inopportuno da parlarne. E non si capisce per quale ragione l’editore abbia voluto pubblicare quella specie di articolino strampalato. Ma perché metti in vendita, tu editore, un libro stupendo, che poi è un classico, e gli metti vicino, dopo la parola fine, la puttanata di un disgraziato ignorante che trova difetti inesistenti, o forse esistenti solo nella sua mente?

Forse un giorno leggerò questa prefazione e questa postfazione. Magari mi sbaglio e sono scritte meravigliosamente. Ma amo troppo quel libro,  ho troppa paura che gli facciano male in qualche modo.

Continuando l’elenco dei libri con i quali dormo.

Vasugupta, Gli aforismi di Śiva. a cura di Raffaele Torella. Adelphi.

Luciana Frezza, Parobala sub, Empirìa Edizioni.

I precedenti volumi sono fissi. Poi ci sono quelli che ruotano, che hanno un posto fisso che periodicamente cedono a un altro volume degli “immortali del mio letto” per poi riaverlo dopo un po’ di tempo. (Ciò accade anche con le diverse edizione dello stesso libro).

Teocrito, Idilli e epigrammi, diverse edizioni.

Sandro Penna, Poesie, Garzanti.

Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Einaudi.

Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, Mondadori.

Henry Miller, Tropico del Capricorno, Feltrinelli.

Bhagadgîtā, varie edizioni.

Esiodo, Teogonia, varie edizioni.

Porfirio, L’antro delle Ninfe, Adephi.

Publio Virgilio Marone, Le Bucoliche, varie edizioni.

Dylan Thomas, Poesie, varie edizioni.

Aurora Ciliberti, Le meditazioni di Baudelaire II, Scheiwiller.

Arturo Onofri, Vincere il drago, Tilopa.

Bhāgavata Purāṇa, varie edizioni.

Giacomo Leopardi, Le operette morali, varie edizioni.

Margerita Guidacci, La sabbia e l’angelo, Vallecchi.

Giorgio Varese, Personaggi per Roberto, Edizione stampata privatamente.

Pietro Cimatti, L’uomo zero, Astrolabio.

Eugenio Montale, Farfalla di Dinard, Neri Pozza.

Quando i libri stanno occupando l’intero spazio del letto, Teresa ne prende alcuni (quelli che ruotano di posto, non “gli intoccabili” fissi), e stabilisce una casuale selezione, inevitabilmente di alto livello.

Così dormo sempre tranquillo.

 

 

 

27 settembre 2024

 

Tutti devono morire. Questo semplice e incontestabile pensiero mi accompagna da quando mi alzo la mattina fino quando mi metto a letto per dormire. Vado per strada ed entro in un bar e chiedo un caffè al barista e penso: «Poverino, tra un po’ dovrà morire». Mi volto e vedo una signora seduta al bar. Forse ha la mia età. Sta parlando al telefono. Provo compassione per lei, destinata a morire. In giro tutti mortali. Il traffico caotico, tutti di predestinati nelle loro autovetture. Passa una bella ragazza? So che invecchierà e la so qual è il suo destino. Ricordo il famoso verso di John Donne: «…e dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona anche per te». Bellissimo. Ma forse i contemporanei di questo poeta, quando lo vedevano passare, si voltavano dall’altra parte. Non voglio  essere irrispettoso verso questo da me amatissimo poeta, mi scuso se lo sembro. Cerco di alleggerire i miei pensieri. Bisogna farlo, è inevitabile. Infatti io, alla fine, penso molte cose belle e sagge e divertenti e che oltrepassano questa labirintica prigione che è il mondo. Oggi è una bella giornata di sole. Giuro, andrò a fare una passeggiata senza pensare alla morte.

 

Adesso andrò dall’iraniano, per innaffiare le piante. Avevo detto che non avrei pensato alla morte. Ma andare a trovare Mohammed Hosssein Naghadi è come andare a trovare un amico, ormai. Soltanto che, invece degli amici vivi, che ti tradiscono e spariscono e fanno anche di peggio, lui c’è sempre, mi aspetta per i fiori che devo innaffiare. Anche ieri sera, tornando a casa, sono passato di lì. Non avevo con me l’acqua ma sapevo che avrei trovato umida la terra delle piantine. Erano belli i fiori nell’ora del tramonto. È bella anche questa amicizia con la persona sconosciuta che le innaffia senza mai farsi vedere, e non manca mai di farlo. Abbiamo orari diversi. Ma non importa incontrarla, la sento vicina, e tutta questa storia dei fiori da innaffiare mi scalda un poco il cuore.

Ho dunque trovato una persona amica a causa di un amico morto. Dunque questo pensiero continuo della morte ha prodotto qualcosa di vero, di bello, di vivo.

 

Tornato a casa, mi stendo sul letto e in quel momento parte un fraseggio sonoro di un uccellino che si è messo proprio sull’albero davanti alla mia finestra. Non è proprio un canto, appunto è una frase con cento suoni modulati, è come stesse facendo un discorso pieno di alti e bassi, girando intorno allo stesso tema, sprofondando in ciò che sta dicendo, alzandosi, piegando i suoni per esprimere un significato che soltanto lui capisce, o soltanto un suo simile. È da solo, così pare, e parla in maniera molto articolata del mondo, dell’universo, del giardinetto sul quale è cresciuto l’albero foglioso in cui sta facendo le sue dichiarazioni. Pare che non canti il mondo, che non lo celebri, e forse lo fa in  una maniera che non ho mai sentito prima. Sta spiegando qualcosa, questo è certo. Ci mette molto impegno, è una lunga frase, sembra non terminare mai. Secondo me, se fossimo capaci di capire, d’intendere ciò che sta dicendo, allora potremmo vedere in certi abissi che finalmente sarebbero illuminati, e perciò non ci farebbero più paura, come la morte innanzitutto. E’ il non sapere che ci spaventa.

Ho ascoltato lo strano canto del volatile enigmatico per dieci, quindici minuti. Poi ho sentito un frusciare di foglie, di ali, ed è andato via. Ecco, terminato il suo discorsetto rivolto a tutti e a nessuno, è partito per altra destinazione. Forse avrà avuto bisogno di procurarci il cibo, chi lo sa.

Che strana creatura. Ma non più strana e incomprensibile dell’intero cosmo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

26 settembre 2024

 

Stefano D’Arrigo. Abitava qui vicino, a meno di un chilometro. Quartiere Talenti. Case simili a questa dove sto io, costruite negli anni Settanta. Un quartiere tranquillo, per famiglie. Molto silenzioso durante il giorno, e la notte. L’ideale per uno scrittore. Luogo eccellente per affrontare i propri incubi. Nei piccoli giardini che circondano le palazzine (non più di quattro/cinque piani), gli uccellini si fanno sentire.

Abitava con la moglie e scriveva il suo libro, Orcynus Orca, per più di vent’anni. Lo scriveva e lo riscriveva, mai soddisfatto, cercando una perfezione impossibile, conducendo una battaglia perduta in partenza. L’editore Arnaldo Mondadori credeva in questo scrittore e gli pagava una rata annuale, sperando che concludesse il suo libro. Ma lui non lo finiva mai. Aggiunge pagine e pagine, poi le tagliava, ma poi le rimetteva. In quella casa silenziosa, scriveva tutto il giorno. Sua moglie lo rincuorava, lo assisteva in ogni modo, gli faceva da segretaria, da moglie, da infermiera, da cuoca, da amica confidente. Infatti il libro è dedicato a lei, con questa dedica: «a Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano».

Senza volermi paragonare a uno scrittore così importante, posso dire che la mia vita è stata e in parte è ancora molto simile. Anche io ho scritto per anni e anni La piccola dea, addirittura continuando a riscriverlo dopo averlo visto stampato. Non andava bene. Così ci ho lavorato, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ma senza un editore che avesse fiducia in me e che mi pagasse una rata mensile (non l’ho mai nemmeno sognata una cosa del genere). Unici interlocutori, un paio di amici a cui davo periodicamente in mano il manoscritto giurando che era la versione definitiva e che potevano tranquillamente tenerlo tra i libri della loro biblioteca, anche se non era pubblicato, “per l’eternità”. Ma dopo un anno ritornavo dagli amici con un nuovo manoscritto. «Il giuramento dello scorso anno non vale più» dicevo, «è questa la versione definitiva». Alla fine non mi credevano più, però accettavano il manoscritto con rassegnazione e per gentilezza. Sapevano che tra un po’ di tempo sarei tornato con una nuova versione “definitiva”. Per un lungo periodo è stata mia madre la mia assistente e infermiera e segretaria eccetera eccetera (infatti il mio libro è dedicato a lei), ma quando è morta è stata sostituita da Teresa, che è stata la mia Jutta nella parte finale della stesura di questo mio libro che oramai è finito davvero. Non posso esserne assolutamente certo ma penso proprio di sì. Continuare a lavorarci significherebbe soltanto rovinarlo. Che sia un capolavoro o no, non importa. Adesso rimane così com’è.

Orcynus Orca, un romanzo visionario, carnale, mistico, apocalittico, molto vicino alla “poesia”… 1.265 pagine. Io per La piccola dea ne avrò scritte altrettante, se non di più, ma ho tagliato senza rimettere a posto, scritto e cancellato, definitivamente, ridotto all’essenziale, e poi questo essenziale l’ho ancora più ridotto, ancora e ancora, fino alle poche pagine che sono rimaste, un libretto in fin dei conti. Però sento questo scrittore come un fratello, un compagno d’avventura. Cercare la sfida, la perfezione impossibile, dedicare una vita intera a un solo libro.

Negli anni Ottanta, quando da non iscritto frequentavo l’università La Sapienza, non c’era studente o professore che non raccomandasse  di leggere e studiare Orcynus Orca. Andava di moda, guai a non averlo letto. Era tra i libri da portare agli esami di letteratura italiana e all’esame gli studenti venivano interrogati su quello. Chissà che cosa avranno domandato i professori ai poveri studenti obbligati a leggerlo anche probabilmente non ci capivano nulla? Se qualcuno mi chiedesse adesso cosa significa, come è scritto, che cosa è, io non saprei rispondere. Forse di ogni opera veramente grande non si può dire nulla, ma per questo libro di D’Arrigo è quasi proibitivo. La critica, lo studio specializzato, di solito crea più domande di quante risposte riesca a dare. Certo, è giusto studiare, scrivere prefazioni, analizzare parola per parola, per carità!, ma l’essenziale sfugge e rimane, se rimane, nel cuore del lettore, come un segreto di cui è vietato parlare.

 

25 settembre 2024

 

Tocca abbozzare, questo si sa. Nella vita, nell’amore, negli affari… ah, scusate, dovevo prima spiegare che abbozzare in romanesco significa accettare ciò che capita, rassegnarsi agli eventi negativi. Tocca abbozzà, devi abbozzà… E così si tira avanti, si vivacchia, si passano i giorni, gli anni, i secolo, i millenni. Perché abbozziamo, rassegnati, per sempre.

E se non abbozzassimo? Questa è una cosa che non ho mai preso in seria considerazione. Sarebbe la rivoluzione, la rivolta, la rinascita. Rivoluzione interiore, s’intende. Non mi sono mai piaciute le rivoluzioni politiche e sociali. Vanno sempre a finire male. Ci si rimette. E chi poi ci rimette? Quelli che le fanno, le rivoluzioni. Chi sale sulla barricata. Chi si fa spaccare la testa dal poliziotto.

Altri invece magari ci guadagnano. Quelli che vengono dietro, che rimangono in seconda fila. Quelli che prima vedono come va la faccenda e poi… Sono quelli che comanderanno, alla fine.

Chi muore e chi vive, chi resta indietro e chi fa carriera. È sempre stato così e sempre lo sarà.

Me li ricordo bene, io, quelli che ci guadagnano a fare la rivoluzione. Anche piccole rivoluzioni. Stavano a vedere come andavano le cose. Ora fanno gli avvocati, i medici, i pubblicitari, ovviamente ai piani alti…… Non hanno preso una sola manganellata.

Ne ho incontrato uno recentemente. Aveva uno sguardo un po’ vuoto. Un bel po’ di pancia. Vive abbastanza serenamente. Non ha mai chiesto molto dalla vita. Un realista, diciamo, mica un illuso, un ingenuo, un idealista.

In fondo è una questione di carattere. Chi voleva proprio bruciarsi ad ogni costo, l’ha fatto.

Io, come al solito, non vedevo senso nella lotta. Osservavo. Non mi pareva il caso di impegnarsi tanto per un cambiamento che non sarebbe avvenuto mai. Ero filosofo fin da ragazzino. Ero contro la vita. Ma in nome di che cosa?

La rinuncia, la disillusione, il sorriso amaro… ero vecchio rispetto ai miei coetanei rivoluzionari o finti rivoluzionari. I primi avevano una gran fretta di morire, i secondi la fretta ce l’avevano sì, ma di fare carriera. Io non avevo voglia né di vivere né di morire. Ero sospeso nel vuoto. Il problema era abbozzare, prendere la vita così com’era.

Ho abbozzato, infatti. Ed eccomi ancora qui. E vi pare poco?

 

 

 

 

 

 

24 settembre 2024

 

Ringrazio Dio (se esiste) per avere l’opportunità di scrivere questo Diario. Che libertà! Che cosa meravigliosa poter scrivere senza rendere conto a nessuno. Non so se le persone che non hanno mai lavorato nell’informazione o nell’editoria possano rendersi conto della mia soddisfazione.. Io ne ho passate di tutti i colori. Tutti ne passano di tutti i colori facendo qualsiasi lavoro se vogliono mantenere un poco di dignità e di autonomia nelle scelte “professionali”. Ma nei giornali, alla radio, presso un editore, non si tratta semplicemente di eseguire bene un compito, come in tanti altri tipi di lavoro: bisogna metterci il cervello, per dire qualcosa di vero o di falso, con un poco di anima, insomma. Per questo ci si può trovare in situazioni spaventose. Io, per dire, ho lavorato anche nella pubblicità (che, per certi versi, è l’ultimo gradino dell’informazione), presso agenzie importanti, internazionali, come ad esempio la famosissima Saatchi&Saatchi. (Della mia esperienza nella pubblicità ho già parlato in una precedente pagina del Diario). Il direttore creativo della filiale italiana della suddetta Saathi&Saatchi era un tipo simpatico, non c’è alcun dubbio, e avrò per lui eternamente gratitudine per avermi preso a lavorare senza raccomandazioni, cosa alquanto strana in Italia, no? Mi presentai una mattina, e dopo un colloquio mi disse che potevo cominciare a lavorare quella mattina stessa, così, su due piedi. Veramente bravo. Però ho dovuto accettare di pubblicare annunci assolutamente farneticanti. E non erano nemmeno necessari. Cioè, se per vendere un cazzo di prodotto bisogna scrivere una cosa brutta e completamente idiota, va benissimo, è lavoro, e poi è tutto anonimo, nessuno saprà mai che hai scritto tu quella stronzata. Però, cavolo, non fatemi impazzire a trovare una cosetta appena appena migliore se poi è inutile perché decidere voi, giusto? Come sempre, lì e in ogni altro lavoro che ho fatto, vedevo la maggior parte dei colleghi adattarsi perfettamente.

Al quotidiano la Repubblica, quello dei bei tempi andati, quando portavo al caporedattore della redazione cultura la mia brava recensione di un libro scritta su un foglio battuto a macchina (con la Olivetti Lettera 22), le cose andavano meglio, certamente, però non si potevano esprimere giudizi liberamente, nemmeno su libri palesemente orribili, figuriamoci poi su quelli pubblicati da editori che gravitavano in un modo o nell’altro intorno al giornale, che forse appartenevano alla proprietà del giornale stesso. Dunque era assurdo pretendere di dare un giudizio vero. Infatti poi mi cacciarono via, limortacci loro.

Evitiamo poi di parlare della Fazi Editore., farò solo un accenno. Mi pubblicarono la prima versione della Piccola dea, e questo rimane una cosa bella che non dimenticherò mai, ma poi mi inguaiarono con un libro e una situazione che mi fece impazzire letteralmente. Ma questa storia sta nel libro della Piccola dea, non si può leggere nelle prime pagine che ho messo in mostra qui. Chi vuole conoscerla dovrà procurarsi il libro intero, e io non so ancora se troverò un editore o lo offrirò in vendita su questo mio sito.

Qui scrivo per i pochi e per buoni. Li possono nominare per nome: Angelo, Mina, Cristina, Teresa, Alberto 1, Alberto 2 (in ordine di apparizione), Giovanni, il marito di Cristina (forse), e pochi altri, E del resto a chi potrebbe interessare ciò che scrivo? Dimenticavo mia cugina soprannominata Faffa. A lei tengo molto, e ancora non gliel’ho detto che esiste il Diario. Insomma, siamo in famiglia. Queste persone mi hanno scritto letterine (email) così belle che giustificano questa follia di scrivere ogni giorno il Diario del Re del bosco. Che sarei io, lo sapete, no? Mi sono autoproclamato Re del bosco. Ironicamente, certo, non sono diventato completamente pazzo, almeno non ancora.

Re di un mondo tutto mio, immaginario. Ma dove svolgo il mio mestiere regale? vi chiederete. In un bellissimo luogo, che per sua natura è sospeso tra realtà e sogno: sulle rive del lago di Nemi, e dentro il suo bosco formato da innumerevoli alberi e piante: il leccio (Quercus ilex), il rovere (Quercus petraea), la roverella (Quercus pubescens), l’acero campestre (Acer campestre), l’agrifoglio (Ilex aquifolium), il biancospino (Crataegus monogyna), la ginestra odorosa (Spartium junceum)…

 

 

 

23 settembre 2024

 

Prendo la Vespa e faccio il mio giretto verso la campagna, per distrarmi dai cattivi pensieri derivanti dalle cattive notizie. Guerra atomica annunciata ogni giorno, missili (che portano testate nucleari 500 volte più potenti di quella sganciata su Hiroshima), pronti a partire e a colpire le città in Europa. Crisi economica evidente, servizi pubblici allo sbando (ospedali, trasporti, manutenzione delle strade), crisi politica e istituzionale, informazione condizionata, sempre meno libera, eccetera eccetera. Però, alla borgata Cinquina, poco prima del parco della Marcelliana, fermo al semaforo rosso, mi investe un forte odore di carne bruciata. Se stavano a fà la braciola, insomma. In fondo non gliene frega niente a nessuno né delle bombe atomiche né della crisi economica, politica, sociale. Basta che se potemo fà la braciola, al limite la bruschetta. È la natura di un popolo che si rivela in questo modo. E io che mi lamento perché nessuno si interessa al teatro del Santuario di Nemi.

 

 

Anche questa cosa non importerà a nessuno, lo so benissimo. Anzi, come si dice a Roma, diranno: Non me ne può fregà de meno! Però mi è venuta in mente pensando alla carne bruciata che ho sentito stamattina, e la scrivo comunque per sfogarmi.

La grande messinscena dell’agosto è passata, e ce l’abbiamo fatta. Città vuote, desolazione… La prossima recita si farà a Natale. Quasi tutto il Natale non avrà nulla a che fare con Gesù. Grandi magnate, anche di abbacchio, cioè la carne di agnello. Che poi non c’entra niente col Natale perché è un piatto tradizionale della Pasqua, però ci sono quelli che approfittano e se lo magnano pure la sera della vigilia o al pranzo del 25 dicembre. La cosa in se stessa è orribile, se uno ci pensa un momento. Non c’è bisogno di diventare vegetariani fanatici per provare disgusto per la carne del cadavere di un agnello e repulsione per la sua brutale uccisione. Mi ricordo quella volta, verso Pasqua, andando sempre lì, al parco della Marcigliana, tra via Salaria e via Nomentana. Vidi questi agnellini meravigliosi, attaccati alle mammelle delle madri, o che in gruppo, come cuccioli di cane, correvano sui prati…  Sapevo che sarebbe stati sterminati. Infatti quando tornai pochi giorni dopo non ce n’era rimasto nemmeno uno.

Per favore, non lo mangiate l’abbacchio il prossimo Natale (come niente ci arriveremo), rifiutatevi, non lo preparate e non lo fate preparare se vi ospitano.

Sì, so benissimo quale sarà la risposta di alcuni a questo mio appello: Non me ne può fregà de meno!

 

 

 

 

 

 

 

 

22 settembre 2024

 

Una poesia di Dylan Thomas

 

Un’estranea condivide la mia stanza nella casa irragionevole, una ragazza folle come gli uccelli, che chiude e sigilla la porta notturna col suo braccio di piuma. Imprigionata nel letto dei pazzi, fugge dalla stanza a prova di cielo facendo entrare le nuvole; e dalla stanza degli incubi evade passeggiando lungo il cammino dei morti, o vola sugli oceani immaginari delle corsie maschili. Venne da me invasata, accogliendo la falsa luce che piove da quelle mura, invasata da tutti i cieli! Dorme nel truogolo stretto e tuttavia cammina nella polvere e vaneggia a suo piacere sui pavimenti consumati dal mio pianto. Abbracciato finalmente alla luce che mi è cara, io posso senza timore sopportare la prima scintilla che incendiò le stelle.

 

 

Love in the Asylum  A stranger has come/To share my room in the house not right in the head,/ A girl mad as birds// Bolting the night of the door with her arm her plume./ Strait in the mazed bed/ She deludes the heaven-proof house with entering clouds// Yet she deludes with walking the nightmarish room,/ At large as the dead,/ Or rides the imagined oceans of the male wards.//She has come possessed/Who admits the delusive light through the bouncing wall,/Possessed by the skies//She sleeps in the narrow trough yet she walks the dust/Yet raves at her will/On the madhouse boards worn thin by my//walking tears.//And taken by light in her arms at long and dear last/I may without fail/Suffer the first vision that set fire to the stars.

 

(traduzione in prosa di r.v.)

 

 

 

 

21 settembre 2024

Sono un poco felice, stasera. La persona sconosciuta che insieme a me si occupa delle piantine in onore di Mohammed Hossein Naghadi, l’eroe iraniano, dopo qualche di giornata di pioggia, è tornata, non ha dimenticato. Ho visto la terra bagnata, ha innaffiato le piantine forse stamattina. Avanti così, non ci ferma nessuno!

 

 

«Sei rimasto solo tu». Così mi disse il professore di disegno al liceo artistico di via Ripetta. Lo incontrai una sera, a piazza Madonna dei Monti, sugli scalini della fontana. Questo accadde molti anni fa, forse venti se cerco di dare una approssimativa collocazione temporale all’episodio.

Che cosa voleva dire? Ero rimasto solo io a voler essere un “artista”, diciamo, un poeta, qualcosa del genere. Se ci rifletto adesso, poiché scambiammo poche parole, era questo che voleva dire. E perché sosteneva che fossi rimasto addirittura “il solo”. Come me l’ero guadagnata questa considerazione così lodevole e gratificante? Che cosa avevo detto, o fatto? Evidentemente mi ero comportato in un certo modo, e un modo diverso dagli altri. Non ricordo esattamente ciò che all’epoca facevo o dicevo ma certamente mi sono rimaste impresse nella memoria, dico per iniziare il discorso, una marea di stupidaggini, assurdità, vere e proprie idiozie che avrei potuto evitare e che mi hanno enormemente danneggiato, anche se non troppo, essendo ancora vivo.

Questo voler essere un poeta, un “artista”, ad ogni costo, meriterebbe un bel romanzo, ma io non sono capace di scriverlo e poi ne sono stati scritti a decine, forse centinaia sul come un giovane si mette in testa di essere “un poeta”, un “artista”, mettendosi contro la famiglia e tutto il resto. Ci sono sicuramente dei classici che trattano l’argomento. Se ci penso un momento…Ritratto dell’artista da giovane di James  Joyce, ad esempio. E poi: Tonio Kröger di Thomas Mann, I ragazzi terribili di Jean Cocteau, Il Diavolo in corpo di Radiguet , Il giovane Holden di Salinger… Avrei fatto meglio a leggerli, anzi a rileggerli e comprenderli invece di leggerli superficialmente. Ma più dei romanzi mi pare che avrei dovuto considerare con maggiore maturità le biografie di certi poeti e scrittori, invece di osannarle e anzi cercare di imitare le loro “stagioni all’inferno”: Rimbaud, Dylan Thomas, Dino Campana, Sandro Penna…

Del resto, un’anima romantica e ribelle come la mia a quali persone avrebbe dovuto fare riferimento? Tutto il peggio l’ho ricavato da loro, e dalle loro opere, che spesso non raccontavano altro il modo in cui avevano vissuto e ciò che avevano provato. Tutto il peggio ma anche tutto il meglio. E poi c’erano i poeti che conoscevo personalmente, veri e propri “maledetti”, come Pietro Cimatti, Marcello Landi, Margherita Guidacci, Gianfranco Palmery. Ammirati con devozione, anzi adorati.

Facile adesso, alla mia età, condannare e riconoscere gli errori plateali commessi dal un giovane (cioè il sottoscritto), che sì, è vero, aveva trascorso una vita da “vero artista”, scontando pienamente tale scelta, innanzitutto con un doloroso isolamento. Certo, ce l’ho messa tutta a distruggere la mia vita. Ma come ho scritto nella Piccola dea, obbedivo a un impulso che mi sovrastava. Era una malattia mentale, una debolezza di carattere, forse qualcosa di profondissimo e d’incomprensibile che mi guidava, nel cielo e nell’abisso.

Ma come avrei potuto non sbagliare?

 

Trovo nel mucchio dei miei libri un libretto di Adriano Dorato. Fisicamente me lo ricordo a malapena. Una persona dolcissima, amico di quel vero matto da legare di Aldo Piromalli, che era stato uno dei primi hippy degli anni Sessanta, e un poeta. A leggere quelle pagine si capiscono tante cose…. Anche se tutto appare assurdo e incomprensibile a distanza di tempo, bisognerebbe evitare l’errore di gettare se stessi interamente nei rifiuti e di salvare invece ciò che era giusto, vero, bello.

Forse questo mio strano diario serve a salvare quello che sono, e quello che sono stato.

 

 

 

20 settembre 2024

 

«Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco».

(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario, 1935-1950).

 

Povero Pavese… La donna “dalla voce roca” lo ha fatto impazzire, lo umiliava con questa storia dell’eiaculazione precoce. Ma porca miseria, adesso con una pasticca di Viagra la farebbe contenta, a quella stronza.

 

Possibile non ci sia, magari in Svizzera, una clinica per far guarire dall’eterosessualità, da questa ossessione per le donne che sembra non avere mai termine? Una bella, lussuosa, clinica immersa nel verde. Con i migliori psicologi e psichiatri. Entri eterosessuale ed esci gay. Magari con l’aggiunta di trattamenti “d’urto” affidati a personale altamente specializzato proveniente dall’Africa centrale (se vogliamo dare retta a certe dicerie e pregiudizi). Però un gay pacificato, tranquillo, che se ne sta tranquillo a casa a leggere i classici, perché sennò si ricomincia con gli uomini e allora no, è inutile.

 

Oggi il Diario va così, un po’ stupidamente. Avevo pensato di impegnarmi a scrivere un saggio intitolato: Lo squirting e la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Ma lasciamo perdere. Non esageriamo con la stupidità.

 

A domani, amiche e amici del Re del bosco.

 

 

 

 

19 settembre 2024

 

Oroscopo del giorno 19 settembre 2024, che sarebbe interessante ascoltare in certe rubriche radiofoniche o sul Messaggero.

 

Ariete. Giornata di merda. Meglio che vi andate a nascondere. Le stelle dicono che sarebbe meglio espatriare, e maglio ancora trasferirvi in un altro pianeta. Qui la vostra vita è un casino, un imbroglio, una deplorevole illusione.

 

Bilancia. Meglio suicidarsi subito.

 

Vergine. Le conseguenze catastrofiche della vostra giornata derivano dal semplice fatto che fate profondamente schifo, e lo sapete fin troppo bene. Infatti farete schifo non soltanto oggi, ma anche domani e dopo dopodomani, fino alla fine dei vostri giorni, ormai prossima.

 

Cancro. Basta il nome. Andate in ospedale, ma sarà inutile.

 

Scorpione. Se non vi hanno già fatto il T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio) è soltanto perché le persone che vi circondano hanno pietà di voi, dei vostri problemi psichici che non avranno mai una soluzione.

 

Toro. Segno di terra. Terra bruciata, e se ne rimane ancora un poco tra un incendio e l’altro, bisogna bruciare pure quella.

 

Sagittario. Non pervenuto.

 

Gemelli. Una giornata di merda, pure per voi. Peggio di quella di ieri. Meglio non parlare di quella di domani….

 

Leone. Una vita meravigliosa. Comincerà da oggi. Ricchezza, felicità, fortuna, salute. (Non è vero).

 

 

Ah, l’infanzia, magico territorio che si vorrebbe percorrere di nuovo, e per sempre!

Ricordo l’ultima partita del campionato di calcio interno alla scuola elementare gestita dalle suore, dove i miei genitori mi avevano mandato su suggerimento di una persona che consigliò vivamente quell’istituito religioso dove le suore, aveva detto a papà e mamma, sono molto colte e competenti e sanno educare i bambini con dolcezza ma anche talvolta con un poco di severità, se necessario. Un grande pedagogo, senz’altro.

Il campionato era durato lungo l’intero anno scolastico. Ora si era arrivati alla sfida decisiva tra la mia squadra, la 5°A, e quella che contendeva il nostro primato e la vittoria finale, cioè la 5° C. Io ero il capocannoniere con ben trentasei gol realizzati. Avevo l’istinto del goleador, una specie di Gigi Riva di dieci anni.

Infatti dopo pochi minuti realizzai il primo gol e poi subito un altro.  Che felicità vedere entrare la palla nella porta avversaria, gridare di gioia con tutto il fiato, ricevere l’abbraccio dei compagni…

Alla fine del primo tempo il risultato di 2-0 faceva presagire un sicuro successo. Però, imprevedibilmente, nel secondo tempo un tiro abbastanza facile da parare entrò nella nostra rete. E poi un altro, altrettanto facile. Il nostro portiere, solitamente molto affidabile, incomprensibilmente e improvvisamente era diventato una “schiappa”. A tempo quasi scaduto la squadra avversaria segnò un altro gol, e vinse la partita e perciò il torneo.

Grandissima delusione per me. Ero il goleador del campionato, non so se mi spiego, ed ero sicuro che avrei vinto il campionato.

Alcuni anni dopo incontrai per caso un ragazzo, in un bar. Avevamo vent’anni tutti e due. Ci mettemmo a chiacchierare da perfetti sconosciuti e poi scoprimmo che avevamo frequentato la stessa scuola elementare e alla fine saltò fuori che lui era il portiere della mia squadra, lui! Quello che si era fatto fare tre gol facilissimi!

Mi disse: «Dopo tanti anni posso dirtelo. Quei gol me li feci fare perché uno dei tuoi compagni di squadra aveva uno zio che gli dava da leggere riviste pornografiche, allora mi promise che me le avrebbe fatte vedere pure a me se mi facevo fare i gol».

«Ma stai scherzando, vero?».

«Pura verità» rispose.

Io mi incazzai come una bestia. «Hai corrotto il portiere della mia squadra! Con delle riviste porno! E meno male che avevi dieci anni e andavi dalle suore! Limortacci tua, sei stato un vero fijo de ‘na mignotta!».

«Vabbè, dai, dopo tanto tempo, non vale la pena di arrabbiarsi così!».

Me ne andai senza salutarlo. Paolo si chiamava. Chissà che fine ha fatto. Avrà fatto lo spacciatore di droga in prima media, sicuro!

Il portiere della mia squadra, corrotto, a dieci anni, a scuola dalle suore! Limortacci sua!

 

 

 

 

 

 

 

 

18 settembre 2024

 

Come quella volta che, a cena da amici, uno degli invitati, un pittore, disse che Ringo Starr, il batterista dei Beatles, era il meno intelligente dei quattro, anzi uno stupido. Rimasi immobile, in silenzio, e sentii una fitta al cuore a cui non feci molta attenzione. Ma più tardi, a casa mia, avvertii un vero disagio, quasi un malessere fisico.

Quello lì aveva detto che Ringo era stupido. Non ci potevo credere.

‘Sta cazzata, è vero, l’avevo già sentita dire. Era una maldicenza, un’infame cattiveria dovuta all’invidia, all’idiozia e all’ignoranza umana. Si diceva così perché lui, il semidivino tra i quattro semidivini, aveva firmato soltanto un paio di brani, non era l’abituale autore delle musiche e delle parole come Paul e John e qualche volta George, e poi per carattere era più gioviale e spensierato e giocherellone rispetto a certe cupezze e seriosità degli altri. Si limitava a fornire la base ritmica dei brani con quella bravura e originalità e creatività che qualche milione di persone nel mondo gli ha riconosciuto.

Ma lui, il pittore, disse che Ringo era stupido. A distanza di anni dall’increscioso episodio, io, se ci penso, ancora mi sento male.

 

 

 

17 settembre 2024

 

Piove, le piantine degli eroi (l’iraniano e il giudice) non hanno perciò bisogno di acqua. Mi dispiace, mi ero affezionato a questo rito quotidiano. Sono sicuro che dispiacerà diradare le innaffiature anche alla persona sconosciuta che da tempo si è assunta insieme a me questo impegno, ma che non conosco. Comunque bisognerà farlo ogni tanto e controllare soprattutto che le piantine rimangano al loro posto, cioè che non vengano rubate. Già la scorsa settimana ho dovuto comprare una nuova piantina per il giudice Amato. Le piantine che metto per lui se le fregano di solito una volta ogni tre mesi. C’è qualcuno che si sta facendo un bel terrazzo da qualche parte. Non importa. È un piacere per me occuparmi in qualche modo di lui, con dedizione, fare la sentinella al monumento di viale Jonio, fermarmi in raccoglimento. Sono sicuro che la persona misteriosa che innaffia le piantine dell’iraniano mi accompagnerebbe dal giudice, se potessi conoscerla finalmente. Così potremmo fare insieme una passeggiatina, non ci farebbe male. Senza dimenticare la piantina di Stefano, il ragazzo ucciso nel parco della Marcigliana. Il tour delle persone assassinate.

Che poi, si potrebbero aggiungere altre persone, perché no? Ad un certo punto sarebbe necessario affittare un pullman. Immagino la scena: una ventina di persone in fila per salire, io davanti allo sportello d’entrata coi biglietti da distribuire. «Prego, prego signore e signori…». Il prezzo? Da stabilire. Comunque prezzi modici. E tranquilli, con ci faccio “la cresta” sul ricavato della vendita dei biglietti. Sono sicuro che c’è qualcuno tra i miei lettori che, leggendo queste righe, subito ci ha pensato. Ammazza oh, che malfidati!

 

 

 

16 settembre 2024

 

Questo raccontino soltanto per alleggerire un poco i pensieri, miei e di chi legge. Io, in questo Diario, ho ridicolizzato opere di alcuni artisti per le loro opere eccentriche e forse datate. Ma nessuno conosce un fatto assolutamente imprevedibile e segretissimo, che voglio qui pubblicamente rivelare.

Anni fa, forse avevo trent’anni, decisi di smettere di scrivere, definitivamente. Però, Dio solo sa per quale ragione, mi venne in mente di diventare un pittore. Fino ad allora non avevo mai né disegnato né dipinto, avevo soltanto coltivato un certo interesse per l‘arte. Visitavo i famosi musei di Roma, ammiravo i grandi del passato come Caravaggio, ma non disdegnavo le opere degli artisti contemporanei. Un giorno d’estate, improvvisamente, la fatidica decisione: subito andai a comprare colori e pennelli per cominciare a dipingere quadri in uno stile molto simile a quello definito espressionismo astratto. In brevissimo tempo mi chiamarono il Jackson Pollock del Tiburtino. La mia camera, nella casa dove coabitavo con altre persone, si trasformò dall’oggi al domani in studio d’artista. Tele imbrattate dappertutto, colori d’ogni tipo, cioè tubetti di olio, tempera, acrilico, gessetti, pastelli, matite… La gratificazione per un lavoro frenetico durato due mesi non tardò ad arrivare: una mia amica, molto gentile e generosa, comprò mie opere per appenderle in bella vista nel salotto della sua bellissima casa. Tre quadri, per la precisione. La mia tecnica era quella della spremitura del tubetto di acrilico o di tempera e o di olio sulla tela, senza nessun disegno preparatorio. Soltanto una subitanea, incontrollata ispirazione mi guidava. Prendevo un tubetto, cinque tubetti, dieci tubetti di colore diverso e li spremevo con irrefrenabile impulso creativo sulla tela in un miscuglio indecifrabile. Ero un artista, un vero artista, così mi sentivo, e guai a contraddirmi. Non più parole inevitabilmente raziocinanti, ragionevoli, che pretendevano di spiegare il mondo, basta! Adesso soltanto colore e forma “informale”, non interpretabile e tanto meno giudicabile con le vetuste categorie del “bello”, ormai morto e sepolto.

Un giorno mia madre mi chiese di vedere una di questi quadri. Portai in macchina sul furgoncino prestato da un amico il mio capolavoro ancora sconosciuto. Entrai nella casa di famiglia al Nuovo salario, poggiai la tela sul pavimento. Restai in silenzio ad aspettare le parole di mia madre, che dopo un paio di minuti di meditazione, disse: «Mai visto un quadro così brutto. È qualcosa di orribile, spaventoso. Ma non ti vergogni?».

Venne troncata di netto una carriera artistica. Tornai nella casa dove abitavo e gettai nei cassettoni i colori, lasciando lì accanto, in strada, numerose opere.

Non vidi mai più la generosa amica, non ricordo per quale motivo. E mai più ho avuto notizie di quei tre quadri, quei “Varese”.

Probabilmente sono finiti in qualche discarica, e poi distrutti insieme a frigoriferi, televisori, mobili, plastica varia.

Che triste vicenda. Ed erano tre “Varese” di chissà quale valore!

 

 

 

 

15 settembre 2024

 

Giulio mi racconta di quando una volta, d’estate (eravamo ragazzini, 14/15 anni), andammo insieme al mare con Andrea, che aveva una casa a Torvaianica. Stavamo in bicicletta e avevamo fatto una passeggiata sul lungomare. Ci stavamo riposando sdraiati sulla spiaggia, seduti, con le biciclette accanto. Giulio mi vide prendere la bicicletta trascinandola sulla sabbia e arrivare sul bagnasciuga, d’un tratto, senza alcun preavviso. Da lì cominciai a correre come un pazzo tra l’acqua e la spiaggia, proprio nel punto dove la sabbia è più dura e può sopportare il peso di una bicicletta che si muove con velocità. Giulio e Andrea furono presi per un attimo dalla sorpresa, poi mi seguirono, correndo dietro a me.

Un ricordo di una felicità assoluta. Ogni volta me lo faccio raccontare di nuovo e alla fine faccio per scherzo la proposta di tornare appena possibile a Torvaianica per correre in bicicletta sul bagnasciuga.

Ecco, uno vorrebbe soltanto questo e non gli importerebbe di altro. Tornare ragazzo e lasciar perdere ogni ambizione, malumore, risentimento. Ma in effetti, nel mio caso del tutto marginale, diciamo la verità, che me ne frega del Premio Strega, della casa editrice Einaudi che non è una vera casa editrice e però ci sono quelli che dicono che invece lo è ancora anche se la proprietà è della Mondadori e dunque la redazione dell’Einaudi ha la sua autonomia, ma che mi frega, pensassero quello che vogliono o che gli fa comodo pensare, magari hanno ragione loro, io che c’entro? Che me ne importa di editori, giornalisti, donne, ex fidanzate, amici che non sono più amici, di tutte le cose complicate e assurde della mia vita. Certo, il grande sbaglio, se è giusto considerarlo pienamente tale, è stata l’idea di voler essere fin da giovanissimo un poeta, uno scrittore, cioè scegliendo una strada difficilissima, forse assurda, che mi avrebbe portato a una vita sconclusionata, povera, spesso da isolato, quel tipo di atteggiamento che mi ha procurato guai di ogni tipo, litigi, disoccupazione, problemi con la famiglia. Ma che diavolo avevo in mente? Del resto io ero così e adesso è troppo facile comprendere certi errori. Ero fatto in quel modo e non c’era modo di farmi cambiare idea.

Mi ricordo quel giorno in cui io, Antonio e Rita, andammo alla presentazione di un libro di poesia. C’era uno nostro coetaneo che presentava il volume, lo conoscevamo bene, lo avevamo visto altre volte, voleva fare il critico e lo faceva già con un certo successo. Si vedeva chiaramente che aveva già trovato la sua strada, e che avrebbe vissuto perciò una vita normale.

Parlava in maniera un pochino retorica, le stesse cose le avrebbe potuto dire con un tono normale e con parole semplici, lui le alzava su un livello più alto, sublime, magniloquente, un poco ridicolo, quando non ce n’era assolutamente la necessità.

Mentre parlava noi ci scambiavamo un libro (ce l’ho ancora) dove scrivevamo le cose che volevamo dirci ma che non potevamo dire a voce, perché stavamo lì in silenzio seduti tra il pubblico. «Che palle!» aveva scritto Rita sul libro, sul margine bianco di una pagina, prima di passarlo ad Antonio, seduto nella fila davanti. «Eh, c’hai ragione» aveva risposto Antonio continuando a scrivere sul margine bianco delle pagine, aggiungendo, prima di passare il libro a me che ero seduto nella suua stessa fila vicino a lui: «Robbè, che facciamo stasera? Ce l’hai er fumo?». «No, ancora non m’è arrivato» avevo risposto dopo aver ricevuto il libro, scrivendo con la mia amata penna stilografica, «ma domani ariva la robba bona!».

Ecco, questo era il nostro atteggiamento. Era una situazione normale quella, va bene, ma voglio far notare il distacco, la lontananza, il menefreghismo per il rito della presentazione del libro. Noi amavamo la poesia, ma del resto non ci curavamo, e questo era verissimo per Antonio e Rita mentre io qualche ambizione ce l’avevo, non ero puro e disincantato come loro. Loro poi si sono persi, hanno avuto esistenze penose, proprio per il carattere che avevano, pieni di problemi, anche psichici, gravissimi e forse quello che ha subito colpi meno duri sono stato io, che in qualche modo ho evitato il peggio.

Forse adesso scrivo questo Diario per liberarmi di tante cose sbagliate, per confessare tutto innanzitutto a me stesso e farla finita con il me stesso di prima, senza rinnegare nulla ma per lo meno togliendo tutte le scorie, le impurità, le maniere estreme di vivere e di trattare gli altri, il mondo che mi circonda, che è quello che è, puzza non poco ma andarci contro come ho fatto sempre no, non ce la faccio più. Propongo un tavolo della trattativa, per fare pace. Depongo le armi. Me ne tengo un paio soltanto per quando proprio servono per difendermi.

Mi piacerebbe ritrovare Antonio, Rita, e almeno in un sogno più vero della realtà tornare a correre su quel bagnasciuga, felice come non sono mai più stato in vita mia.

 

 

 

 

 

14 settembre 2024

 

Mi fermo a fare benzina, lungo la strada che esce da Roma, verso la campagna vicina, per fare il mio solito giretto scacciapensieri. Da un po’ di giorni vado sempre dallo stesso benzinaio. È nata una simpatia e perciò facciamo sempre due chiacchiere tra un rifornimento e l’altro di automobili, moto, motorini, camion… Lui ha molto da fare ma tra una rifornitura e l’altra parliamo di tante cose, leggere e spiritose, ma anche di questioni serie. Lui è molto ragionevole, intelligente, e conosce un sacco di cose. Ad esempio, davanti a lui c’è un ristorante lussuosissimo dove non entra mai nessuno, però è sempre aperto. È evidente, dice, che è una di quelle attività commerciali utilizzate dalle organizzazioni criminali (la ‘Ndrangheta innanzitutto, qui a Roma, diventata potentissima negli ultimi anni), che servono per il riciclaggio di denaro sporco. Lo capirebbe anche un bambino. Ma nessuno interviene e nessuno lo fa notare, perché già farlo notare è molto pericoloso.

L’altro giorno discutevamo delle guerre che si stanno svolgendo attualmente in Europa e poco lontano, soprattutto di quella in Ucraina. Ci siamo trovati perfettamente d’accordo sul fatto che questa, come innumerevoli altre, è una guerra concepita soprattutto per le montagne di soldi che vengono guadagnati con le armi prodotte, comprate e vendute, e poi usate semplicemente per giustificare questo enorme giro di soldi che arriva a fabbricanti di armi, a militari, a politici, fino ai giornalisti che servono a creare consenso. «Certo, il cattivo invasore e il buono invaso» ho detto io, «anche se il buono invaso non mi sembra tanto buono e anzi mi sembra un invasato». «E con che faccia dicono certe cose in televisione, non si vergognano!» diceva l’amico benzinaio.

Così si inviano armi al buono (pagate dallo Stato, dunque dai cittadini) e perciò i soliti noti o ignoti fanno i loro sporchissimi remunerati affari.

Strano, pensavo tornando a casa, che lo stesso semplicissimo discorso non si veda sui giornali, in televisione, o si veda pochissimo. Pare che molti politici e giornalisti ci credano alle parole spudoratamente false che dicono (e ci credono davvero, perché sono stupidi, oppure perché sono pagati, e certe volte tutte e due le cose insieme).

E gli intellettuali? (Una volta si chiamavano così). Scomparsi, svaniti nel nulla. Se parlano, dicono quasi tutti le stesse cose dei giornalisti e politici. Ma forse sto parlando di una categoria che non esiste più.

Fatto sta che il mio amico benzinaio è molto più intelligente e onesto di politici, giornalisti e “intellettuali”. Ma forse non è strano affatto in questo mondo malato e pazzo.

 

 

 

13 settembre 2024

 

Conoscevo un ragazzo che abitava a Fidene, una vecchissima borgata romana, anzi un paesino che fino agli Sessanta era ancora isolato dalla città. Era una delle borgate più povere, e per molti aspetti tale è rimasta. Questo ragazzo veniva spesso a trovare un suo amico che abitava al Nuovo Salario, dove stavo anche io. Ci scambiavamo saluti e un po’ di chiacchiere. Poi scomparve per un paio d’anni. Mi dissero che si era trasferito altrove, al Nord e che di lui non si sapeva molto: aveva trovato lavoro, si era sposato e aveva avuto figli. Dopo qualche tempo lo incontrai per caso, qui a Roma, ci salutammo amichevolmente e subito gli domandai che fine avesse fatto. Mi disse che faceva il poliziotto, dopo aver vinto il concorso lo avevano subito mandato a Padova, al Reparto Celere.

«Ah, sei un celerino!» esclamai io allegramente, «uno del famoso Reparto Celere!».

«Eh sì» rispose lui. «Vedi, io sono contento adesso. Ho potuto sposarmi, avere una famiglia, e il lavoro non è poi così duro come si immagina. Ci chiamano per le manifestazioni, per il servizio d’ordine. Di solito non succede niente. Stiamo lì e questo basta. Soltanto con gli studenti dobbiamo usare le maniere forti, certe volte».

«Capisco…».

«Loro interrompono le strade, gridano insulti, lanciano sassi e fanno anche di peggio. Non come negli anni Settanta, è chiaro, però qualche auto danneggiata, i cassonetti dell’immondizia bruciati… Cose da poco, però noi dobbiamo intervenire. E allora qualche manganellata ci scappa. A me dispiace, ma che devo fare, è il mio lavoro».

«Ma certo che non ti devi dispiacere» dissi io, «anzi devi essere contento. Ti spiego perché. Gli studenti, come ormai è abitudine da decenni, devono vivere il loro periodo “rivoluzionario”, diciamo dell’impegno politico. È una questione di crescita personale. Sarebbe strano se non lo facessero. Allora vanno alla manifestazione e tu gli dai la manganellata, non troppo forte, per carità, ma che provoca una piccola contusione, un taglio sulla testa. Lo studente, di solito di famiglia borghese, torna nella sua elegante abitazione e mostra le ferite ai genitori, che in gioventù hanno fatto esattamente la stessa cosa. (Escludiamo però da questo discorso gli idealisti e violenti che si sono spinti molto oltre nel periodo più cupo dei cosiddetti “anni di piombo”). Allora viene curato amorosamente e con un certo orgoglio dalla madre. A cena il padre racconta al figlio di certe manifestazioni alle quali ha partecipato quando era ragazzo, le occupazioni delle scuole eccetera. La cena si svolge in un clima sereno e affettuoso. verso. Tutti sono contenti e rilassati, soprattutto l’eroe con la benda sulla fronte.

Tu, dopo il lavoro, torni a casa, che certamente non è la bella casa dello studente, comunque dignitosa. Ti aspettano tua moglie e tuo figlio piccolo. Sei un po’ stanco ma contento. Cenate anche voi in un clima sereno e tu eviti di raccontare delle manganellate perché ti dà un po’ fastidio. Però dimentichi presto tutta la faccenda. Terminata la cena, si va a letto. Insieme a tua moglie mettete a dormire il bambino e poi fate l’amore. Chi più felice di te?

Alla fine, vedi, tutti sono rimasti contenti. Le tue manganellate hanno contribuito alla crescita dello studente, lo hanno fatto diventare un poco più adulto, maturo. Ha sfidato il Potere, ha dato prova di coraggio. Il padre e la madre sono rimasti soddisfatti anche loro per il carattere deciso e combattivo del loro ragazzo e hanno anche avuto l’occasione di tornare per un momento alla loro gioventù, a Lotta Continua, al femminismo eccetera. Tu hai fatto il tuo lavoro, hai guadagnato onestamente quello stipendio che ti permettere di vivere onestamente, di avere una famiglia e una casa, dove vivi piacevolmente.

Perciò, vedi, puoi cancellare tranquillamente i tuoi sensi di colpa. Le tue manganellate hanno fatto del bene, hanno messo in moto un meccanismo che ha prodotto cose belle. Certo, devi andarci piano, calibrando la forza del colpo, mi raccomando!».

Il simpatico celerino mi ringraziò. Ci abbracciamo, con l’augurio di rivederci presto.

 

12 settembre 2024

 

Per aiutare i miei lettori a risparmiare tempo e fatica, inserisco in una sola frase la ricerca del tempo perduto di una persona che ricorda tutta la sua vita stando nel suo letto di malato, dilungandosi per pagine e pagine, dicendo cose bellissime e altre noiosissime, l’omicidio in Russia di un padre dissoluto che ha quattro figli ma non si capisce bene chi l’ha ammazzato, pare sia quello che afferma «Se non c’è Dio, tutto è possibile», invece è il figlio illegittimo suggestionato da tali idee nichiliste, l’estenuante caccia in mare a una enigmatica balena di colore bianco che rappresenta un sacco di cose, forse troppe, le vicende di un pazzo che si crede un cavaliere errante, il resoconto in versi di un viaggio immaginario di uno di Firenze che immagina di risalire dall’Inferno al Paradiso, la tragica vicenda di una moglie russa, precisamente di Mosca, bella e inquieta, che tradisce il marito e poi si butta sotto un treno… e potrei continuare con altre storie narrate in famosi interminabili romanzoni, certo capolavori, che molti dicono di avere letto ma non è vero, però tengono quei libri sugli scaffali in salotto per vantarsi di essere persone colte e soprattutto perché quei volumi fanno arredamento.

 

 

Stamattina raccontavo a Teresa del giudice Amato, di come sia stato lasciato colpevolmente solo dalle istituzioni. Era onesto e coraggioso, a differenza di tanti altri.

Infatti non aveva la scorta, è chiaro, no? E che se la merita la scorta uno che conduce le indagini sui più pericolosi gruppi della destra estremista, veri e propri killer? Certo che no. Perciò il giudice, quella mattina del 23 giugno del 1980, se ne stava lì ad aspettare l’autobus 391 per andare a piazzale Clodio, al suo ufficio. Gli spararono da dietro, ovviamente, quei pazzi e vigliacchi, alla nuca.

Un fotografo, il primo che giunse sul luogo, scattò alcune fotografie: in una si vedeva una scarpa con un buco nella suola. È qualcosa di significativo. Perché me lo immagino il tipo: la moglie gli avrà detto mille volte: «Mario, non puoi andare in ufficio con le scarpe bucate. Andiamo a comprarle, che ci vuole?». «Va bene, domani, domani andiamo…» avrà risposto lui, distrattamente, con la testa tra le nuvole, cioè con la mente occupata dal lavoro, dalle inchieste, dalle cose da fare, dalle persone da interrogare. Volete che pensasse alle scarpe?

Ecco, a Teresa gli raccontavo del giudice Mario Amato e del perché vado a innaffiare la piantina sotto il monumento a viale Jonio. Le dicevo di lui e delle tante menzogne e ingiustizie e violenze che ci stanno intorno, e alla fine ho detto: «Ecco, invece di scrivere il Diario sul giudice ho raccontato di lui a te, non è la stessa cosa?».

Almeno un accenno, qui, lo dovevo fare. Non si può pensare sempre alle faccende tristi e dolorose, d’accordo, altrimenti soffriamo troppo. Giusto scherzare e alternare il serio e il ridicolo, il bello al volgare, come faccio in questo mio Diario. Però non possiamo dimenticarlo, il giudice, e dobbiamo agire e pensare come ci insegna la Bhagavad Gita: essere presenti, combattere, non rinunciare alla propria libertà, ma senza provare dolore, come se fossimo più in alto di noi stessi, per vedere come siamo capaci di affrontare ciò che dobbiamo affrontare, con distacco, senza pensare a vincere o perdere, quasi fosse un modo per sperimentare, per  conoscere, come fossimo un’altra persona da quella che agisce, come fosse un gioco…

 

 

 

11 settembre 2024

 

Ti viene la depressione: vai su Facebook, migliaia di poeti. Tutti uguali, cioè di un valore inestinguibile. Potrebbero essere tutti grandi poeti, e chi può dirlo? Eppure conosco un poeta che è capace di farsi distinguere con molta facilità:

 

 

Senti un po’, gatto dell’antico

Egitto, l’Egitto antico è finito

da un pezzo e tu non sei un’icona e io

la tua nicchia: qui nessuno è più dio:

 

tutt’e due scalpicciamo sulla terra,

tu con quattro zampette nuova di zecca

e io con due, lunghe stecchite e stanche:

ma che cipiglio, che possa trionfante

 

con unghie e denti sulla mia mano

che fa da vittima o preda – un gabbiano

una rondine: bel colpo, per Bubasti!

per una in svezzamento a quattro pasti

 

 

(Gianfranco Palmery)

 

 

10 settembre 2024

 

Platone e Plotino erano due filosofi. Uno molto grasso, ciccione, l’altro magrolino. Come Stanno e Ollio. Il primo diceva che la realtà è un’illusione e l’altro che non è la nostra anima a stare nel corpo ma è il nostro corpo che sta nella grande anima universale. Giravano di qua e di là e si guadagnavano da vivere con le offerte delle persone che ascoltavano i loro discorsi nelle bettole, lungo la strada, nelle terme. La gente li vedeva arrivare e diceva «Ah, eccoli lì, i due filosofi, quello obeso e quello secco secco. Bella la vita, eh? Invece di lavorare, ve la cavate con qualche parolina saggia, qualche riflessione buttata là, dopo pranzo o cena, bevendo il vino insieme agli altri. Ammazza oh, che paraculi!».

(Bibliografia. Per Platone: Apologia di Socrate, Critone, Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Protagora, Gorgia. Per Plotino: Enneadi).

 

 

Ancora caldo in questa interminabile estate. I bambini dei vicini di casa sono tornati, tra poco aprirà la scuola elementare qui vicino e, almeno per cinque mattine alla settimana, la quiete di questo luogo verrà spezzata. Si sentirà il vociare dei ragazzini all’ora di ricreazione, all’ingresso e all’uscita dalle lezioni.

Cosa avranno poi da gridare, poverini. Non sanno cosa li aspetta? Invecchieranno, moriranno.

Per abituarmi alla morte come gli asceti nei campi crematori di Varanasi, la città sulle rive del Gange, qualche giorno fa sono andato a vedere un cadavere in una clinica privata. È stato un caso. Io stavo facendo la mia solita passeggiatina verso Val Melania partendo da qui, cioè da piazzale Adriatico,  ed ero abbastanza di buon umore, non pensavo alla morte manco per niente, anzi era appena passata una bella ragazza e io ho pensato come sarebbe stato bello almeno passeggiare con lei, per tacere del resto. Ma passando accanto al cancello di una clinica privata ho visto un cartello appeso: «Camera mortuaria». Il cancello era aperto. La camera mortuaria era lì a due passi. Allora mi è venuta l’idea di entrare e vedere un morto.

Senza farmi vedere, con circospezione, ho aperto il porticino e sono entrato in un ambiente climatizzato. Si stava bene, sapete, con il caldo che c’è stato questa estate era una fortuna trovare inaspettatamente un po’ di fresco. Nella prima stanza non c’era nessuno, solo un tavolaccio. Allora sono entrato nella seconda stanza ma ancora non c’era ombra di persona viva o morta. Nella terza finalmente ho trovato un corpo ricoperto da un lenzuolo, povera cosa messa in un angolo, mucchietto di ossa che sporgevano dal lenzuolo. Era un corpo piccolo, di una persona anziana, ho pensato. I vecchi li portano qui a morire, molto spesso. Non c’era una candela accesa, un fiore, non c’era niente. Ho alzato il lenzuolo: era una donna molto anziana, una ex giovane, una ex bambina, una ex neonata.

Io mi sono fermato a pregare a modo mio.

 

 

 

Mi chiedo che cosa penseranno quelli che, a Capodanno di quest’anno, hanno augurato Buon Anno a coloro che poi sono morti, per improvvise malattie, incidenti stradali eccetera. Io direi di usare maggiore cautela, al prossimo Capodanno 2025. Suggerisco sì di festeggiare, ballare e fare le solite minchiate, però quando arriva mezzanotte sarà meglio dire, mentre si brinda con l’amico del cuore «Ti auguro tante cose belle, anche perché te le meriti. Però c’è l’eventualità che potresti morire. Non vorrei portare sfiga con questo mio augurio. Se morirai, i tuoi amici non devono prendersela con me. Io la buona volontà ce l’ho messa, sono stato sincero. Spero che tu non muoia, davvero, e che quest’anno sia migliore dell’anno precedente che, con molta probabilità, è stato un anno di merda. La nostra vita, tu lo sai, è in mano a Dio, agli Dei, al Caso, al Fato, e chi lo sa? Basta un attimo e sei fregato. Però la morte non è detto che sia una sciagura, e forse non è nemmeno la fine della vita ma soltanto l’interruzione di un viaggio che continua altrove. Invece di fare auguri sconsiderati e superficiali, cura la tua anima. Pensa meglio di come solitamente pensi, svuota la tua testa dall’immondizia che entra dentro in continuazione e riempila invece di pensieri come fiori. Non odiare il tuo prossimo, non dico di amarlo ma cerca di sopportarlo. Fai entrare la luce in te, ma dov’è questa luce? Soprattutto nell’amore, ecco dov’è, imbecille. Fai i tuoi brindisi, festeggia, spara quel cazzo di petardi che fanno spaventare i cani e gli uccellini, ma poi torna a casa e non pensare solo alle porcate del sesso. Fai astinenza la notte di capodanno, inizia il nuovo anno con un atto di meditazione e raccoglimento e rinuncia ai piaceri. Ti farà bene, vedrai. E pensa alle persone che non ci sono più, a quelle che hai amato e che prima o poi raggiungerai. Forse ti stanno aspettando, non lo sai? Riesci a immaginare la felicità del ritrovarli se tutto ciò è vero? Sarebbe una felicità immensa, che durerebbe in eterno… Dunque ti auguro di non crepare improvvisamente e di vivere con maggiore consapevolezza. Allora Buon Anno, carissimo, tanti auguri e speriamo di ritrovarci qui… Altrimenti, pazienza… Ma prendila con calma questa faccenda della morte, e non voltare lo sguardo se passa un funerale. Ricordi quel celebre verso di John Donne? “…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee”. (“E allora non chiedere mai per chi suona la campana. Suona anche per te”)

Ciao, arrivederci al prossimo Capodanno (se non moriremo).

 

 

 

9 settembre 2024

Se costeggiate il grande centro commerciale di Porta di Roma, uscendo dalla città, verso il Grande Raccordo, vedrete due costruzioni molto simili nello stile architettonico: una chiesa (quella della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni) e la palazzina dell’Agenzia delle Entrare. Lo stile tradisce le intenzioni. Tutte e due servono a far entrare soldi in cassa.

 

Dunque Esiodo e Archiloco sono i soli poeti dell’umanità che hanno affermato di aver incontrato fisicamente le Muse. Il primo le incontra mentre svolge il suo mestiere di pastore, sta pascolando il gregge. (Lo racconta lui stesso in Teogonia). Prima lo prendono in giro, dicendo che i pastori sono rozzi e ignoranti. Ma a lui, non si sa per quale precisa ragione, offrono un bellissimo ramo d’alloro fiorito e gli insegnano il “canto”, cioè lo proclamano poeta. Erano donne giovane e belle, ovviamente.

L’altro, Archiloco (secondo l’epigrafe di Paro), stava portando una sua mucca, di mattina molto presto, al mercato vicino al suo paese (iscrizione murale di Paro)  ma incontra un gruppetto di ragazze, anche queste molto carine. Lui dice cose maliziose e quelle non si offendono, rispondono a tono, scherzosamente e poi gli chiedono cosa deve fare con quella mucca a quell’ora. Per venderla al mercato, risponde. Allora gli dicono che vogliono comprala e che la pagheranno bene. A questo punto spariscono, lasciando sul terreno una lira, lo strumento a corde che serviva nell’antichità greca e latina ad accompagnare i versi dei poeti.

Che storie meravigliose. Strano, poi nessun poeta ha avuto il coraggio, la sfacciataggine di rivelare un incontro del genere. Tutti a parlare delle Muse ispiratrici, per secoli, però sempre nascoste e irraggiungibili, non vere donne che ti parlano, reali, anche se divine.

Forse qualcuno le ha incontrate, ma non l’ha detto per non essere portato al manicomio.

Io sarei la persona giusta per avere questo privilegio, non sono un mediocre verseggiatore, lo si può facilmente verificare leggendo le prime pagine del mio libro, La piccola dea, che ho offerto in lettura su questo sito. Pura poesia in prosa e in versi che trova posto tra ironie, arguzie e invettive.

Sì, è vero, sono troppo modesto, però io non ho detto di essere il solo a meritare la visita delle Muse dopo Esiodo e Archiloco. Ce ne saranno anche altri di meritevoli, attualmente, anche se non sono di mia conoscenza.

Dunque, belle meravigliose divine Muse, cosa aspettate? Sono qui, in questa casa, vicino a piazzale Adriatico!

 

 

 

8 settembre 2024

 

Se in me

 

potesse entrare di straforo

la chioma sua

di certo si trasmuterebbe

la tinta del mio sangue in quella

d’oro

 

 

 

Le rondini

 

in deliziose cappe di raso nero

dattilografavano il risveglio

dettato dall’aurora

 

 

Grande delizia

 

osservare quel treno sbuffante

salire i gradini traversini

raggiungere la bocca del tunnel

che se lo succhia come liquerizia

 

 

Dalla superba

 

chioma dell’acacia

ravviata dal pettine del vento

graziosamente sfuggivano

riccioli di passeri cantori

 

 

Stazione

 

vidi la tettoia arcuata

quale bocca di gitana

allontanare un sigaro fumante

di treno in partenza

riaccostando alle labbra

il diretto in arrivo

finché sputò lontano

l’ultimo mozzicone

di in vagone merci

 

 

(Farfa)

 

 

Una poesia di Sandro Penna:

 

                 L’insonnia delle rondini. L’amico
                 quieto a salutarmi alla stazione.

 

L’inquietudine, annunciata perentoriamente, si placa con l’apparizione improvvisa di una figura umana che, all’inizio del verso seguente, accompagnata da un semplice aggettivo, ristabilisce calma, equilibrio.
Eccola qui la “scuola di scrittura”. Una breve lezione di poesia. E pure gratis.

7 settembre 2024

Dunque ieri sera sono andato a innaffiare i fiori per Mohammed Hossein Naghadi, l’uomo iraniano che fu ucciso a piazza Elba perché oppositore della dittatura di  Khomeini. I fiori erano già stati innaffiati. Allora ho aggiunto soltanto un poco di acqua. Mai che la incontri la persona che non conosco e che condivide con me questo impegno. Arriva sempre prima o dopo.

Allora sono tornato verso casa. Nei giardini di piazzale Adriatico i bambini giocavano.  Finalmente sono tornati dalle vacanze. Mi sono rammaricato, come mi capita ogni tanto, di non avere figli. Poi però, ogni volta che mi faccio prendere dalla tristezza per questa ragione, penso alle storie che sento raccontare dai miei amici sui loro figli e allora mi consolo. Vengo a sapere di tutto: depressioni, tentativi di suicidio, ricoveri in ospedali psichiatrici, odio verso i genitori, tossicomania, eccetera eccetera. Allora mi dico che è stato meglio così. Del resto sarei stato un padre problematico, o troppo severo o troppo indulgente, insofferente alle regole della famiglia, capriccioso, apprensivo… Meglio allora la mia strana pattuglia di figli che non sono veri figli ma che sono diventati una specie di figli.

Leone, il primo accolto in casa. Grandi occhioni melanconici. Si chiama Leone perché è un leone, un vero leone della foresta, anche se di peluche. Qui, chi si sveglia prima mette Leone vicino alle tazze della colazione per augurare il buongiorno all’altro. A forza di coccolarlo scherzosamente, parlarci, metterlo sugli scaffali della libreria, in cucina, in bagno, dappertutto, a forza di trattarlo come un bambino è diventato a suo modo un bambino, anche se molto diverso. Se andiamo in campagna, lo portiamo in macchina, sul sedile di dietro.

Tutto ciò accade anche con gli altri: con Pecorella, innanzitutto. Incantevole agnellino di pezza che per sua fortuna non corre il pericolo di essere trucidato e mangiato dai brutali esseri umani. Ci sono grandi vantaggi a non esseri veri.

Poi c’è Carotino, che è il figlio di Carota. Carota era un pupazzetto che tenevamo con noi nella vecchia casa. Il sottoscritto, mettendo a posto la cucina, lo gettò nel secchio dei rifiuti. Fu una grande perdita perché Carota era stato investito di tale tenerezza che… Succede con questi pupazzi: l’anima sta in tutti gli esseri viventi ma un substrato psichico ammanta le cose materiali, soprattutto quelle che rimangono a contatto con gli essere umani (almeno con quelli che l’anima ce l’hanno ancora). Carota stava al centro dei nostri discorsi, lo tenevano fisso sul tavolo in soggiorno, dunque assisteva alle conversazioni mie e di Teresa e dei (rari) ospiti durante pranzi e cene. Lui rimaneva sempre silenzioso, e perciò dimostrava di essere d’accordo. Io adoro questo atteggiamento nei miei interlocutori. E questi nostri figli hanno tante di quelle qualità… Ad esempio, non chiedono soldi. Perché si sa che i figli quando sono piccoli sono degli angioletti, e però quando arrivano all’adolescenza sono insopportabili, spesso. A parte le preoccupazioni continue che danno, ma praticamente quando vedono il genitore gli chiedono soldi e basta, se ne vanno. E Carota non chiedeva mai soldi. Purtroppo sparì e fu un grave colpo per me e Teresa. Cioè, non esageriamo, però veramente ci dispiacque. Poi, imprevedibile fortuna. Un giorno, nei pressi della Stazione Termini, entrai in uno dei tanti negozietti gestiti da immigrati, pieni di vestiti a basso costo, souvenir, cianfrusaglie di ogni genere. Proprio lì, il fatidico incontro. Era un portachiavi. Attaccato c’era un pupazzetto piccolissimo, non so quale specie animale avessero voluto imitare i fabbricanti, fatto sta che aveva una faccetta carinissima e assomigliava un poco a Carota! Incredibile! Era il figlio di Carota, cioè Carotino! Comprai dunque il portachiavi, staccai Carotino dalla catenina che lo legava e telefonai subito a Teresa per annunciare il nuovo arrivo.

Forse colui che col tempo ha acquisito davvero una specie di anima si chiama Cavallino. Un piccolo cavallo azzurro, il colore di Krishna. Infatti adesso è sull’altarino dedicato a Buddha, con candeline sempre accese  e l’incenso eccetera. (In giro per casa abbiamo le immagini di varie divinità (o Deva, usando la parola in sanscrito dei testi induisti), poiché crediamo nell’unicità di Dio e nella verità parziale di ogni religione poiché in sostanza diversi sono i percorsi ma unica è la meta. Un po’ quello che diceva Ramakrishna, per intenderci. Come Cavallino sia stato capace di conquistare un simile onore proprio non saprei. Poi sono cose che avvengono tra me e Teresa, assurde e inverosimili e meravigliose, difficile spiegarle.

Gli altri sono i seguenti: Pecorino, che non è un montone ma una piccola pecora femmina. La sua compagna è Pecorina. Poi c’è Scimmietta (che dorme abbracciata al volume della Piccola Dea, sul letto di Teresa), Cavallina sarebbe la fidanzata di Cavallino, però non lo vede mai perché lui sta sempre sull’altare di Buddha… A seguire: Pappagallo, Nello (un asinello) e Scimmietto.

Una bella famiglia, insomma. La sera si dorme in pace, non bisogna accompagnarli a scuola, non irrompono in camera da letto in certi momenti molto privati, non piangono, non si fanno le canne oppure stupefacenti più “pesanti”, non si iscrivono a gruppi estremisti di destra o di sinistra, non diventano cattolici ferventi seguendo l’ottusità di certi gruppi come ad esempio Comunione e Liberazione, non hanno complessi di Edipo, non odiano perciò il padre, non litigano tra di loro fino allo scontro fisico, non diventano ultrà romanisti e peggio ancora laziali, non ti mettono in ansia perché tardano a rientrare la notte e soprattutto, come ho già detto, non chiedono continuamente soldi.

A Natale li portiamo sulle Dolomiti, tutti quanti. Sul sedile di dietro della mia macchina ci stanno. E io dirò: «Ecco, fate i bravi, mi raccomando. E tu Carotino non pretendere di avere sempre ragione!». E Teresa: «Ha preso da papà…».

 

 

Per caso, se un mattino all’alba

puoi figurarti il cielo a scala

tutto abitato da sapienti mondi,

e nel giardino udire piante

che riflettono o pietre sul sentiero

intelligenti o spiriti che insegnano

nell’aula di una selva, allora

làsciati pur prendere per pazzo e

gètta giù i tuoi libri dalla rupe.

 

(Gian Piero Bona)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 settembre 2024

Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, scrisse Ludwig Wittgenstein nel suo celebre saggio intitolato Tractatus Logico-Philosophicus. Dunque non si può parlare di niente, o quasi. Mi sembra giusto, perché in effetti non c’è cosa al mondo che si possa conoscere veramente. Tanto meno si può facilmente polemizzare, accusare, inveire. Io me ne rendo conto, però lo faccio innanzitutto per sfogarmi e soprattutto per divertirmi. E poi, come è possibile vivere accettando che tutto sia uguale a tutto, senza alcuna distinzione?

Per quanto riguarda la letteratura, che è stato e forse in una certa misura è ancora il mio mondo, penso che esprimere un giudizio fondato e convincente sia davvero difficile, forse impossibile.

Tutti sono diventati scrittori, poeti. Non c’è sostanziale differenza tra scrittori veri, riconosciuti tali dalla critica, che pubblicano in case editrici prestigiose e gli altri, i dilettanti, i cattivi scrittori e poeti. Con l’avvento di internet ogni differenza di potere e di qualità è stata annientata. Chi ha uno sguardo lucido può verificare facilmente che abita a Bari, per dire una persona che vive in provincia, che pubblica i suoi versi in rete e in libri pubblicati a proprie spese, potrebbe benissimo far parte della celebre “collanina bianca” di poesia della casa editrice Einaudi, e viceversa il poeta apparso nella “collanina bianca” potrebbe mettere i suoi versi in Rete e pubblicare a proprie spese, e non ci sarebbe in tutto questo nulla di sbagliato, di assurdo e d’insignificante. Forse bisogna avere i contatti giusti. La stessa cosa per la pittura. L’autore di quadri che si possono definire opere dell’espressionismo astratto, che vive, mettiamo, non a Bari ma a Tor Bella Monica, estrema periferia di Roma, produce le medesime, identiche opere dell’espressionista astratto che vive al quartiere Greenwich Village di New York, solo che il primo non conosce nessuno e sta nella più profonda miseria in un’abitazione con camera da letto e cucina, mentre il secondo ha il suo studio open space, il suo gallerista, fa le mostre e vende quei quadri a un prezzo altissimo conducendo una bella vita.

 

Le scuole di scrittura. Una moda importata dall’America, venti o trenta anni fa. Ce ne sono a decine soltanto a Roma. Ma che si studia in quelle scuole, ancora non l’ho capito. Qualche trucco della narrativa e forse pure della poesia? Ma quelli si capiscono scrivendo, leggendo. Mi sembra una visione un po’ meccanica, professionale, per una letteratura alla portata di tutti e per tutti. Certo, io ho un’idea diversa della letteratura, della poesia. Non ce lo vedo Sandro Penna partecipare a un corso di scrittura come allievo quando era un ragazzo, e come dicente più tardi. «Nessuno mi può giudicare», diceva Caterina Caselli, che evidentemente aveva letto Ludwig Wittgenstein. Ho un paio di amici che ricevono uno stipendio per “insegnare” a scrivere. Da loro ci andrei, forse, ma non ho voglia di spendere soldi, e preferisco rubare i trucchi quando li vedo. Ma per gli altri, devo dire di stare attenti a non abusare dell’ingenuità e dell’ignoranza di certe persone perché potrebbero incorrere nel reato di “circonvenzione di incapace” (articolo 643 del Codice Penale).

 

 

Ma perché oggi sto scrivendo queste cose? Sono noiose e anche un pochino tristi. Io devo scrivere questo Diario senza pensare a certe faccende. Lo scrivo per Teresa, per Cristina, per Angelo, per le migliaia, ma che dico centinaia e forse milioni di persone che da qui a poco lo leggeranno, non solo in questo piccolo pianeta ma nel pianeta della galassia più lontana, in una di quelle civiltà extraterrestri che certamente esistono in questo infinito universo, oppure per nessuno perché magari anche Teresa si stancherà di leggere. Non importa. Scrivo per me stesso. Se poi qualche anima gemella leggerà e condividerà ciò che scrivo, tanto meglio.

 

Ora esco, vado a innaffiare i fiori per l’eroe iraniano. Chissà, forse stasera incontrerò finalmente la persona misteriosa che le innaffia quasi ogni giorno ma che non ho mai conosciuto.

 

 

5 settembre 2024

Quando provai a mettere la testa a posto (molti anni fa, perché oramai ho rinunciato), mi presentai alla sede italiana di un’agenzia pubblicitaria multinazionale, la Saatchi&Saatchi, una delle più grandi o forse la più grande agenzia del mondo, era una mattina di giugno e già a Roma il sole splendeva forte, sembrava già piena estate e io ero vestito leggero ed elegantissimo, m’ero messo perfino la cravatta e avevo salutato mia madre sull’uscio notando la trepidazione sua nel vedermi finalmente deciso a cambiare strada, a lasciar stare quella vecchia per intraprendere la nuova dritta ben asfaltata strada di persona perbene e a posto, oh sì, come prima o poi lei pensava che avrei fatto, sposarmi, mettere su famiglia, quelle cose lì, lavorare otto ore al giorno e tornare a casa e trovare mogliettina adorante e marmocchi, e ritrovarmi così imprigionato in un piacevole sogno che però può essere anche un incubo, dipende dai casi, può anche finire in omicidio, droga sparata nelle vene in bagno per poter sopportare il televisore sempre acceso, i suddetti marmocchi, la suddetta mogliettina che uno finisce magari per odiare perché potrebbe essere sostanzialmente una gretta donna da quattro soldi… fatto sta che mia madre stava lì sull’uscio quella mattina a sperare ciò che tutto sommato sperano tutte le madri a meno che non siano madri icolte, intellettuali, “progressiste”, che so, quel tipo di donne che hanno superato certe impostazioni tradizionali della famiglia, e allora manco ci badano che i figli crescano bene, puliti, educati, macché, madri che se ne fregano della loro educazione, e dicono ai figli frasi come «tu sei libero, tu devi essere te stesso…», cose del genere, giustissime, in teoria, sapete, frasi che vengono dette da quelle donne lì, madri dal passato frikkettone, figlie dei fiori, “lotta continua”, un po’ svirgolate diciamo, donne meravigliose che però spesso si ritrovano con figli che sono più svirgolati di loro, e infatti da questo problema non se ne esce, o uno riceve una educazione rigida e pure sessuofobica veramente orribile e dannosa oppure peggio ancora ti ritrovi libero e solo e perduto mentre magari loro, le madri intellettuali e magari artiste, stanno in camera da letto a farsi le canne, non si scappa, è così, ne ho visti di casi del genere, e mai che uno cresca in una casa con madre e padre mentalmente equilibrati, macché, siamo tutti fregati, più o meno… poi certo esistono anche le persone fortunate ma secondo me sono una ristrettissima minoranza… ma tornando a quella mattina, avevo salutato la trepidante madre e mi ero avviato e mi ero presto seduto davanti a un cosiddetto direttore creativo, un tipo simpatico, che vide gli slogan pubblicitari che avevo preparato in un quadernetto come prova, mi aveva ascoltato un po’ ragionare intorno alla mia esistenza disastrata che intendevo assolutamente risanare e inquadrare e regolare e che poi mi aveva detto dopo un lungo silenzio: “Mi piaci! Vieni qui domattina!”.

Potete immaginare miei cari lettori la mia felicità uscendo dal palazzo dov’era la sede della famosissima agenzia Saatchi&Saatchi, proprio davanti a Castel Sant’Angelo, fondata e diretta dai due fratelli Saatchi, libanesi emigrati a Londra dove avevano avuto un clamoroso successo con la pubblicità diventando miliardari, e perciò quasi danzando per la strada tornai a casa e dissi a mia madre che finalmente avevo un lavoro, un vero lavoro, che mi avrebbe finalmente permesso di entrare o per meglio dire rientrare nel consorzio umano e non necessariamente per stare completamente nei ranghi sposandomi eccetera eccetera ma comunque ricominciando una vita decente, quella che fanno gli altri,  triste o felice che fosse.

Così il giorno dopo ero lì e iniziai ad occuparmi dei pannolini assorbenti, biancheria intima femminile (il prodotto da me preferito perché le foto di quei reggiseno e mutandine e calze eccetera mi facevano sognare), computer, telefonini, detersivi, insomma ogni sorta di merci che si doveva vendere ad ogni costo, anche facendo leva sui più bassi istinti e sulla stupidità degli esseri umani, sugli abietti sentimenti d’invidia sociale, d’ignobile rivalsa, di orrendo moralismo e perbenismo. L’automobile doveva essere venduta facendo leva sull’istinto della sopraffazione, tanto per fare un esempio, bisognava inventare uno spot che facesse vedere un bel giovane alla guida di una nuova fiammante automobile lungo una strada di città, e far vedere che la gente e soprattutto le donne e meglio ancora le bellissime donne si giravano a vedere la nuova automobile, cioè lui alla guida di quella automobile, e dunque non doveva essere troppo bello il ragazzo alla guida perché altrimenti si sarebbe pensato che le donne e soprattutto quelle bellissime si voltassero per vedere lui e invece dovevano vedere lui ma soltanto perché era alla guida di una macchina costosissima, cazzate in sostanza, che s’imparano in un momento, e però i colleghi dell’agenzia mi stavano lì a martellare con il fatto che il ragazzo doveva essere sì abbastanza carino ma con la faccia non troppo intelligente perché l’eventuale compratore della macchina doveva identificarsi con quello lì, il quasi carino e non troppo intelligente, e ancora meglio se avesse dato l’impressione di essere un perfetto imbecille, perché altrimenti l’eventuale compratore non avrebbe mai speso tanti soldi per un bene materiale immediatamente deperibile come un’automobile costosissima, non sarebbe stato così completamente fesso da spendere ad esempio 420.000 euro per la Rolls-Royce Cullinan Black Badge, una macchina enorme, impossibile da guidare nei centri cittadini, inutilmente accessoriata e divoratrice di benzina, se non fosse stato condizionato non sarebbe stato così completamente cretino da comprarsi quella macchina attraverso uno spot, eh no, il ragazzo alla guida doveva essere il ragazzo quasi carino e quasi deficiente della porta accanto che magari non capisce un cazzo di nulla e però capisce che per rimorchiare qualche mezza scema e soddisfarsi sessualmente e affettivamente e fare colpo anche sugli amici deve correre a comprarsi la nuova Rolls-Royce Cullinan Black Badge o un’altra automobile del genere.

Tutto ciò mi è tornato in mente l’altra sera  guardando in televisione lo spot di una nuova automobile, non mi ricordo la marca.

Me ne stavo in cucina a prepararmi gli spaghetti aglio e olio che sono il mio piatto preferito, veramente una cosa buona da preparare e che fa passare ogni tristezza, ogni dolore psicologico ed esistenziale, e però  bisogna saperli preparare perché altrimenti non serve a niente, ti ritrovi a mangiare una sbobba informe e allora è inutile, si ricade nei brutti pensieri, perciò bisogna conoscere bene l’arte di rosolare l’aglio, e cioè cuocere quel poco che basta i pezzetti di aglio a fiamma bassa e aspettare pazientemente che i pezzetti di aglio si colorino come devono colorarsi, piano piano di un rosa appena accennato, e a quel punto si mette il prezzemolo e lo si fa friggere un poco, ecco tutto, e poi quando gli spaghetti sono pronti (io preferisco i Barilla n°3, tanto per fare pubblicità gratuita, anche se in effetti la Barilla potrebbe pagarmi questa pubblicità che faccio, come del resto dovrebbe pagarmi la Piaggio per tutta la pubblicità che ho fatto per la Vespa nel corso di tutti questi anni e nel corso di tutti i miei libri scrivendo pagine e pagine sulle mie scorribande in giro per la città sia nella Piccola dea sia nel Re del Bosco ancora da riscrivere, ma lasciamo perdere) e insomma quando gli spaghetti sono pronti tu li devi gettare nel tegame dove hai preparato il condimento per cuocerli a fiamma bassa per pochi istanti, e così te li mangi e sei felice o abbastanza felice. Insomma me ne stavo lì in cucina a prepararmi gli spaghetti aglio e olio per reagire alla tristezza dell’esistenza ma anche per nutrirmi semplicemente quando voltai lo sguardo e vidi la faccia di uno che guidava un’automobile nuova fiammante in un spot televisivo.

Ora c’è da dire che la cosa che mi ha sorpreso veramente è stata l’evidente stupidità manifestata da quella volto. Perché era veramente stupido, direi orrendamente stupido, faceva quasi paura e allora mi è rivenuta in mente tutta la storia della pubblicità, dico la mia vicenda personale, quelle lunghe giornate di lavoro, di quel lavoro che effettivamente si poteva considerare “creativo” se per “creativo” s’intende far funzionare il cervello sperando che ne esca una buona idea o perlomeno un’idea decente, infatti io coi miei colleghi stavo lì, in uno stanzone a cercare di scrivere gli slogan pubblicitari che nel gergo pubblicitario si chiamano headlines e a scrivere soggetti e sceneggiature per gli spot televisivi. Era una vita dignitosa, senza alcun dubbio, anche se i rapporti tra colleghi non è che fossero idilliaci, anzi spesso erano brutti rapporti, gelosie, invidie di ogni genere, insomma tutto il campionario delle puttanate che gli esseri umani amano scambiarsi l’uno con l’altro appena si mettono in relazione e soprattutto quando si ritrovano in un ambiente di lavoro, e però mi alzavo presto la mattina, mi sbarbavo, facevo la doccia, salutavo mia madre sull’uscio di casa come avrei potuto salutare una moglie e in effetti mia madre era una specie di moglie a quei tempi, poi prendevo l’autobus convinto di essere diventato finalmente come gli altri, un uomo capace di guadagnarsi il pane quotidiano senza essere costretto ad andare in giro a chiedere soldi in prestito o a cavarmela con piccoli lavori marginali, uno dunque che sarebbe riuscito a cavarsela nella vita, a sfangarla come si dice, a vivere e dunque a morire come gli altri, a marcire in quegli uffici enormi, perché in fondo si marciva lì dentro, diciamo la verità, si doveva rimanere alla Saatchi&Saatchi per almeno otto ore al giorno occupando il proprio cervello e di conseguenza parte della propria anima con i problemi riguardanti pannolini assorbenti, lavastoviglie, telefonini, computer, merci di ogni genere che possono essere utili ma soprattutto servono a procurare soddisfazioni momentanee e piaceri passeggeri ma non hanno una relazione benefica con l’anima poiché la cosiddetta anima non ha alcun bisogno di essere lusingata e infiocchettata e rivestita elegantemente ma vuole librarsi su ogni cosa, vuole giocare con gli oggetti ma senza desiderio di proprietà, vuole essere libera di manifestarsi la sua natura, e soltanto nell’arte, nella vera arte essa trova la sua dimensione autentica perché l’anima cosiddetta si manifesta e trova se stessa in letteratura, pittura, musica, e non  nel surrogato ambiguo della pubblicità, che utilizza il bello e qualsiasi emozione per vendere merci. Nella pubblicità le anime dei cosiddetti creativi corrono il rischio di marcire, e ciò avviene assai spesso nel mondo del lavoro che diventa facilmente il mondo dell’alienazione, come diceva un mio vecchio amico che ha il cognome che finisce per X, dunque se uno vuol lavorare deve essere pronto a veder marcire almeno un pezzetto della propria anima, questo lo so adesso e però lo intuivo in quelle lunghe giornate trascorse alla Saatchi&Saatchi e che mi sono tornate alla mente voltando lo sguardo ed osservando stupito la faccia idiota di quell’attore che stava impersonando un idiota alla guida di un ultimo modello di una Mercedes o Fiat o Volkswagen, non ricordo quale azienda automobilistica fosse, non importa, importa soltanto che aveva la faccia ferocemente idiota quell’attore, ma talmente idiota e da deficiente che sono rimasto lì a rimuginare e infatti il mio aglio ha rischiato di bruciarsi.

Le cose evidentemente sono peggiorate dai miei tempi, pensai dunque gettando gli spaghetti Barilla n°3 nel tegame dove c’era il condimento e cioè l’aglio e il prezzemolo e l’olio e facendo allora cuocere gli spaghetti stessi per far prendere il sapore e cuocere ancora gli ingredienti, e peggiorate parecchio perché quella faccia voleva dire che i maghi della pubblicità avevano deciso che per identificarsi il consumatore ha bisogno ormai di vedere qualcuno che sia al suo stesso livello e questo livello adesso è chiaramente bassissimo perché la faccia da imbecille che avevo intravisto con sgomento poco prima, al momento cioè della cottura iniziale dell’aglio che aveva perciò rischiato di bruciarsi, era la faccia di uno che ormai è stato rovinato da decenni di consumismo sfrenato, di neocapitalismo, di vuoto interiore, di disperazione esistenziale, uno che non ha più nulla da chiedere alla sua vita, che ormai non può che comprarsi l’ultimo modello della Volkswagen, della Fiat o peggio ancora della Rolls-Royce Cullinan Black Badge, uno che perciò rappresenta efficacemente la tragedia umana ma innanzitutto la tragedia italiana, perché quella era senza dubbio una faccia italiana se pur imbecille, e perciò esprimeva desolazione, noia, disgusto di una situazione nella quale le persone in questa da me amatissima penisola sono costrette a vivere, senza più un briciolo di speranza, di gioia, di vera autentica gioia di vivere, e sarà la crisi economica, e sarà che i valori della famiglia e della religione e della convivenza civile sono caduti a pezzi senza essere sostituiti da nient’altro che da un colpevole e nocivo e perdente individualismo, e sarà che anche a livello politico ci si ritrova tutti ad assistere allo scontro il più delle volte finto e di maniera perché giocato ormai sul filo della polemica giornalistica tra una Destra che accoglie e mescola ipocritamente i fantasmi del consumismo sfrenato, della cultura televisiva schifosissima da Grande Fratello, della continua distruzione del territorio con i valori che dovrebbe difendere, i valori tradizionali, Dio Patria e Famiglia, e questa mescolanza ignobile è concepita per pura convenienza politica, i post-fascisti, i neoconservatori si non messi proprio con coloro che hanno distrutto quegli stessi valori, davvero ormai estinti, e dall’altra parte c’è una Sinistra ammaccata, impoverita, impotente, che ha perso la sua identità ideologica e che ora si ritrova a vivacchiare con i brandelli di questa defunta ideologia, un miscuglio abbastanza triste e inutile e deprimente di idee “politicamente corrette”, la parodia della democrazia, la parodia della difesa dei lavoratori, la parodia, la dignità delle minoranze eccetera, e questa è una cosa tristezza e disperante per tutti coloro che avvertono il disagio per questa mancanza di speranza e il vuoto psicologico e ideologico e anche politico ed è per questo motivo che quella faccia nello spot mi ha sgomentato tanto, così pensavo finendo di mangiare gli spaghetti, e d’un tratto ho compreso che mi ero tanto spaventato perché quella faccia esprimeva la mia disperazione, la mia desolazione. la mia stupidità, Io vedevo in quella faccia ciò che senza rendermene conto ero diventato. Ero io quell’imbecille.

4 settembre 2024

 

Si deve parlare di cose belle e vere, ma poco, per non averne sazietà, e renderle rare e preziose, costringere il lettore ad aspettarle o andarle a cercare tra le futilità, assurdità e vere e proprie brutture che si leggeranno spesso nel mio diario, anche perché in effetti nella vita reale ci assalgono da ogni lato ed è impossibile non parlarne.

Parlerò perciò di un’altra opera di quella mostra indelebilmente rimasta nella mia mente di cui ho già parlato, cioè quella dove c’era la fotografia  del garofano dentro il culo. Stavo lì, in mezzo alla piccola folla di abituali frequentatori di inaugurazioni di mostre d’arte (pittori, critici, amanti dell’arte contemporanea e sperimentale, sfaccendanti ricchi sfondati, eccetera), e dopo essere rimasto un poco turbato da quell’opera forse immortale, mi sposto di qualche passo e rimango fulminato da un’altra opera, questa volta una piccola scultura, davvero enigmatica. C’era un modellino del Colosseo con dentro una fica, ma non una fica vera ovviamente: una fica perfettamente riprodotta che comunque un certo stupore lo suscitava perché sembrava quasi vera, con le grandi e piccole labbra in rilievo, un clitoride piuttosto pronunciato, ma così ben formato e sporgente che veniva voglia di sfiorarlo, di stringerlo dolcemente tra pollice e indice… Stava lì, la fica, dentro il Colosseo, ma a farci cosa? Bisogna pensarci bene, formulare ipotesi.

Forse il Colosseo, stando al centro di Roma, sta al centro del mondo, come si dice da sempre? Mah. Teniamolo però presente. Se una fica sta dentro al Colosseo vuol dire che la fica suddetta è al centro del mondo, diciamo dell’universo. Roma caput mundi. E va bè. Mi sembra fin troppo chiaro a questo punto. Io però non mi accontentai e, dopo aver formulato la mia ipotesi, mi diressi verso l’autore dell’opera stessa che poi era un’autrice, una donna che conoscevo da anni, una bravissima pittrice che non sapevo si dedicasse alle fiche dentro i monumenti storici e cose del genere. La raggiunsi e le chiesi delucidazioni, premettendo che sapevo benissimo che è molto ingenuo chiedere all’artista il significato dell’opera. Lei, che non era solo una brava pittrice ma anche una persona gentile oltre che una bellissima donna, mi rispose con una certa fretta perché era circondata da varie persone che parlavano con lei «È un abisso». Così mi rispose. «Ah sì, un abisso» dissi a me stesso allontanandomi, un abisso, certo, come non averci pensato subito, che idiota.

Impressionante quanta gente fosse andata a vedere quella mostra. E tutta queste quelle persone, mi chiedo a distanza di anni, cosa avranno pensato di quelle opere e soprattutto delle due di cui ho parlato e cioè Il garofano dentro il buco del culo e La fica dentro il Colosseo? Ma forse non pensavano nulla, o poco. Stando lì accanto alla piccola scultura di gesso dipinta di rosso, notavo che la gente dava uno sguardo distratto e poi passava oltre. Pochissimi si fermavano ad osservare, a contemplare l’opera. Transitavano fregandosene altamente di quella sorca, bernarda, patonzola, fregna dentro il modellino del Colosseo. Sospetto che volessero quasi esclusivamente partecipare all’incontro mondano, salutare, abbracciarsi e baciarsi, sorseggiare lo spumantino… E in effetti, a chi potrebbe importare di quella scultura? Mica la comprarono e la esposero in salotto. È chiaro che era soltanto una provocazione, destinata a durare per il periodo della sua esposizione nella mostra per poi finire in qualche ripostiglio. Magari invece l’hanno comprato e chissà quanti soldi hanno speso, alla faccia mia, chissà.

Fatto sta che non dimenticherò mai né il garofano nel culo né la fica dentro il Colosseo.

 

3 settembre 2024

 

Basta incontrare un amico, al bar di Val Melaina, per passare in pochi minuti dai pensieri peggiori alla spensieratezza. Angelo. Lui sapeva già da tempo di questa storia delle piantine dell’iraniano e della persona misteriosa che le innaffia, alternandosi con me, e che io non ho mai conosciuto. E questa cosa va avanti da mesi.

Angelo mi provoca, dice che sotto sotto io immagino (spero) che si tratti di una ragazza bellissima, giovanissima. Scherzando, io protesto, nego con fermezza, però in effetti…

Chiaro che è una ragazza. Sui venticinque anni, diciamo, non di più.  Altezza: 1,65. Corpo molto formoso e un seno abbondante (almeno quarta misura di reggiseno). Non parliamo poi delle meravigliose gambe e degli occhi grandi, verdi e dei lunghi riccioli neri che scivolano sulle spalle… Ovviamente fa caldo e perciò lei indossa un vestito di tessuto leggero, quasi trasparante, cortissimo, con davanti due bretelline che reggono a malapena i voluminosi seni.

Non mi stupisce affatto che una ragazza del genere riveli una sensibilità tanto forte. Bisogna disdegnare i pregiudizi sulla bellezza delle donne, che tanti giudicano in contrasto con le qualità intellettuali. Tutti i giorni va lì a innaffiare le piantine dell’eroe iraniano, perché oltre che sensibile è dotata di un certo spessore morale che le fa amare le persone coraggiose, che sono capaci di sacrificare la propria vita in nome della libertà contro le dittature di ogni genere.

Certo, i suoi studi a Oxford in filologia romanza l’hanno anche educata alla disciplina necessaria per affrontare un tale impegno. La sua tesi di laurea sulle venti carte autografe di Petrarca conservate nel Codice Vaticano latino 1196, ha destato un grande interesse nella comunità internazionale dei filologi.

Come conosco tutto ciò? Be’, certo, un pochino d’immaginazione, lo ammetto, contribuisce a formare questo quadro, ma io intuisco che molto di ciò che dico corrisponde esattamente alla realtà. Ma certo, non può essere altrimenti! Poi voglio vedere la faccia di Angelo quando porterò la ragazza al bar di Val Melaina per fargliela conoscere!

 

Molto felice sono stato per le parole lusinghiere sul Diario che ha scritto Cristina, la moglie di Giovanni, il fratello della mia Teresa. Ho il privilegio di conoscere per nome tutti i miei lettori… pochi ma buonissimi!

 

Mi dispiace per Emanuele che ancora non si è fatto vivo, e per altri due amici… Se qualcosa non è di loro gradimento, che importa? Spero di vederli presto e di ridere insieme di tutte le cose che scriviamo, non dobbiamo prenderci troppo sul serio! Per me da oggi vale quello che disse il grande Henry Miller in Primavera nera: «Sempre felice e contento! È il mio motto».

 

Io non rileggo le pagine del Diario, voglio scrivere a ruota libera. Scrivo di mattina, poi rileggo nel pomeriggio e poi pubblicare sul sito. (Solo nel caso di quelle note su Proust e Hugo mi sono dovuto impegnare di più, ma erano questioni piuttosto complesse, ma avevo anche degli appunti di qualche tempo fa, che hanno agevolato il lavoro). Ma ricordo di essere stato molto polemico col premio Strega e soprattutto con i “colleghi” che girano attorno a quel premio, definendoli se ricordo bene “scrittori mediocri” o cosa del genere. Chiedo scusa, era agosto, sono stato cattivello, sicuramente tra loro ci sono persone di un certo valore, però qualche dubbio mi è venuto qualche giorno fa sfogliando un paio di libri della cinquina finalista del premio di quest’anno… Mah, che vi devo dire, ognuno ha i suoi gusti, si dice così, no? E magari ho beccato proprio i peggiori mentre gli altri tre sono autentici capolavori, possibilissimo. Come è possibile che la persona che va a innaffiare le piantine dell’iraniano sia una ragazza bellissime. Improbabile ma possibile, perché no?

 

E poi prendersela con il premio Strega è come sparare sulla Crove Rossa. Ma poi, perché ne parlo? Che fanno di male quelle persone? Si cerca di vendere qualche libro… Certo, Sandro Penna, per dirne una, al premio Strega non venne mai invitato. E se fosse in vita una specie di Arthur Rimbaud, pensate che lo inviterebbero? Certo lui non ci andrebbe, e se ci andasse combinerebbe un sacco di guai…

 

Gli scrittori, gli artisti di grande valore sono spesso emarginati. È qualcosa che è capitata tante volte. Lasciamo stare gli esempi soliti, Van Gogh, Dino Campana, ma io ho conosciuto personalmente dei grandi scrittori che avrebbero meritato di maggiori riconoscimenti o che sono stati totalmente ignorati dall’ambiente letterario: Margherita Guidacci, Giangranco Palmery, Marello Landi….

Ognuno vede le cose e le persone a modo suo, è vera questa considerazione banalissima. Ricordo quando portai un amico a trovare Marcello Landi, che pochi conoscono. Io lo vedevo come il poeta veggente, l’albatros di Baudelaire, deriso e umiliato, che inciampa nei tranelli della vita. La loro videro solo un pensionato delle poste con problemi mentali, un povero pazzo.

Chi aveva ragione, io o il mio amico?

 

 

2 settembre 2024

 

Entrai dove non so,

E rimasi non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Non sapevo dove entravo,

Però, come là mi vidi,

Senza vedere dove stavo,

Grandi cose io compresi.

Non dirò cosa sentivo,

Perché restai non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Di pace e pietà

Era sapienza perfetta,

In solitudine profonda

Vidi la via diritta:

Cosa tanto segreta

Che restai balbettando

Ogni scienza trascendendo.

Ero così meravigliato,

Così assorto ed estraniato,

Che la mia mente rimase

Completamente vuota;

Però fui dotato

Di un capire senza capire

Ogni scienza trascendendo.

Chi là giunge veramente

Di tutto si sente privato,

Quanto prima conosceva

Infima cosa gli sembra,

E più comprende questa scienza,

Più resta non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

A mano a mano che salivo,

Tanto meno io capivo:

Come se una nuvola oscura

Rischiarasse la notte.

Per questo chi l’ha veduta

Resta sempre non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Questo sapere senza comprendere

Ha un così alto potere

Che i sapienti discutendo

Non lo possono analizzare,

Perché non arriva la loro sapienza

Ad intendere non intendendo

Ogni scienza trascendendo.

È talmente alta

Questa immensa conoscenza,

Che né facoltà né scienza

La possono affrontare.

Ma soltanto chi perde se stesso

Col non sapere sapendo

Ogni scienza trascendendo.

E se proprio lo volete sapere,

Questa grande sapienza

Consiste in un forte sentire

La divina essenza.

Ed è per questa pietosa essenza

Che si resta non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

 

 

(San Giovanni della Croce. Traduzione di r.v.)

 

1 settembre 2024

 

Vogliamo continuare il discorso sulla stupidità umana iniziato ieri con la storia della statuina della Madonnina segregata dalle lamiere? E va bene, facciamo un altro esempio, anche perché alla fine rivelerò una sorprendente verità, che spiega tante cose altrimenti inspiegabili.

Gli esempi della stupidità umana sono infiniti, e non servirà certo per arginarla queste parole che scrivo. Ma bisogna dare testimonianza che esiste altro, che c’è qualcosa di diverso, di migliore, di bello e intelligente, o almeno di meno stupido.

Ad esempio, il pino ricurvo di piazzale delle Muse. Storia di almeno venti o trent’anni fa, ormai. Era lì da un bel po’ di tempo, quell’albero: prima dell’epoca in cui ci salivo sopra insieme agli altri bambini del quartiere, prima del Fascismo, prima della Prima Guerra Mondiale, prima di tanta altra Storia. Aveva almeno un paio di secoli, forse tre, quell’albero, che aveva la caratteristica di essere molto ricurvo, il grosso tronco era piegato, si alzava di poco dal terreno, e infatti il divertimento nostro era quello di salirci in punta di piedi per arrivare fino al primo ramo. Poi, credo negli anni Novanta del secolo scorso, fu deciso di costruire un parcheggio sotto il giardino del piazzale, tra i due vecchi bar, il Parnaso e le Casina delle Rose, che venne così totalmente stravolto. Scomparve, finito il bellissimo guardino. Costruirono il grande parcheggio in nome del Dio Automobile, e sopra le aiuole vennero ridisegnate (malissimo), e qualcuno fece quella cosa assurda, cioè venne segato, abbattuto lo storico pino. Io dico: come hanno fatto? Chi l’ha fatto? E gli abitanti del quartiere per quale motivo glielo hanno permesso? Ci scommetto che l’albero era sanissimo e non andava abbattuto. (Chiaro che per giustificare una tale schifezza avranno detto che era malato).

Ricordo questo obbrobrio perché ieri ci è venuto in mente a me e a Giulia, la barista del chiosco di piazzale Adriatico, vicino a dove abito. Giulia se lo ricorda benissimo il famoso pino marino ricurvo di piazzale delle Muse, perché abitava nei pressi. Mi ha detto una cosa sorprendente, a cui non avevo mai pensato. Parlando tra un caffè e l’altro, il discorso è caduto su alcune persone, nel mondo dell’informazione e della politica, che affermano cose platealmente false, sbagliate, assurde, e molto nocive per la popolazione. Le cose sono due, ho detto io: o sono cretini, oppure pagati. Certe volte tutte e due le cose insieme. Allora ho chiesto a Giulia: ma questi individui come fanno a campare con il peso della menzogna e dell’inganno? Non si vergognano davanti a chi conosce la verità su ciò che dicono? E come fanno a sopportare la loro miserevole condizione umana? Non hanno un briciolo di pudore, di rispetto di se stessi?

«La risposta è molto semplice» ha detto Giulia. «Non hanno l’anima. Perciò possono fare e dire qualsiasi cosa. Sono dei mostri».

Sono rimasto sorpreso. Perché è vero, è così. E guardate che potrei parlare di questioni molto precise, magari sulle quali si può discutere, si possono avere opinioni diverse: però esistono individui che in maniera assolutamente evidente prendono una posizione “di parte”, prevenuta, strumentale, falsa, ed è chiaro che obbediscono a qualcuno che sta sopra di loro. Quando fu deciso di costruire quell’assurdo parcheggio di piazzale delle Muse (con relativo abbattimento dello storico pino, che ne è stata sicuramente una diretta conseguenza) senza dubbio ci sarà stato il politico, l’amministratore pubblico (con il coro di giornalisti compiacenti) che avrà proclamato con “convinzione” (ma in realtà per assecondare, pagato, le esigenze dei costruttori) che il parcheggio doveva essere costruito per risolvere il problema dei parcheggi e che non si poteva assolutamente evitare. E allora, dico, come avrà fatto a dormire tranquillo sapendo di aver ingannato gli abitanti del quartiere lucrando sopra una menzogna? E il pino ricurvo di piazzale delle Muse è solo un piccolo esempio. Quel tipo di persone per i soldi farebbero qualsiasi cosa, dunque non hanno l’anima, e se ne hanno ancora un pezzetto lo tengono bene nascosto. E poi c’è la filosofia del tengo famiglia, che serve a giustificare, soprattutto a se stessi, qualsiasi porcheria.

Insomma, ha ragione Giulia, che non soltanto è molto intelligente ma fa il caffè più buono della zona.

(Aggiudicato un caffè gratis per domani mattina, grazie).

 

 

 

 

31 agosto 2024

 

Quasi parallela a via Salaria c’è una strada, via di Villa Spada che porta a Roma Smistamento, uno scalo ferroviario, dove i treni vengono riparati e puliti. Ha una storia vecchia questo posto. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso era un grande centro di lavoro e di vita sociale. I ferrovieri abitavano qui, con le loro famiglie, soprattutto quelli che lavoravano nei capannoni e sui binari. Ancora negli anni Settanta e Ottanta era un luogo di lavoro importante per le Ferrovie dello Stato, che poi sono state svendute ai privati e smembrate. Ora è un luogo abbastanza triste, soprattutto per chi sa o ricorda il passato. Molte le case e i capannoni in rovina. Io lo conosco bene perché un amico ci abita da quando era bambino.

Un paio d’anni fa una Madonnina di terracotta, chiamata la Madonnina dei ferrovieri, venne rubata. Aveva un valore innanzitutto affettivo. Le signore anziane andavano in quella piccola aiuola dove stava la statuina per dire le preghiere, pe anche per incontrarsi.

Io pensai che fosse cosa buona e giusta andare a comprarne un’altra e rimetterla al posto di quella sparita. Accompagnato da Teresa e Pino, andai a prenderla in una rivendita di statue di vario genere a via Prati Fiscali e con non poca fatica la mettemmo al suo posto, col cemento. Molto contenti e soddisfatti del gesto. Ovviamente scattammo selfie con la Madonnina.

Trascorsi alcuni mesi, non si sa per quale ragione, l’aiuola della Madonnina venne recintata dalla lamiera, nascondendola. Una Madonnina segregata. Poi è rimasta così, e l’aiuola è diventata uno spazio per l’immondizia. Faccio notare che intorno alla statuina c’è una bellissima pianta di rose rosse. Io ogni tanto vado a parlare coi ferrovieri ma non ci sono più le Ferrovie dello Stato ma aziende private che hanno sedi altrove e alle quali non interessa certo una statuina della Vergine Maria. A maggio sono andato, nel tardi pomeriggio. C’era uno spiraglio attraverso il quale ho potuto vedere la Madonnina e le bellissime rose, intorno al cumulo d’immondizia. Al tramonto l’immondizia è sparita come d’incanto dalla scena ed è rimasta soltanto la statuina e le rose accese dalla luce del sole che tramontava. Non c’è modo di passare attraversi le lamiere che la imprigionano, si può vedere questa cosa bella soltanto attraverso una fessura. Meglio così, diventa ancora più bella e più preziosa, e poi sta lì come un monito contro la suprema stupidità umana.

Oggi ci torno con Pino, che abita proprio accanto, in questo giorno di fine agosto.

 

30 agosto 2024

 

Ma che dovrei scrivere? La cosa più importante è che sono andato dall’iraniano, cioè sono andato “in pellegrinaggio” alla targa che ricorda Mohammed Hossein Naghadi, ucciso qui vicino, per innaffiare le piantine che ho messo lì per ricordarlo. Come ho già detto, mi alterno con una persona che non conosco. Per due giorni non sono andato, per vari motivi che non sto qui a dire. Ero preoccupato per i fiori. Ma la persona misteriosa, che condivide questo impegno, aveva fatto il suo “dovere”. Le piantine sgocciolavano, era passata da lì da pochissimo E mai che la incontrassi, mi piacerebbe. È una donna, un uomo, una coppia? Non si sa. Ma a chi può interessare tutto ciò? Non importa, però per me è una bella storia. Spero che continui. Io comunque a innaffiare ci vado. Ieri sera ero felice per i fiori, che nonostante il caldo splendevano nella sera.

 

 

 

29 agosto 2024

 

 

Le mie lacrime riflettono la luce

sulla vetta più desolata della luna.

Guardo in cielo, la tristezza passa.

Dormi ora, che è tardi.

 

 

Una poesia di Matilde, me l’ha mandata adesso. Lei ha cominciato da poco a scrivere poesie, perciò una certa ingenuità letteraria è perdonabile. Ma c’è qualcosa di bello in questi versi, una luce autentica riflessa sulla vetta più desolata della luna.

 

 

 

 

Se passate a piazza Fiume, qui a Roma, vedrete che La Rinascente, il famoso “grande magazzino” creato all’inizio del secolo scorso dai fratelli Bocconi, ha cambiato nome. Hanno tolto l’articolo e scritto tutto maiuscolo il nome: RINASCENTE. Il nome era stato inventato da Gabriele D’Annunzio (ricevendo in cambio una certa somma). Un nome bellissimo per un negozio di merci varie, forse troppo bello. Perché mai l’hanno rovinato così? Non voglio pensarci, sennò divento triste. So che l’azienda non è più italiana, ma thailandese: la Central Group of Companies, che ha affidato a uno studio di grafica inglese (North Design)  il compito di fare questa brutta stupidaggine. Bravi, veramente bravi, bisogna dirlo. Complimenti ai proprietari thailandesi e ai loro collaboratori italiani, ai quali faccio questa proposta: se mi pagate ve lo rimetto io l’articolo, perché voi magari non siete capaci.

 

 

 

28 agosto 2024

Le cose più importanti devono rimanere segrete. Mi ci si può avvicinare, con poche parole, non è necessario dilungarsi.

Ecco: il torrente. Macché torrente, è un rimasuglio di fiumiciattolo che vado a visitare abitualmente poco lontano da casa, al Parco della Marcigliana. Si trova nel luogo più desolato del pianeta. Eppure, intorno a mezzogiorno, nelle belle giornate, i raggi del sole cadono su quella poca acqua facendola brillare come ci fossero lì sotto mille diamanti, meravigliosamente. Ecco dunque dove stava la bellezza. E io che l’ andavo a cercare chissà dove. Stava qui, nella sua forma più essenziale.

Penso che capiti la stessa cosa con le verità, anche quelle spirituali, “religiose”. Ne troviamo poche nelle chiese, nei discorsi dei filosofi. Invece in un appartato ristrettissimo spazio ne troviamo in abbondanza. Qui, in questo preciso punto, sotto il vecchio ponte disastrato.

Mi metto fermo, in silenzio come in un tempio. Guardo l’acqua simile ai diamanti luccicanti. Il lieve, lievissimo, incantevole suono dell’acqua che scorre aggiunge bellezza a bellezza.

 

 

Sulla faccenda del tempio e della villetta abusiva, silenzio assoluto. Forse è meglio così. Altrimenti arriverebbero ruspe, giornalisti, televisioni, sindaci, dunque rumore, folla, casino. Molto meglio questo silenzio, simile al grande silenzio del lago, che niente deve turbare per volontà e decreto degli Dei. Tutto si rovinerebbe facilmente. Giorni fa sono andato al lago e mi sono fermato alla fonte di Egeria, sacra per gli antichi, per bere alla fontanella a lato della strada. C’era un individuo che stava usando la fresca e purissima e sacra e risanatrice e inviolabile acqua per pulire la macchina. Che cosa potevo fare, cosa potevo dire? Il lago deve essere protetto dalle creature di conformazione umanoide che non hanno rispetto di nulla.

Non ho detto una parola, me ne sono andato più in là, sulla riva. Poi ho fatto il bagno. Il lago mi ha accolto come una madre grande e comprensiva.

 

27 agosto 2024

Tempo fa hanno dato il premio Nobel al grande, meraviglioso Bob Dylan, per le sue canzoni. Soltanto che le canzoni, per quanto poetiche, non sono poesia. Dunque ora sappiamo che i tanto potenti accademici di Stoccolma non capiscono nulla di poesia. Bene, è confortante. Almeno non leggerò mai gli scrittori premiati, cioè li leggerò indipendentemente dal premio. Come il premio Strega, ad esempio. Mai letto un libro premiato. Soltanto una volta, perché aveva vinto un mio amico che nel suo libro aveva parlato di me, per una piccola cosa. Allora ho scoperto che era pure un bel libro, però questo fatto non c’entrava niente col fatto di aver ricevuto il primo premio allo Strega. Ma davvero c’è ancora gente che compra un libro perché magari sta nella cinquina dei libro finalisti? Come no, tantissima gente. Ci sono tutti quelli che girano attorno al premio, i votanti, i giornalisti, gli editori… e vabbè, bisogna pure campare.

Certo, adesso, dopo avere letto queste righe, non  m’inviteranno più a partecipare al premio, nemmeno se scrivessi uno di quei romanzonio romanzetti che odio. Però potrò sempre dire, se mai un giorno dovessero candidarmi, che fino alla precedente edizione la pensavo così. «Ma adesso», affermerò convinto, «bè, adesso è tutto cambiato, molto migliorato questo importantissimo premio, ora sì che si può premiare lo scrittore più importante e che ha scritto il libro più bello, non uno di quei soliti libri abbastanza mediocri degli spesso mediocri scrittori che saranno letti da poche persone e poi verranno dimenticati per sempre. Ora sì che potete premiarmi, signori della giuria. E sono disposto a bere pure quel pessimo liquore davanti a tutti cercando di non vomitare».

 

 

 

Certo, in questo Diario si trova un po’ di tutto. Ieri la poesia di Margherita Guidacci, che stride non poco con ciò che avevo scritto il giorno precedente. Però questo diario deve essere proprio scritto in questo modo, innanzitutto di getto, e poi a una cosa meravigliosa può seguirne una ironica, polemica e anche una un po’ sciocca. Che poi è il mio stile, no? Mischiare l’alto e il bassissimo, la poesia celestiale e la faccenda indecorosa. Nella mio libro La piccola dea, del quale si possono qui nel sito leggere le prime pagine, ho scritto una prosetta che voglio andare a ritrovare. Mi serve per spiegarmi meglio.

 

 

                                                                                         La dimora degli stili

 

La dimora degli stili è in cima a una montagna. Molti s’avventurano per quegli impervi sentieri ma nessuno fino ad ora è riuscito a raggiungerla. Uno soltanto è arrivato ad osservarla da vicino, ma non è stato facile. Coraggio bisogna avere, purezza d’animo, anche soltanto per tentare.

Ricordo d’essermi incamminato un venerdì, in compagnia di Leo, il mio fedele cagnolino. Era una giornata di pieno sole. I ruscelli scorrevano placidamente nei loro letti argillosi e gli animali a quattro zampe, costretti a sostare eternamente nei recinti, belavano o nitrivano o muggivano con rassegnazione e senza alcuna invidia per le creature alate, più fortunate, che vagavano nell’aria.

Avevo riempito lo zaino soltanto col necessario: panini, thermos, gessetti colorati, un manuale d’alpinismo, due cornetti portafortuna, la pelle d’orso, l’oppio, il saggio di Aldous Huxley intitolato Le porte della percezione, i ricordi d’infanzia, la prima dichiarazione d’amore, i dischi per ballare i lenti, i brutti voti in matematica, un corteo studentesco con molotov e lacrimogeni, le cene di Natale coi parenti, le voci all’imbrunire mentre sulla città di mare la nebbia si stende come un velo, Parigi, camminare insieme a te lungo un grande viale alberato indossando buffi cappelli, un paio di comode ciabatte, le ciambelle preparate da mia madre, il Bhāgavata Purāṇa, quella scena di un vecchio film con Greta Garbo, quando lei entra in un bar e dice con la bellissima voce della doppiatrice italiana: «Ehi, uno scotch, e non essere avaro», e poi la calzamaglia di lana, il rasoio per tagliarsi eventualmente le vene, la scatola dei preservativi e la paura di morire. Nient’altro.

Partimmo presto e a mezzogiorno, già un poco stanco, dicevo a Leo, accarezzandolo sulla testa: «Chissà cosa fanno stasera in televisione…». Ma un compito nobile e difficile mi aspettava, una prova di orgoglio che ormai non potevo evitare. Ho percorso ogni sentiero, mi sono ritrovato al buio nella fitta boscaglia che circonda la zona montuosa, poi ho cominciato a salire ed eccomi finalmente quasi all’apice di tutte le fantasie possibili, dove si vede finalmente la forma perfetta, la semplice verità di tutte le cose.

È  lassù, irraggiungibile: la dimora degli stili.

 

 

 

 

 

26 agorto 2024

 

Non occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti

Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo condu-

cono;

Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;

E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.

Bastava che l’ombra sorgesse dall’angolo più quieto della stanza

O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa –

La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:

Noi sapevamo già di appartenere alla morte.

 

(Margherita Guidacci)

25 agosto 2024

Storia di una merda

Ero una piccola merda. Lasciata lì, sul marciapiede. Piccola, indifesa. Frutto di un semplice bisogno fisiologico, di un gesto naturale come può esserlo il respirare, soltanto più indiscreto, materiale, imbarazzante. Una merda, nient’altro. Tutti mi guardavano con disprezzo… ma un giorno un poeta riuscì chissà come a notarmi. Forse perché il poeta – il vero poeta – è colui che tutto considera, che tutto contempla e che nulla giudica e condanna: amico davvero dell’universo intero, anzi di tutti gli universi possibili e immaginabili, compresi quelli paralleli o lontanissimi al di là delle galassie più lontane, ai confini dell’universo, chissà dove… partecipe e solidale alla vita degli uomini e degli alberi e dei fiumi e delle nuvole in cielo e degli esseri che volano o che strisciano sul terreno o che sguazzano in acqua e perfino delle pietre e delle cose inanimate… difensore dei giusti e degli assassini, dei ladri e dei derubati, dei potenti e degli indifesi e che riuscirebbe ad amare una pulce, un microbo, un virus pestilenziale poiché vede bellezza e verità in ogni aspetto del mondo e nulla potrà fargli cambiare idea, né miseria, né solitudine, né carestie, terremoti ed ogni genere di devastazione e di sciagura poiché nulla può toccare profondamente colui che accetta, che dice , che dice: è giusto e bello

Perciò si accorse di me, il poeta; mi vide sul marciapiede e restò fermo a guardarmi. Che bisogno aveva di osservarmi? Nessuno. Che ci si può fare con una cacca? Quale interesse posso suscitare? Me ne stavo lì sul marciapiede davanti a casa del poeta, lui uscì e restò fermo immobile ad osservarmi un po’ chinato in avanti per contemplarmi meglio. Mi contemplava! Una cosa davvero assurda, certo, lo capisco benissimo…. Eppure è quello che lui stava facendo, per quanto sembri incomprensibile. Mi guardava con curiosità, immaginando chissà cosa.

Poi è tornato a casa e ha scritto questa paginetta. Tutto è vivo e degno di attenzione per il poeta, dunque anche una merda come me. Sarebbe capace di incuriosirsi e immaginare e far parlare anche il marciapiede che mi stava sotto. Infatti c’è riuscito. Leggerete qui sotto il dialogo tra una merda come me e un marciapiede. Non crederete ai vostri occhi. Eppure bisogna dire che c’è qualcosa di vero in questo colloquio.

 

Merda  Scusami, sai, non volevo… non è colpa mia.

Marciapiede  Ma figurati. Lo so che non è stata colpa tua.

Merda  Sei molto gentile e comprensivo.

Marciapiede  Prego, prego…

Merda  Mi dispiace. Ti sto pesando?

Marciapiede No, no… è che l’odore è un po’ fastidioso…

Merda  Che imbarazzo! Perdonami!

Marciapiede  Tranquillo. È nella tua natura, d’altronde; che merda saresti se non puzzassi almeno un poco? Le merde profumate ancora non l’hanno inventate… Dai, lasciamo perdere. Bisogna rassegnarsi al proprio destino. Credi che a me faccia piacere essere ciò che sono? Sempre sotto i piedi di tutti, calpestato, sporcato dalle merde… scusa, sai, non mi riferivo a te… Ogni tanto mi ripuliscono e talvolta anche mi riparano ma nessuno pensa a me come a qualcosa meritevole di rispetto. Solo il poeta, ora, mostra interesse per me.

Merda  Sì, certo. C’è il poeta, per fortuna. Che pensa di farti parlare, come pensa di far parlare me.

Marciapiede. È vero, hai ragione. Una grande fortuna per noi due.

Merda  Effettivamente è una fortuna e una grande consolazione. Allora dovremmo ringraziarlo insieme, il poeta.

Marciapiede & Merda (in coro) Grazie, poeta!

 

Questo è il dialogo che si è svolto stamattina. Poi è arrivato il netturbino e mi ha spazzato via. A me, alla merda che sono. Ma resterà nei secoli – ma che dico, nei millenni – questo dialogo tra me e il mio amico marciapiede. Addio.

 

 

 

A proposito di merde, mi domando (anche per chiudere questo nauseabondo argomento), perché il mondo è pieno di stronzi?

Sì, non è possibile negarlo: pieno zeppo di stronzi. Ma il perché non lo so. Nessuno potrà mai riuscire a comprendere per quale ragione su questo pianeta esistano individui del genere. Come ad esempio quelli che spendono un sacco di soldi per comprare i fuoristrada di ultima generazione, enormi jeep, e invece di andarci nel Sahara o nel deserto del Gobi o in quello del Kalahari, li usano per lo shopping in Centro con il bel risultato di intasare ancor di più le già trafficatissime strade della città in cui mi tocca vivere. Tu questi stronzi li vedi transitare o parcheggiare in seconda fila completamente ignari della loro miserevole condizione intellettuale, per giunta sprezzanti, mentre giganteggiano pieni di vanità di fronte agli altri normali automobilisti o motociclisti o ciclisti eccetera.

Giorni fa me ne stavo fermo ad un semaforo rosso in sella al mio scooter quando è arrivata una di quelle mastodontiche automobili, quasi il doppio più grande delle altre e venti volte più della mia Vespa. Ho visto di cosa si trattava: era un Land Rover Defender, una cosa enorme, una specie di mostro. Ho potuto allora fissare negli occhi il guidatore, dal basso in alto, cercando di penetrare attraverso lo sguardo in quella mente devastata dalla pubblicità, dai bisogni indotti, dalle false concezioni della vita che vogliono fare della Terra un pianeta da conquistare e da consumare fino all’ultimo granello di polvere.

«Imbecille, oltre che grandissimo stronzo» gli ho detto telepaticamente mentre lui al di là del finestrino si godeva l’aria condizionata e la musica dello stereo a tutto volume, «stammi a sentire, voglio domandarti una cosa: come riesci a non comprendere di aver buttato dalla finestra quei soldi che avresti potuto impiegare in mille altre maniere più utili e divertenti? Che te ne fai di un bene materiale che tra un solo anno avrà dimezzato il suo valore? Dove cazzo ci devi andare con questa specie di autobus con le ruote giganti? In Africa? In Medio Oriente, tra Damasco e le rive del Mar Rosso? Allora vai, parti immediatamente e raggiungi uno di quei magnifici luoghi, e non rompere le palle qui!… Io ti imploro, non usare la jeep per correre lungo le strette e rinascimentali strade del Centro di Roma, non lo capisci che in questo modo non fai che aumentarne il caos?». Lui rimaneva in un suo imperscrutabile mutismo. «Lo so cosa stai pensando» ho continuato, «è per ragioni di spazio che te lo sei comprato, per questioni di comfort. Oh sì, certo: la moglie e i bambini… Cazzate. I tuoi bambini non hanno alcun bisogno di due metri al quadrato per stare comodi sui sedili posteriori durante le gite dei fine settimana o nei viaggi delle vacanze estive… Ascolta: ricordo benissimo quando mio padre ci portava, a me e alla mia famiglia, sulla mitica Opel Kadett 1000 di colore verdolino, su e giù per le strade delle Dolomiti, tra il ghiacciaio della Marmolada e il passo Pordoi. Me ne stavo lì con i miei fratelli, un po’ stretto ma tutto sommato abbastanza comodo su quei sedili di plastica mentre mamma e papà, che Dio li benedica, pensavano a tutto il resto. Noi tre figli eravamo relativamente felici a quei tempi e ci piaceva tanto scorazzare intorno alle montagne con quella macchina. Avevamo la netta sensazione di stare al sicuro, protetti, tranquillissimi di arrivare a destinazione, non solo perché nostro padre era un guidatore provetto ma anche perché quella Opel verdolina non ci avrebbe sicuramente lasciato nei guai. Mai papà se n’era lamentato, anzi non avevamo ascoltato altro che lodi riguardo alla sua affidabilità; e infatti quell’automobile ci portava dappertutto, perfino su strade sterrate, in cima ad alcuni passi dolomitici che a quei tempi, cioè verso la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, non erano ancora stati raggiunti dall’asfalto. Il bagagliaio era abbastanza grande da contenere tutto ciò che occorreva e nessuno di noi sentiva assolutamente la mancanza di spazi più ampi… Dunque, scusami, ma questa storiella dello spazio e del comfort non regge».

Ma il semaforo è diventato verde. A quel punto ho tirato fuori il fiato che avevo in corpo e senza più remore ho gridato: «Aspetta, stronzo, non partire! Ti devo dire ancora una cosa fondamentale, e cioè che puoi svegliarti da questo tuo sonno mortale, davvero puoi farcela! Esci dall’abitacolo, adesso, qui ed ora, e abbandona questo mostro meccanico insensatamente grande per andartene finalmente libero e spensierato. Sì, sì, è possibile! Qualcuno si occuperà di rimuoverlo, e probabilmente qualcun altro ti verrà a cercare, ma che importa? Tu ormai sarai già lontano, libero, felice vagando finalmente lontano dalla città, lungo verdissime valli e boschi incontaminati… Percorrerai le rive di torrenti e ruscelli e infine approderai ad un piccolo lago dall’acqua limpidissima dove ti chinerai a bere e dove poi ti tufferai, nudo, nuotando felice… E chissà, forse ad un tratto scorgerai una figura femminile poco lontano, tra gli alberi, una fanciulla bellissima che ti farà un enigmatico cenno con la mano prima di scendere anch’essa in acqua e venirti incontro…. Ma sì, sì, tu subito l’abbraccerai e lei sentirà la tua potente eccitazione da fauno silvestre e così vi amerete con mille giochi nella frescura del laghetto e tra le fronde degli abeti sotto un cielo chiaro e pulito… E allora cosa aspetti? Svegliati! Reagisci, coglione! Abbandona questo triste sogno di successo e di supremazia che ti rende schiavo ed entra in un sogno più bello e colorato! Ricordati cosa dice Gesù nel Vangelo di Luca (17, 33): “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà”. Salva la tua vita perdendoti, deficiente! Ma se adesso non vuoi fare troppo casino, allora parcheggia questa mastodontica jeep e chiama il primo rivenditore di automobili usate per liberartene il prima possibile! Hai speso 30.000 o 50.000 euro e forse ancora di più, idiota che non sei altro, e però puoi rivenderlo e rifarci un po’ di soldi… Ma ti rendi conto cosa significherebbe risparmiare i soldi dell’assicurazione e del bollo e della benzina? Sarebbe prezioso denaro che potresti impiegare in mille altri modi. Ti prego, dammi retta, te lo dico per il tuo bene! Fermati! Aspetta un momento!… Aspetta, ritardato mentale!».

Lui senza degnarmi di un solo sguardo è ripartito, facendomi respirare abbondante gas di scarico.

«Che stronzo!» ho detto io.

 

 

D’improvviso, nel tetro silenzio di agosto, irrompono le voci dei bambini che abitano qui vicino, appena tornati dalle vacanze. Per favore, bambini, non andate più via.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

24 agosto 2024

A Roma, poiché i soldi per le cose necessarie sono sempre pochi, si vedono in giro ancora i vecchissimi e malandati camion dei Vigili del Fuoco costruiti negli anni Sessanta. Davvero, avranno almeno cinquant’anni. Perciò sono identici ai camion dei pompieri con cui giocavo da bambino, che erano stati progettati e realizzati dalle aziende dei giocattoli a imitazioni di quelli veri. Così i camion veri di adesso sembrano le riproduzioni perfette dei miei giocattoli! Identici ai modellini, soltanto un po’ più grandi: automobiline giganti!

 

 

 

Fievole, quasi impercettibile la voce dell’amata, accanto a me nella penombra. Poi mi dici: «Ma perché stiamo parlando così piano, si può sapere?».

Siamo presi dalla sera che scende lentamente e dall’amore, ecco perché. Avvertiamo verso sera questo respiro leggero delle cose, lo sentiamo come un soffio sulla pelle.

Poi non diciamo più nemmeno una parola, felici di svanire insieme ad ogni cosa, nella sera.

 

 

 

Parlerò adesso, semplicemente perché non ho altro da fare in questo tetro pomeriggio di agosto, con notizie allarmanti e caldo insopportabile, di due artisti molto differenti tra loro ma che hanno in comune una cosa che svelerò soltanto alla fine di questo breve saggio che sicuramente sarà giudicato con parole osannanti dalla critica e figuriamoci poi come reagirà lo sterminato pubblico dei miei lettori: Bob Marley e Alessandro Manzoni.

Cominciamo da Bob.

Egli s’impenna sollevato dalle note più alte della sua stessa voce e scivola e rotola sui suoni della chitarra solista e del basso finché giunge finalmente alla conclusione del brano e della sua stessa vita, laggiù. Oh sì, ora Bob sta cadendo nel baratro, lo capisco bene: questo sarà la sua ultima canzone poiché il cancro avanza nella gola anche se lui, per fortuna, non se ne preoccupa troppo. Al Buio Silenzioso non ha mai fatto caso. Non ne ha mai avuto paura e non è mai andato a un funerale in vita sua. Così ha detto nelle interviste. Infatti anche adesso, con le flebo nelle vene e le infermiere intorno, guardatelo come corre e salta sul grande palcoscenico della vita!

Eppure cadi, Bob, ecco, stai cadendo…

Distratto dai preparativi per l’ultimo viaggio, hai dimenticato di salutare i partecipanti all’ultimo banchetto in tuo onore. Innanzitutto, c’è il sottoscritto. Che non ha altro merito che quello di averti ascoltato in cuffia nei lunghi pomeriggi invernali, quando si avverte con un senso di vertigine che tutto cambia lentissimamente e che ciò è ineluttabile. Salgo sulla lunga tavola imbastita a ballare insieme a Peter Tosh, ai tuoi innumerevoli figli sparsi per il mondo, alle tue ex mogli e a tutte le tue amanti, ai mariti traditi, ai poliziotti giamaicani che fumano erba… Tutti insieme a festeggiare l’inizio del tuo viaggio verso l’infinito. Perché non vogliamo piangere ma danzare, danzare, danzare…

E ora passiamo ad esaminare il grande, importantissimo scrittore italiano, Alessandro Manzoni.

Non ho mai avuto il coraggio di dirlo, né tanto meno di scriverlo in quei temi del cazzo che mi davano a scuola, ma questo scrittore mi ha sempre annoiato mortalmente. Ad esempio, quella famosa poesia (Ei fu. Siccome immobile/dato il mortal sospiro…) io l’ho sempre odiata. Mi sembra retorica e veramente scema. Per quanto riguarda I promessi sposi voglio far notare soltanto una cosa: è un bel romanzo, certo, ma che figura ci fa se lo mettiamo a confronto con le opere dei suoi contemporanei Hugo, Stendhal, Balzac, Dostoevskij, Melville, Dickens? Quei signori li ammiro incondizionatamente, anzi li adoro, mentre per Manzoni provo sì molta soggezione, come davanti a un monumento, ma non amore. E questo per colpa sua, credo, non soltanto mia. Anche Hugo, ogni tanto è un po’ trombone, vanitoso, magniloquente, e forse anche lui scriveva pensando che un giorno sarebbe stato studiato a scuola, però Alessandro (Alex per gli amici) in trombonismo lo batte dieci a uno. Mi dispiace, ma spesso il Manzoni (con l’articolo “il”, come appunto si fa coi grandi scrittori) proprio non lo reggo.

Esagero? Dico questo a causa delle mie esperienze scolastiche del tutto negative? Posso ammettere che la scuola renderebbe noiosa anche la cosa più bella del mondo. Però non credo che nessuno, nemmeno il peggiore degli insegnanti, riuscirebbe a rovinare un romanzo di Victor Hugo.

Va bè, ma tutto questo che diavolo c’entra? Cioè, che c’entra Alessandro Manzoni con Bob Marley? Per via delle orecchie. L’avete mai notato? Se prendete un ritratto di Manzoni e l’avvicinate a una qualsiasi foto di Marley, vi renderete facilmente conto che la forma delle loro orecchie è identica. Non ci credete? Fate la prova.

Certo, soltanto uno veramente alterato psicologicamente può fare un paragone del genere. Manco mi fossi fatto un cannone che nemmeno il vecchio Bob!

Alessandro Manzoni e Bob Marley! Cose da pazzi!

 

 

 

 

 

23 agosto 2024

 

Felicità, o ghirlanda fiorita che circondi il mondo quando dorme sotto il peso del dolore e della morte! Perché il mondo vive nel segno del tormento e dell’amore sconosciuto. Dorme, e sogna senza sapere di sognare; e mentre sogna, ruota intorno al perno che tutto regge. O magia, o felicità!

 

 

 

Avevo pensato di tracciare un cerchio che racchiudesse l’intera città, le piccole gioie, gli sforzi che si fanno per campare, le albe contemplate dalla finestra, l’agonia e la morte di un amico, le lunghe attese dal dentista, la fatica di alzarsi presto la mattina per andare a lavorare, la discussione sottovoce in camera da letto tra moglie e marito a proposito dell’educazione dei figli, la noia domenicale, le grida dei ragazzini che giocano a pallone nel cortile condominiale durante un pomeriggio estivo quando l’improvviso frastuono di lamiere al di là del cancello rompe la quiete di quella giornata estiva e i ragazzini che si sporgono per vedere le il litigio tra i due uomini mentre gli altri automobilisti intrappolati nel traffico suonano istericamente i clacson e l’arrivo dell’autoambulanza e le imprecazioni  del ferito… e mille cose ancora avrei voluto riunire nel grande cerchio che tanto desideravo tracciare, come ad abbracciare la città con un’idea, con l’aspirazione di dire tutto. Anche il dolore fisico e la gioia delle partorienti, la solitudine dei guardiani notturni, l’onnipotenza delle donne giovani e belle che camminano per la strada sapendosi osservate… e così via, a salire e a scendere, in lungo e in largo, ogni cosa e persona, perfino coloro che sembrano assenti volevo rinchiudere in questo grande cerchio: le persone morte che abbiamo amato, gli invisibili, da noi sempre pensati e ricordati e rimpianti e perciò costretti a rivivere forse a malincuore in un modo che noi non conosciamo. Ma non soltanto i morti, anche gli angeli e i diavoli volevo includere nel magico cerchio che avevo intenzione di disegnare, perché forse anch’essi esistono, e pure gli innocenti e sconosciuti piccoli animali volevo metterci dentro, sì certo, gli insetti numerosissimi e silenziosi, e i topi odiatissimi e gli esseri alati e più fortunati che vivono lungo i grandi viali alberati, ad esempio i passeri sui rami.

Ma non ne sono capace. Non traccerò nessun grande cerchio. Ne traccerò invece uno infinitamente ridotto nel quale collocherò con estrema precisione la storia della gattina Juve e della signora Rosy, raccontando quanto fu triste gettare il corpo della gattina nel cassonetto condominiale dell’immondizia e anche di cosa pensai dopo, che spiegherà per quale ragione io non ho potuto e non potrò mai tracciare un grande cerchio intorno alla città. Si era infatti ammalata, la gattina. Era molto vecchia ormai e c’era da aspettarselo. (Il fatto è che uno non riesce a prepararsi a niente, cioè non crede possibile che da lì a un’ora, da lì a un minuto tutto cambi e ci si ritrovi ad affrontare il dolore, la morte e tutto il resto). Quasi d’improvviso s’è messa zitta e buona su un cuscino che lei aveva sempre considerato la sua cuccia e poi lì è rimasta. Per amore della verità bisogna dire che di cucce, Juve, ce ne aveva parecchie su e giù per il condominio. Lei infatti se ne andava in giro per tetti e balconi e giardini, entrava nelle case, dappertutto, poiché aveva un mucchio di autentici vice-padroni e vice-padrone e vice-padroncini e mangiava quando e come e quanto voleva; insomma se la spassava e faceva una gran bella vita, fregandosene altamente (anche questo bisogna pur dirlo) degli altri gatti meno fortunati e molto meno furbi e in effetti bisogna dirlo chiaro e tondo per amore di verità: Juve era parecchio furba e incontenibile e in un certo senso amorale poiché a suo piacimento entrava dalle finestre aperte e mangiava nelle ciotole altrui oppure rubava sui tavoli delle cucine e insomma se ne infischiava altamente della buona educazione che, dico io, anche i gatti dovrebbero tenere in considerazione almeno un poco, o no? Mezza addormentata, non s’è mossa da quel cuscino fino a sera che le faceva da cuccia e in poche ore è morta.

Era circa mezzanotte, e poco prima che spirasse, in casa c’eravamo io, la signora Rosy e il portiere del mio condominio. La signora Rosy stava piangendo sommessamente. Anche a me dispiaceva parecchio perché era una bella gattina che conoscevo da tanti anni e sempre se ne stava nel giardino del condominio e quando tornavo la sera in Vespa, lei, sentendo il rumore del motore, saltava fuori dalla siepe e veniva a salutarmi e a prendersi un po’ di carezze e per fare un po’ di fusa. Io me la prendevo in braccio e la sentivo calda e morbida ed era un piacere averla vicino. Era proprio una bella gatta. Bianca con chiazze nere. Per questo la signora Rosy l’aveva chiamata Juve: da Juventus, la squadra di calcio che ha le maglie bianche e nere.

Ad un certo punto si è messa a rantolare, poi ha fatto un profondo sospiro ed è morta. Nella stanza si è avvertito qualcosa di grande e minaccioso, come una specie di promessa mantenuta ad ogni costo. Il portiere ha detto: «Ecco…».

Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto. Poi la signora Rosy ha smesso di piangere ed è uscita dalla stanza. Io e il portiere siamo rimasti lì a guardare il corpo della gattina, fermo, immobile e già estraneo.

Il portiere ha detto: «Adesso bisogna portarla via».

«Ma dove?» ho domandato io.

«La buttiamo nel cassonetto».

«Nel cassonetto dell’immondizia? Ma no!» ho protestato.

«E dove sennò?».

In quel momento è tornata la signora Rosy, si è inginocchiata e ha allargato un telo sul pavimento. «Povera Juve» ha detto. Per un momento è rimasta così, in ginocchio. Poi con due mani ha preso la gattina e l’ha distesa sul telo. Poi ha avvolto il corpo con quella specie di sudario.

«Signora Rosy» ho detto io, «ma adesso dove la vuole mettere? Non vorrà buttarla nel cassonetto dell’immondizia!».

La donna ha fatto un respiro prima di rispondere. Il portiere, invece di lasciarla dire, ha detto: «Per forza. Sennò dove la mettiamo?».

Io ho insistito. «Potremmo metterla in giardino, forse. Scaviamo una buca. Nell’aiuola in fondo. Che ne dice, signora?».

«Ma non si può, credo» ha risposto lei, che ha avuto tanti gatti e dunque sa cosa succede in questi casi. Infatti il portiere ha aggiunto, come per chiudere il discorso: «Certo che non si può».

Allora la signora Rosy ha preso quel fagottino in braccio ed è uscita di casa seguita da me e dal portiere. Camminavamo in fila indiana, scendendo per le scale e poi in strada. Siamo dunque arrivati al cassonetto dell’immondizia. In giro non c’era nessuno; era sera tardi e la gente se ne stava a casa a riposare oppure chissà dove. Faceva freddo, e però il cielo era limpidissimo e stellato. Il portiere ha aperto il coperchio del cassonetto e la signora Rosy ha gettato il fagottino dentro. C’è stato un tonfo perché evidentemente il cassonetto era vuoto. Questo mi ha dato un brivido. Poi il cassonetto è stato richiuso.

La signora Rosy ha detto, mentre tornavamo indietro, che i gatti sono tanto carini e fanno una grande compagnia. Peccato, ha aggiunto, che durino così poco rispetto a noi uomini. Bisogna prepararsi a vederli morire, ha detto. Se non si accetta questo fatto, cioè se non si accetta di dover soffrire prima o poi per la loro morte sempre prematura e perciò difficilmente accettabile anche da chi si prepara ad accettarla, allora è meglio non averli vicino, meglio non prenderli a casa. Ma come si fa a vivere, ha concluso la signora Rosy, senza voler bene a nessuno?

Siano rimasti per un po’ in silenzio davanti alle scale, io, la signora Rosy e il portiere. Poi io ho detto, senza pensare molto a quel che dicevo, così, lasciandomi trasportare dalle circostanze, cioè dalla tristezza derivante da quella specie di funerale per l’amatissima gattina Juve che ora giaceva tra l’immondizia in attesa di essere triturata insieme all’immondizia: «Però non si capisce, proprio non si riesce a capire perché deve essere così, cioè che i gatti devono morire così presto, e anzi non si capisce per quale ragione tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».

Era un’affermazione assurda e ridicola, me ne resi conto perfettamente io stesso appena pronunciata. Mettersi a filosofeggiare a quell’ora di notte davanti alle scale del condominio insieme al portiere e alla signora Rosy era la cosa più scema che essere umano potesse fare. E che diavolo pretendevo, che uno dei miei interlocutori dicesse frasi del tipo è la natura oppure Dio l’ha voluto o qualunque frase banale anche se magari veritiera però certamente inadatta in quel momento? Nessuno infatti aprì bocca per rispondermi, come previsto. Era stata una frase davvero troppo idiota, e come ho già detto lo ammisi in cuor mio immediatamente dopo averla pronunciata.

La signora Rosy disse: «Bene. Allora grazie. Ci vediamo».

«Sì, ci vediamo, signora» disse il portiere prima di scomparire repentinamente nel suo appartamento al piano terra.

La signora Rosy cominciò a salire le scale. Mi chiesi: perché la signora Rosy non prende l’ascensore? È per fare esercizio fisico? Oppure nemmeno ci ha pensato e ha preso la via delle scale e basta?

In fondo sono idiozie anche quelle che mi sto chiedendo adesso, dissi a me stesso.

Sentii i passi strascicati della signora Rosy risuonare per le scale. Poi la chiave, lassù, entrò nella serratura e subito dopo la porta ci richiuse rumorosamente, quasi con violenza, con un piccolo boato che fece tremare i vetri delle finestre lungo le scale.

Io avvertii una fitta salirmi lungo la spina dorsale, ed ebbi come un capogiro. Cosa mi stava capitando? Nulla. Soltanto, mi sentii d’improvviso tremendamente solo. Mi resi conto in quel preciso momento che in vita mia avevo vissuto nella più assoluta solitudine. Chissà perché ci pensai in quella situazione. Provai questa sensazione: il cervello, l’anima, il corpo, gli intestini, il sangue che stava circolando nelle vene, tutto aderiva e formava un’entità unica che aveva forse per la prima volta pienamente coscienza di se stessa e che sentiva di staccarsi con un violento strappo dal resto del mondo e dall’universo intero. Era quest’ondata di solitudine e di consapevolezza che mi aveva fatto trasalire e quasi svenire. Restai per qualche momento immobile, aggrappato alla ringhiera delle scale, a cercare di capire se sarei morto o no.

Ma non accadde nulla di irreparabile. Mi scossi da quella specie di catalessi in cui ero precipitato e raggiunsi casa mia. Una volta a letto, pensai: «Non bisogna mai fare domande. Le domande sono sempre assurde, stupide». Presi una pastiglia di Valium e spensi la luce del comodino. Restai un poco sveglio, nella penombra, a godermi il tepore del letto e a riflettere su ciò che era accaduto. L’ultimo pensiero prima di dormire: «Non scriverò mai più nulla che non riguardi con esattezza me stesso, ciò che mi capita, le poche cose che succedono. Non scriverò mai un romanzo, non traccerò mai un grande cerchio intorno alla città».

 

22 agosto 2024

O amore, mio amore, dolcissimo e indecente, io voglio penetrare in te come fossi uno speleologo, pazzo e metafisico, per scendere nella più profondissima delle caverne e così sfiorare la radice di tutte le cose. So che, raggiungendo le tue profondità, io posso mirare a profondità abissali.

Un fiume scorre in questa caverna. Una piovra gigante (Enteroctopus dofleini) affiora sulla superficie dell’acqua e ti chiama per nome mentre pesci multicolori sgusciano tra le onde giocando a nascondino. Sulla riva si trovano conchiglie che, se le avvicini all’orecchio, emettono L’aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach.

Mi siedo sulla riva sabbiosa. Mi bagno i piedi. L’acqua è calda, quasi bollente. (Ricordi quella sera alle terme di Saturnia? Ecco, anche da quella sera proviene questa fantasia). Poi scaccio con un piede un mostriciattolo tentacolare, cioè una piovra “normale” (Octopus vulgaris), che mi ha fatto il solletico alle dita. Ha una testa piccola e una faccia arguta e sorridente, come nei cartoni animati. Anche questo strano animale viene da te, amore. Non avendo altre strade per arrivare ai tuoi fondali, e ai fondali dei tuoi fondali, e pure ai fondali dei fondali dei tuoi fondali, io mi getto a capofitto in questo antro candido, e però sudicio, meraviglioso.

Infatti il sogno arriva dove, a mente fredda, non arriverei mai. Nulla di così stravagante, in fondo: acque bollenti in caverne profondissime, mostri, mostriciattoli, conchiglie che emettono L’aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach… e il sottoscritto che se ne sta beato sulla riva di questo fiume e si addormenta per un breve riposino. Chissà quali sogni farò addormentandomi nel mio stesso sogno…

Uno stormo di uccelli mi sfiora per infastidirmi, io mi sveglio e riconosco immediatamente l’Alce Reale (Alce impennis), un volatile ormai estinto e che si è formato nella mia mente da ragazzino, durante i lunghissimi pomeriggi invernali, quando si muore di noia e si resta davanti alla televisione ad aspettare la fine dell’adolescenza. Giocavo con lui, e ora lo ritrovo qui, dentro di te.

Ma ci sono molte altre creature che affiorano nella mia mente mentre me ne sto qui in santa pace. Le linci (Lync pardinus), tanto per fare un esempio: vivono nell’oscurità e si muovono al rallentatore. Provengono da certi giochi che si fanno nell’infanzia… sapete, quando si gioca al dottore. (Tu devi averci giocato un po’ troppo. Non fai altro che sedurre gli uomini, per la semplice ragione che ti piace tanto fare la puttana, amore). Infatti dai traumi propriamente sessuali derivano i seguenti animali che possiamo spesso incontrare quando c’inoltriamo in caverne femminili di questo tipo: l’orso delle caverne, per l’appunto (Ursus spelaeus) e l’orso bruno (Ursus Arctos) ma anche il divertentissimo orso polare (Ursus Maritimus) che sfoglia riviste di moda e canticchia le canzoni dei gruppi del rock psichedelico americano degli anni Sessanta come ad esempio i The Palace Guard di Los Angeles e i  Grateful Dead  di San Francisco. E guai a disturbarlo.

Proseguiamo in questa interessantissima rassegna di creature realmente immaginarie eppure in un certo modo realmente esistenti poiché figlie di una pericolosa ossessione, di un dolore o di un piacere acuto, insopportabile. Dopo gli uccelli, le linci e gli orsi, ecco le iene: la iene delle caverne africane (Haene spelaea), che ride come una matta se le proponi equazioni matematiche, e la più inquieta iena striata (Haena striata), che prende a calci gli psichiatri e i sessuologi perché negano le verità e i piaceri che appartengono ai pochi.

Inoltre, i roditori. (Che rodono ai fianchi soltanto chi se lo merita, e questa è la penitenza per la tua lussuria di grande baldracca che non sei altro, amore mio). Ma ci sono anche i roditori del Neolitico e dell’Età del bronzo, quelli dell’antichissima epoca di Hallstatt e, anche se sembra impossibile, addirittura quelli dell’epoca di La Tène: la marmotta (Arctonis marmotta), il bobac (Arctonis bobac), il citello (Spermophilius citellus), il criceto (Cricetus frumentaris) che una volta era diffuso dal Reno all’Obi durante la stagione invernale e dal Caucaso a 60° di latitudine Nord e che ora ci sorprende ancora spuntando talvolta dalla tasca del giaccone di pelle, e perfino i castori (il Tragontherium e il Tragontherium Cervieri) che assaggiano i tuoi umori esprimendo giudizi che io non condivido affatto. Poi ci sono pure bovini, ovibovini, lepri, conigli, cani, volpi, scimmie, molluschi, cinghiali, renne… dei quali potrei fornire nome origini abitudini, ma ora mi sono annoiato. Abitano in te, sopra di te, sotto di te… Se intraprendo un viaggio nei tuoi labirinti, devo per forza tenere conto della fauna che tu fai vivere e prosperare in messo alla tua… (CENSURA). Certo, tutto questo sembra semplicemente una ridicola visione che però io ho visto percorrendo la strada della verità, che non è mai nuda e cruda e lineare ma anzi parecchio cotta, anzi stracotta e tortuosa, anzi aggrovigliata.

Tu stessa vieni da epoche di cui si sono perse le tracce. I tuoi antenati facevano sacrifici umani. E tu sei un’assassina. È naturale per te far piangere e morire maschi e femmine. Nulla e nessuno ti resiste. Tu sei da mettere in prigione.

Ti parlo francamente: vorrei ucciderti con le mie mani, amore. Ma non voglio più farmi trascinare da questi impulsi distruttivi. Ogni tanto verrò a cercarti per chiacchierare e prendere un tè. Qual è il tuo indirizzo? Ah sì, viale Castrense 56, palazzina B, interno 5. D’accordo, presto verrò a farti visita. Nel frattempo mi metto ad accarezzare il mostriciattolo che si è tanto divertito a stuzzicarmi i piedi: infatti eccomi qui, ancora sdraiato in riva al fiume che ti scorre dentro. Sai, non è facile uscire da questo sogno…

 

21 agosto 2024

così il sogno è per lui l’aurora dell’eternità 

Jean Paul

 

 

Non ci sono mondi, non ci sono sacre scritture, Dei, religioni, sacrifici,

non ci sono classi, tribù di famiglia, nazionalità,

non c’è alcun sentiero oscuro né alcun sentiero luminoso.

C’è solo la più alta Verità, il Brahman Assoluto.

(Avadhut Gita)

 

Mi ricordo un tema che mi dissero di svolgere in terza media, al Tasso, vicino a piazza Fiume, una scuola di un certo prestigio dove scrissero, su un libretto dedicato alla mia famiglia, dopo l’esame di terza media, che io ero un bambino con capacità di topo pratico e che avrei dovuto intraprendere un percorso scolastico di tipo tecnico scientifico (in sostanza, che avrei dovuto studiare per diventare ingegnere, o qualcosa del genere). Che lungimiranza, che intelligenza, che sensibilità in quei professori! Davvero avevano capito tutto di un ragazzino come me!

Comunque, tornando al tema, era questo, se ricordo esattamente (ma potrei sbagliarmi, ricordare male, inventare, divertirmi): «Quali sarebbero le tue reazioni se fossi rinchiuso vivo in una bara?».

Svolgimento:

Mi piace questo tema; curioso, e che apre interessanti prospettive. Certo, cazzo, vi sparate sostanze un po’ troppo forti ultimamente.

Allora cominciamo. «La vita corre, fugge via» ho detto al becchino ieri mattina mentre per gioco mi stavano calando nella fossa, «procede inarrestabile anche sotto questo sole di agosto ancora molto caldo.. L’estate tra poco terminerà a noi non resterà che tirare le somme. Richiudi senza esitare, amico, il coperchio di questa bara di legno pregiato. Il mio destino è compiuto».

Lui piangeva. Così il sottoscritto, non soltanto per consolarlo ma per il piacere di condividere una verità, ha aggiunto: «Bisognerebbe essere un fiore, un qualsiasi fiore, anche quello che vedo lì, a pochi centimetri dai miei occhi e che viene chiamato Lathyrus Odoratus. Multicolore, dal gambo lungo e sottile, e con un’ampia corolla. Vive lietamente tra un sasso e un cespuglio, nel fresco dell’erba. La sua esistenza è felice, poiché non ha bisogno di pensare e ricordare e tirare le somme. Se arriva un insetto e si posa su un petalo, avverte soltanto il frenetico movimento delle ali e delle zampe appoggiate sui tessuti, il pungiglione che penetra fino in fondo per scavare e spolpare… Tutto ciò potrei sentire anch’io se potessi essere un fiore sulla riva di un torrente. Purtroppo posso soltanto immaginare, ma immaginare, sognare, vuol dire vivere».

L’amico becchino, facendo uno strano sorriso e asciugandosi le lacrime, a questo punto mi ha domandato: «Tu vuoi dire che noi possiamo comprendere, sognando, la linfa che scorre lungo il gambo ed esplode nel fiore, il fremito della foglia, l’arsura del terreno in cui affondano le piccole radici e il sollievo indescrivibile della pioggia?».

«Esatto. Ma adesso vieni, c’è posto per tutti e due in questa tomba».

Così ci siamo ritrovati nel buio, buio fitto, dopo aver tirato sulla testa il coperchio della bara. Notai che, pur restando per lunghi momenti a contatto ravvicinato con il becchino, io non sentivo alcuno stimolo sessuale. Del resto, perché provare desiderio per un individuo brutto, basso e tarchiato? Avrei preferito avere vicino una bella ragazza, oh sì. È sempre meglio essere rinchiusi in una cassa da morto insieme ad una bella figliola piuttosto che con un uomo peloso e per giunta puzzolente, almeno per me!

Non avevo finito di parlare, avevo bisogno di aggiungere alcune personali riflessioni alle quali tenevo molto. «Vedi, imbecille che non sei altro» ho detto ancora, «abitualmente il cielo copre i nostri corpi come un manto lieve di gioia. Come fossimo bambini, e figli di un solo padre. (Cerca di seguirmi, perché queste cose non te le ripeterò mai più). Senza rendercene conto respiriamo le cose, tutte le cose, nell’aria del mattino. Il sole, infatti, è vivo. La campagna qui attorno è viva. Tu sei vivo. Scoperchiamo dunque la bara e usciamo fuori da questo tetro luogo, per giunta fasullo, nei quale però i nostri desideri sono veri anche se espressi in forma di canto o promessa o frase musicale e colorata… Non affliggiamoci più, te ne prego. L’aria è calda, la terra è calda. Andiamo, corriamo. Perché, vedi, come diceva Plotino (che era il fratello gemello, magro e piccolino, di quello grande e grosso e ciccione che tutti chiamavano Platone) non è l’anima a stare dentro i nostri corpi ma è il nostro corpo a stare dentro la grande, universale anima. Dunque siamo tutti dentro lo stesso ventre, e cantiamo. Anche se rimaniamo zitti zitti dentro una tomba, noi cantiamo. Lo senti? Il lombrico che striscia a pochi centimetri da qui, canta. Il fiore canta. L’insetto che si nutre del fiore, canta. La terra, nell’arsura o nel sollievo della pioggia, canta. Saremo presto cenere, ma questa cenere canterà… È questo il lungo canto del mondo che vive. Chiaro, no?».

C’era poca aria dentro quella tomba. M’era venuta anche fame. Abbiamo così  deciso che la sceneggiata poteva terminare. Siamo dunque usciti dalla fossa tra gli applausi del pubblico. La gente gridava: «Bravi, bravissimi! Nessuno come voi due sa dire quelle cose che coviamo dentro i nostri cuori!… Sciocchezze? Assurdità? Non ha importanza! Ci consola tanto ascoltare le parole che non riusciamo ad esprimere! Grazie! Grazie ancora e per sempre!».

Poi siamo andati a ritirare i soldi che ci spettavano. Ci hanno sempre pagato bene, in quel cimitero.

 

 

 

 

 

 

 

20 agosto 2024

Ho trovato un altro morto ammazzato di cui occuparmi, evviva! Questa volta non ho trovato una targa, veramente è una specie di edicola lungo il sentiero che parte da un’azienda agricola, la Cesarina, e s’inoltra tra i campi. Siamo nel cosiddetto Parco della Marcigliana. Di solito vado in Vespa a fare un giretto dalla parte del parco più vicina alla Salaria, ma una pattuglia di vigili, giorni fa, mi ha impedito l’accesso alla strada (non si capisce per quale ragione), allora sono andato in direzione Nomentana, mi sono fermato e ho camminato nei campi. Quanto voglio bene a quei vigili che mi hanno impedito di raggiungere il mio solito posticino dove contemplare il tramonto e fare due passi! Qui, davanti alla Cesarina (che io conosco benissimo perché ci abitava la madre dolcissima di un mio parente e una volta ero andato a trovarla: luogo di altri tempi, case di contadini ma molto ben fatte, un cortile dove giocavano i bambini e davanti i campi coltivati…), c’è un rimasuglio di campagna romana che io non conoscevo! Ci sono le allodole che da tanto tempo non vedevo e non ascoltavo!

Insomma mi sono incamminato e ad un certo punto del sentiero ho trovato questa edicola mal ridotta, completamente abbandonata con un nome scritto sul cemento: STEFANO e una foto. Il caso ha voluto che proprio mentre sostavo lì davanti è passata una signora che stava facendo la sua passeggiatina pomeridiana, e le ho chiesto notizie. Trent’anni fa circa quel ragazzo è stato ucciso per questioni di droga. Piccoli spacciatori di borgata, però questo Stefano (nella foto si vede un giovanissimo) deve essersi messo nei guai seri. La signora ha detto che l’hanno pugnalato e lui è morto qui. La signora è andata via e io sono rimasto a pensare a Stefano e a chi ha messo questa edicola e come mai è abbandonata.

Povero Stefano. Mi venivano le lacrime agli occhi. Il sole piano piano è tramontato, le allodole si muovevano in aria e sull’erba dove hanno i nidi.

Così ieri, verso sera, sono tornato e ho portato una bella piantina di rose e ho rimesso in sesto l’edicola. Per fortuna Stefano adesso è nell’eternità, non gli importa nulla di edicole e fiori e assassini. Però per fortuna ho un nuovo amico, anche se morto e pure ammazzato.

E fanno tre, con l’iraniano  e il giudice. Verrò presto a innaffiare i fiori, fa caldo adesso e la piantina ha bisogno di acqua. Ci porto pure Teresa. Anzi, può venire chiunque, sono invitati tutti i miei lettori. Si potrebbe anche organizzare una gita nella quale si vanno a visitare i vari morti ammazzati. Magari faccio pure pagare un biglietto… No, scherzo, il biglietto no. E poi chi ci viene a visitare i morti? I vivi hanno altre occupazioni, soprattutto adesso, stanno in vacanza, al mare, in montagna, oppure  sono in viaggio. I vivi sono fatti così, bisogna capirli. Poi ognuno di loro, dico dei vivi, ha i suoi morti, cioè familiari, amici, mica si può pretendere che la gente si metta a pensare pure ai morti degli altri e per di più ammazzati. Allora ci penso io. Come già ho scritto in questo mio Diario, ci sto benissimo insieme ai morti. Se poi sono morti ammazzati, ancora meglio. Mi fa male l’ingiustizia, la violenza. Cerco per quanto posso di rendere omaggio a queste povere persone che hanno subìto un torto assai grande, cerco di riparare, anche se è cosa inutile, a meno che non si creda (ma ce ne vuole per crederlo…) che un gesto di simpatia e un omaggio possano servire a qualcosa, come una luce che si accende nella tenebra, un messaggio per mondi sconosciuti.

Tra l’altro, da lì si vede, verso il tramonto, uno spettacolo: quando il sole sta per tramontare, i raggi del sole colpiscono le vetrate delle case di Grottaferrata e più su di Rocca di Papa, sul Monte Albano. Piccoli fuochi si accendono per qualche attimo. E poi lì dietro c’è il lago di Nemi, e il Santuario di Diana e il teatro dove si svolgeva il duello del re del bosco!

 

 

 

Voglio ancora ringraziare i vigili. In missione speciale da parte di Dio, senza saperlo, ovviamente. Angeli custodi in divisa. Prima di andare da Stefano, ieri sono tornato sulla strada chiusa al traffico, quella che raggiunge la Salaria da via della Bufalotta. La strada sta benissimo, l’asfalto è in ottimo stato, non si capisce il motivo di questa interruzione. Però un mio amico di zona, molto bene informato su ciò che succede intorno a Montesacro, mi ha rivelato che forse hanno chiuso la strada per impedire il ritrovo dei gay ad un certo punto del percorso. Possibile? A Roma è tutto possibile, anche una cosa insensata come questa, non mi stupirei se fosse vero. Sembra che i proprietari dei terreni e delle poche case coloniche, abbiano protestato. Che poi conosco benissimo quel posto. Seguendo quella strada, dopo una centrale elettrica (una volta era dell’Enel) si arriva a una collinetta dove si può godere di bei tramonti in questo pezzo di campagna romana rimasto, che è appunto quello tra la via Salaria e la via Nomentana, poco dopo Cinquina e la Bufalotta, che viene chiamato Parco della Marcigliana. Io da molto tempo mi fermavo per andare a vedere da vicino una grande e bellissima quercia secolare e poi tornare sulla strada per vedere il tramonto. Proprio quello è il ritrovo dei gay! Io avevo visto strani movimenti di macchine, avevo capito la faccenda ma non me ne curavo. Alcune volte c’era stato anche qualche tentativo di approccio ma io avevo gentilmente ed educatamente rifiutato. Facendo poi la figura di quello che se la tira. Uno infatti m’ha detto, una volta che già il sole era tramontato ma io continuavo a passeggiare: «Ahò, e che ce l’hai solo tu? Anvedi questo che fanatico!». E in effetti, chi poteva credere che andassi esattamente nel ritrovo dei gay a guardare il tramonto? Ma io che ne sapevo! E quando me ne sono reso conto che me ne importava? Ognuno si faceva i fatti suoi e tutto scorreva tranquillamente. C’era bisogno di interrompere una strada per impedire a liberi cittadini di Roma di fare le ammucchiate in posti assolutamente solitari e fuori da sguardi indiscreti? (Chissà poi se c’è stato davvero questo provvedimento).

Mah, fatto sta che, impedendomi di raggiungere il luogo degli incontri gay,  i solerti vigili urbani mi hanno fatto scoprire l’edicola dedicata a Stefano. Tante volte succede così. I solerti vigili urbani mi hanno spinto verso la felicità. E talvolta succede anche per questioni più gravi e importanti: il Male opera in favore del Bene. Proprio come si legge nel Faust di Goethe: «Dunque chi sei tu infine?». «Io sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente opera il Bene».

19 agosto 2024

La legge del contrappasso. Anche questa cosa, come il verbo formicare che da bambino avevo frainteso con fornicare pensando avesse a che fare con qualche strana perversione sessuale riguardante le formiche, non l’avevo capita e pensavo, da bambino, che fosse un espediente musicale nella musica jazz, un modo di suonare il contrabbasso in certi casi rari, nei quali il musicista magari si lascia andare a un “a solo” troppo lungo e allora gli altri componenti della band intervengono coi loro strumenti per sovrapporsi al suonatore di contrabbasso per farlo smettere e riportarlo sulla giusta strada dell’esecuzione.

Sì, la legge del contrabbasso. Charles Mingus la conosceva benissimo.

Ma come mi venivano in testa queste assurdità? È che da bambino ho avuto problemi con il linguaggio. Fino a due anni non parlavo, poi fino a quattro o cinque anni  ho elaborato un mio linguaggio personalissimo ma mi capivano soltanto i miei fratelli, che traducevano ciò che dicevo ai miei genitori.

Mi portarono pure dallo psichiatra. Al centro di igiene mentale che stava, se ben ricordo, al Policlinico Umberto I. Una grande sala, piena di bambini urlanti… e mia madre, poverina, con infinita pazienza se ne stava lì seduta ad aspettare il suo turno per la visita con lo psichiatra per sapere come fare con questo suo figlio che non si capiva se era mezzo scemo oppure un artista d’avanguardia che aveva a noia il linguaggio comune e aveva dunque deciso di elaborarne uno per conto suo, stranissimo, inesplicabile, che solo quelli della neoavanguardia degli anni Sessanta avrebbero potuto comprendere.

Poi arrivò il mio turno. Entrai con mamma in una camera (la ricordo benissimo e ora non aggiungo nullo di scherzoso o esagerato). Lo psichiatra in realtà era una psichiatra, cioè una donna. Aveva gli occhiali, si atteggiava in maniera molto professionale, avevva lo sguardo severo e mi faceva un po’ paura anche se mi disse facendomi una carezza sulla testa che non dovevo preoccuparmi, che dovevamo fare un piccolo esame per vedere bene la situazione. Ricordo come se fosse ieri che mi fece sedere davanti alla sua scrivania, mi mise davanti agli occhi un foglio di carta e una matita e disse: «Adesso, Robertino, disegnami una casa. Ma non la casa che ti hanno fatto disegnare all’asilo ma la casa come ti viene in mente senza pensarci, così, istintivamente». Io la guardai e guardai il volto preoccupato di mia madre. Allora, giuro che dico la pura verità, pensai che se avessi disegnato la casa come mi era venuta in mente in quel momento mi avrebbe rinchiuso al manicomio. La mia casa immaginata era lunghissima e stretta, arrivava fino alla luna e anche oltre, non c’etano finestre, e nemmeno la porta d’entrata. E non era dritta ma tutta a curve.

Io per paura di essere spedito dritto dritto al manicomio disegnai una casetta squadrata con le finestrelle davanti a un sentiero, e vicino c’era un alberello e poi una collina e tante pecorelle. Come la voleva la dottoressa. E che ero matto davvero a farla come l’avrei fatta se mi fossi fidato? Certo, è incredibile che a quell’età pensassi in quel modo e fossi capace di fregare degli adulti, e addirittura una psichiatra!

La dottoressa guardò il foglio e disse a mia madre: «Tutto a posto. Suo figlio è normalissimo».

 

 

17 agorto 2024

Perché alla fine, diciamo la verità, andare a teatro è quasi sempre una autentica tortura. E io devo ammettere che sempre, o quasi sempre, il momento più bello, veramente liberatorio, è quando si spengono le luci sul palcoscenico dopo l’ultima battuta, c’è un silenzio che dura qualche attimo e da lì di capisce che forse lo spettacolo è finito, e poi parte l’applauso, solitamente scrosciante, e allora si capisce che uno se ne può andare a casa, che è libero, che è terminata quella grande rottura di coglioni.

Non dimenticherò mai quella volta al teatro Argentina. Una persona che conoscevo, tra l’altro uno dei pochi scrittori che stimo, una persona coraggiosa, una perla rara tra i tanti mediocri, mi aveva invitato alla prima del suo spettacolo. Era una cosa importante: la prima serata di una messinscena di un testo scritto da lui, mi aveva invitato e io ero abbastanza contento di andarci, e per questo avevo portato con me una mia amica, anche per poter sopportare meglio, eventualmente, la possibile se non prevedibile rottura di coglioni. Che ci fu, purtroppo. Una cosa tristissima, un monologo ossessionante su vicende esistenziali drammatiche, un voce fioca, appena udibile al lume di candela, uno spettacolo insopportabile, deprimente… quando le luci si accesero in sala alla fine del primo tempo, io e la mia amica ci guardammo, sgomenti: ce l’avremmo fatta a sopportare il secondo atto, che sarebbe durato almeno un’altra ora?

Ma come potevamo fare? Io avevo incontrato all’entrata l’autore, gli avevo detto: «dopo lo spettacolo ci vediamo e così ti sinceramente cosa ne pensi», ero pronto ad andare nei camerini a complimentarmi con gli attori per dire: «Che interpretazione straordinaria!», insomma le cose orrendamente false e ipocrite che si pronunciano in queste situazioni, e soprattutto era chiaro che avrei dovuto complimentarmi soprattutto con l’autore dicendo: «Che inarrivabile, inaudita potenza il tuo lavoro!», «Che sconvolgente rivelazione del tuo innato talento drammaturgico che ingiustamente è rimasto sconosciuto fino ad ora ma che con questo inimitabile spettacolo viene finalmente alla luce per tutti noi, ma che dico, per il mondo intero!».

Dunque ero fregato. Non potevo andarmene. Così rimanemmo con la santa pazienza… ma quando si spensero le luci e l’attore a lume di candela ricominciò a parlare di putrefazione della carne, di tombe, di dolore fisico, io e la mia amica non ce la facemmo davvero e di comune accordo ci alzammo piano piano (anche per non svegliare lo spettatore che dormiva nella fila davanti), e ci avviammo all’uscita. Certo, avrei perso un amico, una persona così buona che non meritava un trattamento del genere, e in più avrei perduto un “contatto” con uno dell’ambiente letterario. Bisogna avere relazioni con qualcuno, che sia scrittore, critico eccetera, sennò si rimane soli come un cane e nessuno mai prenderà in considerazione la tua proposta nelle case editrici, nei giornali, alla radio e in televisione. Sì, l’avrei pagata cara. Ma era più forte di me, io non avrei sopportato un’altra ora lì dentro.

Così io e la mia amica chiedemmo gentilmente a bassa voce a un addetto del teatro di aprirci la porta ed uscimmo dal teatro Argentina.

Che gioia! Quale infinita beatitudine! Una sensazione di benessere meravigliosa! L’aria fresca, la liberà! Andammo a fare una passeggiata a piazza Navona, meravigliosa, l’aria era fresca e noi ridemmo, scherzammo su ciò che era accaduto, e ci rallegrammo assai di essere riusciti a evadere da quella elegante prigione.

Veramente, soltanto il teatro può dare felicità di questo genere.

 

 

 

Non se la prendano gli amici che fanno teatro (ne ho un paio), ho visto anche spettacoli molto belli in vita mia, però di solito è vero quello che ho detto, andare a teatro è terribile, almeno per me.

Infatti ho escogitato una cosa schifosamente falsa e ipocrita, di cui un poco mi vergogno ma che devo ammettere perché qui nel mio Diario c’è posto soltanto per la pure e semplice verità.

Invece di sorbirmi tutto lo spettacolo, quell’ora e mezza, o due, una volta ho fatto questo: sono andato all’uscita del teatro, ho aspettato che fosse finito lo spettacolo, poi quando si sono aperte le porte del teatro aprono le porte per far uscire il pubblico, io furtivamente mi sono diretto ai camerini. Qui c’era la solita fila di ammiratori che vanno a complimentarsi, però facendo in fretta sono stato uno dei primi a poter parlare con l’attore e perciò gli ho detto: «Uno spettacolo indimenticabile! E la tua interpretazione rimarrà nella Storia del teatro, dico sul serio, sono sincero, tu mi conosci, non direi mai una cosa per farti piacere, non sono uno spregevole ipocrita, io! Grazie. Grazie per questa tua inimitabile interpretazione! Spero che la critica sia benevola e comprenda che un lavoro del genere deve essere quantomeno esaltato perché sua ricordato negli anni a venire, forse nei secoli!».

Davvero l’ho fatto.

 

 

Mi ricordo, quando ero bambino, un adulto pronunciò la parola fornicare. Io compresi male e pensai che avesse detto: formicare. Sapevo ancora poco o quasi nulla del sesso ma quella persona aveva fatto intendere che aveva assistito a un atto imbarazzante in cui due individui avevano formicato. Perciò io pensai che si trattasse di qualcosa di perverso e che avesse a che fare con le formiche? Sesso con formiche? Ammazza oh, allora ero io il perverso!

 

16 agosto 2024

Ad un certo punto della mattina arrivano le odiose cicale, peste sonora dell’estate. Loro non vanno in vacanza. Ossessive, ripetono lo stesso suono per tutto il giorno, non si fermano mai le maledette. Ogni tanto, sì, una breve tregua. Ricaricano le batterie. Poi ricominciano.

Pure Virgilio, che pure amava tanto la Natura, nelle Bucoliche, esattamente nella seconda ecloga, scrive: sole sub ardenti resonant arbusta cicadis (cioè: sotto il sole ardente risuona dagli alberi lo stridulo canto delle cicale). Stridule cicale… Dunque rompevano il cazzo pure a lui.

 

 

Ferragosto è passato, per fortuna, ce l’ho fatta anche questa volta. C’è tempo prima che arrivi un’altra di queste feste comandate alle quali non si può sfuggire, nemmeno trasferendosi in un altro pianeta, lontanissimo, uno di quelli di cui parlano i libri sacri d’Oriente (il Ramayana, il Mahabharata, i Purana, i Veda): veri e propri paradisi dove si vive beatamente e a lungo, e in certi casi eternamente. Lasciando fuori i pianeti mediani, tra Cielo e Inferno come la Terra e quelli infernali, ai quale è meglio non pensare perché abbiamo già abbastanza cose infernali da queste parti, ne voglio citare soltanto un paio, i più importanti: Svarga,  o Indraloka, che è la dimora dei Deva, insomma degli Dei, e poi quello che sta addirittura ancora più in alto, cioè il Brahmaloka, la dimora di Brahma.

Là sì che mi piacerebbe vivere. Ovviamente insieme a Teresina.

 

 

15 agosto 2024

Mentre cercavo di scrivere qualcosa, uno di questi uccellini che stazionano sull’albero davanti alla mia finestra si è messo a cantare. Ma più che un canto era un discorso articolato fatto di suoni. A chi stava parlando? A un essere alato come lui? A me è sembrato, per un lungo momento, dimenticando la ragionevolezza, che si rivolgesse a me, per dirmi di smettere di preoccuparmi: se proprio vuoi scrivere, mi sembrava che dicesse, scrivi ma senza pensarci tanto, senza dispiacerti se ti leggono pochi, o rimuginare su come possono giudicare questi pochi ciò che scrivi. Tanto lo sai che non potrai comunicare l’essenziale. Quello lo faccio io. Io sono il canto del mondo. Non lo sapevi? Tu scrivi ciò che senti, perché istintivamente ti avvicinerai a qualcosa di autentico, di profondo, vero.

Poi mi sono svegliato da questo sogno, però anche se soltanto immaginate queste parole mi hanno colpito, e aiutato. Pure l’ho visto questo volatile dal canto soave e gentile e a suo modo istruttivo. In un attimo si è librato in aria ed è fuggito via.

 

 

Ecco dunque la cosa impegnativa che stavo cercando così faticosamente di scrivere. Invece è facilissima da dire.

Anni fa mi fermai davanti a una bancarella di via Nazionale, una di quelle piene di cianfrusaglie, di oggettini da un euro, di riproduzioni in miniatura dei monumenti di Roma e di vestiti a pochissimo prezzo. Non mi ricordo cosa cercavo, però mi misi a parlare con l’uomo, abbastanza giovane, che lavorava lì. Non so assolutamente come siamo arrivati a parlare di religione ma lui a un certo punto mi ha detto: «Ma scusami, non so perché fai tutti questi discorsi su Gesù e ti domandi se bisogna credere o no, eccetera. Gesù è come Krishna, un avatar, una incarnazione di Dio. E ce ne sono anche altri di avatar».

A quell’epoca avrò avuto più o meno sessant’anni. Durante la mia vita nessuno mi aveva detto una cosa così semplice e vera, e mai l’avevo letto in nessun libro. Ignoranza mia? Può darsi. Eppure in parrocchia, a scuola, e poi parlando con gli amici adolescenti, e di seguito per anni e anni leggendo libri su libri e riviste e ascoltato discorsi di persone di qualsiasi tipo, MAI avevo sentito enunciare una verità limpida e sacrosanta come questa. (Forse nemmeno molti “dogmi” verrebbero intaccati poiché ogni specifica verità, ogni rivelazione non escluderebbe l’altra, almeno nella maggior parte dei casi. Ogni incarnazione ha forse la sua storia, le sue vicende esistenziali, i suoi miracoli).

Forse perché è troppo limpida e sacrosanta. Se fosse pronunciata e dibattuta e propagandata, tutti i preti delle varie religioni continuerebbero a fare il loro mestiere ma senza prendersi troppo sul serio, senza guadagnarci troppo e soprattutto senza aggressività verso chi dice cose diverse. E ogni essere umano seguirebbe gli insegnamenti di Gesù, di Krishna, di Buddha, distinguendo nettamente e con grande facilità ciò che è vero e bello dei loro insegnamenti da ciò che altri hanno messo in bocca a questi profeti, uomini illuminati, incarnazione divine.

Sì, era molto semplice da scrivere.

 

 

14 agosto 2024

Agosto in pieno svolgimento. La solita messinscena: strade vuote, silenzio assoluto. Io e la persona sconosciuta ci occupiamo imperterriti delle piantine (tre) che stanno sotto la targa che ricorda l’iraniano Mohammed Hossein Naghdi, martire della libertà, che vado a trovare come si va a trovare un vecchio amico. Resto lì per un poco. Mi trovo bene con lui, e in genere con i morti, soprattutto con quelli ammazzati. Infatti ho comprato un’altra piantina e l’ho collocata vicino al monumento (abbastanza brutto) che ricorda il magistrato Mario Amato, assassinato da un terrorista “nero” in viale Jonio, a due passi da qui, il 23 giugno 1980.

Però i morti non interessano soltanto a me. A voi, affezionati lettori del Diario, oggi racconterò qualcosa di ciò che dissero i morti a Victor Hugo. Esiste un libro molto curioso e bello che in Italia non è mai stato pubblicato: Les Tables Tournantes de Jersey, cioè la trascrizione delle sedute spiritiche alle quali il grande Victor partecipò durante l’esilio durato circa un paio d’anni, dal 1852 al 1855, sull’isola di Jersey, nello stretto della Manica.

Eppure I tavolini parlanti di Jersey compare a pieno titolo in numerose “opere complete” pubblicate in Francia (prima fra tutte, la prestigiosa Œuvres complètes de Victor Hugo – volume IX – a cura di Jean Massin, Le Club François du Libre, Paris 1967-1969).

Hugo coinvolse in questo gioco la moglie, i figli Adèle e François-Victor, l’amico Auguste Vacquerie e innanzitutto la famosa medium Madame de Girardin, ospite per qualche tempo dell’isola. Con l’assistenza della Girardin stessa, Hugo incontrò ed “intervistò” le anime di scrittori (Chateabriand, Dante, Racine, Shakespeare, Molière, Cervantes, Balzac…), personaggi storici (Annibale, André Chènier…), entità simboliche (La Critica, La Morte, L’Ombra del Sepolcro…), parlò addirittura con le anime di Gesù e Maometto.

I dialoghi sono spesso molto belli, surreali divertenti. Le curiosità e le stranezze non mancano. Gli spiriti raccontano avvenimenti, giudicano con severità, discettano solennemente o con improvvisi guizzi di humour attorno a questioni di morale, religione e arte. Chénier descrive ciò che pensava la sua testa ghigliottinata dopo essere caduta nel cesto… Dante dice a Hugo, in italiano: “Caro mio”… Shakespeare detta alcuni suoi versi “inediti”, però in lingua francese, perché, spiega l’anima del grande bardo, “l’inglese non è lingua adatta alla grande poesia”. (La reazione di Shakespeare a questa affermazione non si conosce).

Chi sono queste voci dell’Aldilà? Anime vere di trapassati richiamate dalla potente medium in visita a Jersey? Semplicemente l’intelligenza di Hugo “quintuplicata dal magnetismo che fa muovere il tavolino” come dice il figlio François-Victor? Un gioco letterario, un passatempo del famoso scrittore che non sapeva come far passare il tempo? Forse un po’ di tutto questo.

C’è però da dire che in Oriente qualcuno (anzi no, alcuni milioni di persone) prende molto sul serio lo spiritismo di Victor Hugo. In Vietnam è stata fondata una religione (e non si tratta di una piccola setta di fanatici, ma della terza religione di quel Paese dopo il Cristianesimo e Buddismo) che considera Hugo un vero e proprio Santo. Per il Caodaismo (Cao Dai) Victor Hugo è colui che ha aperto la strada all’Uomo verso il mondo dei morti. Non dimentichiamo che lo stesso Hugo parlava di questo testo come il libro che sarebbe diventato “la Bibbia dell’avvenire”.

In Francia la raccolta delle trascrizioni delle sedute apparve molto tardi, nel 1923, a cura di Gustave Simon. Seguirono raccolte di pagine scelte, fino alla più recente (1996) per i tipi dell’editore L’école des lettres, a cura di Jean Maurel. Il testo venne accolto in alcune opere complete (ma non nella Plèiade di Gallimard). Alcuni editori hanno preferito adottare, per quanto riguarda la firma del libro, la formula Chez Victor Hugo, che sarebbe come dire: “Circolo di Victor Hugo” o “Sedute di casa Hugo”. Perché mai? Per la ragione che alle sedute partecipavano amici e conoscenti di Hugo; e anche perché, talvolta, la trascrizione delle sedute era affidata non a Hugo ma ad una di queste altre persone.

Riguardo poi agli autografi, ci sono alcuni misteri. Esistevano quattro quaderni, che sparirono per un certo numero di anni. Poi ne saltò fuori uno che è conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Gli altri tre, perduti. Pare esistano qui e là pagine mai pubblicate nemmeno in Francia, che si potrebbero recuperare e tradurre e pubblicare per la prima volta.

 

Nota:

In Italia non è stata pubblicata alcuna traduzione integrale del testo di Hugo, ma soltanto saggi che inseriscono stralci del testo:

  1. Chambers-M. Ebon, Conversazioni con l’eternità, Crisalide Edizioni, Spigno Saturnia (Latina) 2002.

Giorgio di Simone, Dialoghi con l’infinito, l’opera sconosciuta di Victor Hugo, Edizioni del Centro Studi Italiano di Parapsicologia, Genova 2001.

Una bibliografia essenziale del testo in Francia è la seguente:

Gustave Simon, Chez Victor Hugo: Les Tables tournantes de Jersey, Luis Conard Editeur, Paris 1923.

V.Hugo, Œuvres Complète (a cura di Jean Massin),Volume IX, Le Club François du Livre, Paris 1967-1969.

Chez Victor Hugo, Les Tables tournantes de Jersey, L’école des lettres, Paris 1996.

 

 

 

 

 

 

 

13 agosto 2024

Questa cosa non l’ho letta da nessuna parte. Ho studiato un poco la faccenda, sono andato a cercare i testi, li ho confrontati, e perciò adesso pubblico la seguente riflessione nel mio Diario.

Ecco l’inizio del celebre romanzo di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (nella traduzione di Giovanni Raboni):A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V.”. (Longtemps, je me suis couché de bonne heure. Parfois, à peine ma bougie éteinte, mes yeux se fermaient si vite que je n’avais pas le temps de me dire : «Je m’endors.». Et, une demi-heure après, la pensée qu’il était temps de chercher le sommeil m’éveillait ; je voulais poser le volume que je croyais avoir encore dans les mains et souffler ma lumière ; je n’avais pas cessé en dormant de faire des réflexions sur ce que je venais de lire, mais ces réflexions avaient pris un tour un peu particulier ; il me semblait que j’étais moi-même ce dont parlait l’ouvrage : une église, un quatuor, la rivalité de François Ier et de Charles-Quint.).

Ma Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone di pensieri (pagina 290 del manoscritto originale), scrive: “L’uomo non si avvede mai precisamente del punto un cui egli si addormenta, per quanto voglia procurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento e quasi un’immagine di esso fine, e se l’uomo non può sentire il punto il cui le sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte”.

Infatti nelle Operette morali, esattamente nel Dialogo di Federico Ruysch e della sue mummie, possiamo leggere: “Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della morte. Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi. Ruysch. Come non ve n’accorgeste? Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre. Ruysch. Ma l’addormentarsi è cosa naturale. Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.”.

Dunque mi sembra che Proust abbia commesso un errore.

Allo stesso modo di quando ho notato, soltanto io, che la targa commemorativa della casa dove ha abitato Ennio Flaiano è stata posta tra due numeri civici, sopra un muro che divide esattamente due palazzine, per cui non si capisce dove stava la casa, non so se congratularmi con me stesso o spaventarmi.

 

 

 

 

12 agosto 2024

Oggi la creatura più dolce che io abbia mai conosciuto, mi ha scritto: «Ti amo tanto». Anche questo fa parte di un diario, no? Di altro non riesco a scrivere perché le cose da raccontare sono troppe, e caotiche, e indecifrabili. Questo mondo è un mondo di pazzi, e i più pazzi sono quelli che lo governano. Ci sono due guerre non molto lontano da qui. Servono a vendere armi, a fare soldi, e a soddisfare la sete di potere di schifosi individui. Certe volte le notizie che arrivano sembrano inventate, fasulle, ma soltanto perché questi conflitti non hanno alcun senso e sono privi di qualsiasi giustificazione, perciò sembrano irreali. I morti sono veri, invece… Ma a loro, ai più pazzi tra i pazzi, non importa. Tra l’altro, ho l’impressione che i più pericolosi non siano quelli che si fanno vedere in televisione. I politici, i militari, è evidentissimo, sono burattini.

Ma adesso non voglio pensarci, sennò mi sento male.

E poi, strano, non vedo la solita folla oceanica sotto casa mia. Dove saranno andati? Ah sì, al mare, tutti quanti.

Ok, va bene così. A domani.

11 agosto 2024

Scrivo brevemente perché sono pigro, e non dilungarmi è nella mia natura di scrittore , inoltre non voglio che questo mio Diario sia usato per far passare il tempo ai lettori. Per quello ci sono i romanzi.

Qui i pensieri scorrono indisturbati uno dopo l’altro, così come vengono in mente. Nessuno che mi censuri, che mi “riveda” il testo, come farebbero i cosiddetti editor, quegli individui che per le case editrici rileggono i testi da pubblicare, e correggono, tagliano, ricuciono… Stronzi! Peggio degli austriaci! (Per comprendere quest’ultima frase si può rileggere il Diario dell’otto agosto).

Dunque siamo nel pieno della grande messinscena dell’agosto. Città vuote, negozi chiusi, medici assenti, caldo opprimente, solitudine, angoscia… Eppure sono qui a scrivere sul mio sito, covando il mio malumore. Per la prima volta possiedo un mezzo per scrivere e pubblicare direttamente, senza intermediari, e questo è importante per me. Unica compagnia, gli uccellini che cantano beati nei giardino  sotto casa.

Per fortuna in agosto non c’è il chiasso dei bambini della scuola elementare qui vicino durante l’ora di ricreazione (tre mesi di vacanza, una delle tante assurdità italiane), li ascolto sempre durante l’anno. Mi danno fastidio. Che avranno tanto da gridare? Non lo sanno che diventeranno vecchi, non glielo hanno detto? No di certo. Nemmeno che dovranno morire. E gli riempiranno la testa di falsità per farne dei bravi, utili, laboriosi cittadini. (Peccato che la società di cui dovrebbero far parte stia crollando, a quanto pare, i sintomi ci sono tutti: guerre, crisi economiche, valori etici completamente distrutti…). Bisognerebbe che un maestro di prima elementare, il primo giorno di scuola, appena entrato in classe, facesse il seguente discorso: «Buongiorno, poveri disgraziati. Ancora non sapete in quale guaio vi siete cacciati. Certo, non è colpa vostra ma dei vostri genitori. Dopo essere stati svezzati siete stati mandati qui per assorbire nozioni in maniera assolutamente acritica. Dopo i primi elementi della lingua e della matematica, cominceranno a condizionarvi facendovi studiare una Storia in gran parte falsa, con “fatti” che, se veri, sono presentati in maniera del tutto tendenziosa. Come la Storia nel secolo precedente, ad esempio.  La prima guerra mondiale: un inutile massacro, da mettersi a piangere ogni volta che ci si pensa, ma vi parleranno di Patriottismo, Eroismo… La seconda guerra mondiale? Certo, i “buoni” e i “cattivi” si vedevano chiaramente ma i buoni non erano così buoni come ci hanno voluto far credere.  I responsabili delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non sono mai stati processati da un tribunale come quello di Norimberga. Il presidente americano Truman e gli altri. Autentici criminali, pazzi. La volete sapere la verità? La guerra era già vinta dagli USA ma si era già in piena “guerra fredda” e gli americani hanno voluto bruciare i russi sul tempo, hanno fatto presto per dimostrare chi comandava, chi avrebbe comandato almeno in Occidente. Ma a voi questo non ve lo diranno. Perché questo basterebbe per mettere quasi sullo stesso piano, quanto ad atrocità e delitti contro l’umanità, l’America c la Germania nazista. Soprattutto vi insegneranno a stare fermi nei banchi, voi che avete un bisogno fisico di correre e giocare e stare alla’aria aperta. Invece no, vi hanno mandato qui a scuola per farvi terrorizzare con questa storia malefica dei voti, per mettervi in soggezione e uno contro l’altro, per farvi diventare ambiziosi, subdoli, asociali. Dei maestri e dei professori che incontrerete negli anni a seguire meglio non parlare. Saranno bravissimi a riempirvi la testa si cazzate. Io posso dirvi queste cose soltanto perché sono un personaggio di fantasia partorito da uno che se ne sta da solo in agosto e scrive innanzitutto per non morire di nevrosi. Certo, non voglio essere del tutto pessimista: a dispetto di tutto, imparerete un sacco di cose che vi interessano e sarete relativamente felici. In fondo questo è uno sfogo. Forse andare a farsi una bella passeggiata o un giretto in Vespa sarebbe stato meglio, questo lo dico io personaggio all’autore. Però è vero che sarete ingannati molto. Vi faranno credere un sacco di bugie riguardanti la politica, la religione… Sarete condizionati e penserete ciò che vogliono i potenti di questo mondo. Anche le vostre ribellioni adolescenziali saranno programmate, perdonate, accettare per darvi l’illusione di quel quarto di luna romantico e rivoluzionario che a una certa età non si nega a nessuno. Poi vi sposerete, o conviverete, farete figli… poi la pensione e infine una bella tomba tutta per voi dove finalmente vi lasceranno in pace. Bel programmino, vero? E questo è solo l’inizio. La prima elementare. Il primo tratto di un percorso da incubo. Del resto siete capitati in un pianeta mediano, cioè un pianeta collocato esattamente tra i pianeti superiori come il Brahmaloka paradisiaco (dimora dei Deva e del dio creatore), e quelli infernali dominati dagli asura, cioè dai diavoli. Tanto peggiore questo luogo perché si trova in quella fase che gli antichi testi sacri (i Veda, i Purana…) chiamano periodo del Kali-Yuga, l’età della dissoluzione, del crollo, dominato cioè da Kali, La Distruttrice. Voi non potete fare altro, per salvarvi, che prendere coscienza di tutto ciò. Ma pochi saranno quelli che svilupperanno una coscienza critica. Gli altri andranno in massa da una porte o dall’altra, si divideranno, si faranno la guerra perché i potenti di questo mondo vogliono che vi ammazzate tra di voi senza conoscere il vero nemico. Comunque adesso basta, bambini. Vi ho già detto troppo. Cominciate a studiare le lettere dell’alfabeto. Ecco, questa è la prima lettera dell’alfabeto italiano, la lettera A: la vedere che bella letterona di plastica? Ecco, con questa lettera si forma la parola Amore, l’unica che in fondo conta e che può salvarci davvero».

 

I bambini della piscina condominiale. Musica per le mie orecchie. Finisco di scrivere il brano precedente e li sento. Meno male che c’è l’altra faccia di ogni cosa, sennò uno si ammazzerebbe subito. Ora che ci penso, potrei fare come quegli scrittori che venivano pubblicati da Adelphi negli anni Ottanta. Parlavano soltanto della negatività della vita, ogni pagina era deprimente, triste, e non lasciava speranza. Infatti quegli scrittori parlavano continuamente di suicidio, però non si suicidavano mai. Pubblicavano con la casa più snob e importante dell’epoca, guadagnavano un bel po’ di soldi e magari scopavano pure.

 

 

 

 

10 agosto 2024

Oggi una folle oceanica sotto casa mia. Gridavano: «Evviva il Re del bosco! Evviva la piccola dea!». Io mi sono affacciato al balcone e ho gridato: «È giunta l’ora delle decisione irrevocabili… Va bene, continuerò a scrivere il Diario, che sarà il diario di uno scrittore, ma non dimenticherò la faccenda del teatro del duello e della villetta abusiva. Tornate a casa, amici». A proposito del teatro e dell’abuso edilizio, voglio riportare un articolo dal sito www.edilportare.com. Titolo: Abusi edilizi, la demolizione è sempre legittima anche dopo molti anni. Sottotitolo: Consiglio di stato: per l’abbattimento non sono necessarie motivazioni né il proprietario può chiedere che la sua situazione sia tutelata. Segue il testo: Anche a distanza di molti anni, il Comune può ordinare la demolizione di un abuso edilizio senza dover dare alcuna spiegazione. Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 8501/2020. I giudici si sono pronunciati sul ricorso contro il provvedimento di annullamento del permesso di costruire e la contestuale ingiunzione di demolizione delle opere abusive. Sull’area, nel 1954 era stato apposto un vincolo paesistico. Il proprietario aveva quindi presentato richiesto il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica, ottenendole nel 1964. Dalle foto storiche era però emerso che i lavori erano iniziati già nel 1956. Ulteriori indagini avevano anche accertato che il progetto assentito non prevedeva la costruzione del livello interrato. Nel 2018 il Comune ha quindi annullato d’ufficio il permesso di costruire ed emesso contestualmente un ordine di demolizione, ma il proprietario ha lamentato che non ci fossero delle ragioni di pubblica utilità che motivassero la demolizione a distanza di molti anni. I giudici del Consiglio di Stato hanno confermato l’ordine di demolizione spiegando che “la demolizione di un immobile abusivo non richiede una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongono la rimozione dell’abuso anche laddove lo stesso sia adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’opera”. In materia di abusi edilizi, l’amministrazione pubblica, anche a distanza di tempo, ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato l’esistenza di opere abusive. Il proprietario, ha concluso il CdS, non può prospettare un legittimo affidamento, cioè non può dolersi dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione abbia emanato il provvedimento.

 

 

9 agosto 2024

Stamattina ho scritto cose soltanto rabbiose e tristi, rileggendo l’effetto era veramente deprimente e io non voglio deprimere i miei numerosi lettori (alcune migliaia, dicono gli ultimi rilevamenti, anche se un sito giornalistico cinese, citando fonti difficilmente verificabili, forse non troppo attendibili, dichiara un numero impressionante: uno, forse due milioni di lettori. Cifre che, in ogni caso, lo confesso, mi lusingano, mi commuovono, e mi incoraggiano a proseguire la stesura di questo Diario).

Perciò oggi pomeriggio, mettendo da parte gli scherzi, pubblico  le poesie di una nuova poetessa, assolutamente inedita: Matilde. Sono brevi, bellissime composizioni. Questi versi partono dall’anima e arrivano in cielo, chissà dove.

 

La foglia ti dà la sua mano,

gracile ma risoluta.

Le nervature scrivono il tuo destino,

contro luce, trasparente.

 

 

Vola sulle foglie

il vento inaspettato.

Forse arrivi tu.

 

 

La luce entra nel cunicolo

ed esce nell’infinito.

 

 

Una lacrima disegna una linea

che scorre nell’infinito.

 

 

 

 

 

8 agosto 2024

Ah l’infanzia, innocente territorio dove nessuno può tornare! Mi ricordo bene la scuola elementare dove i miei genitori mi hanno mandato. Suore vicentine. Ci facevano fare le recite di fine anno ambientate sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Noi maschietti indossavamo la divisa dei fanti, quelli che nella realtà si facevano massacrare al grido di «Savoia!», e infatti noi lo gridavamo convintissimi. Le bambine invece cantavano gli inni patriottici, del tipo: «E se non partissi anch’io sarebbe una viltà!».

Che stronzate. Ma c’è poco da scherzare. Un’educazione del genere ti fa crescere male e ti assicura gravi disagi psichici quando sei adulto. Io per un certo periodo della mia vita ho odiato gli austriaci e in un certo modo li odio ancora. Maledetti austriaci la pagherete cara, anche se non mi avete mai fatto niente di male. Me lo dice il cuore, qualcosa che è piantato nel centro del mio essere come una pianta velenosa e che niente e nessuno potrà estirpare.

Ma perché le suore ci impartivano lezioni di odio invece che di amore? E non lo sapevano che orrendo e insensato massacro era stato della prima Guerra Mondiale? Misteri della religione, cioè del cattolicesimo e per meglio dire del cattolicesimo veneto. Perché le suore sono sempre venete, non so per quale ragione.

 

 

 

Anni fa mi ritrovai a parlare, alla fine della presentazione di un libro,  con un gruppetto di persone a loro modo “originali”:  Valerio Morucci, Adriana Faranda, Giusva Fioravanti, tutti terroristi rossi e neri che avevano sulle spalle svariate condanne per omicidio. Il volume che era stato presentato riguardava la storia degli “anni di piombo”. Ad un certo punto provai una strana sensazione di disagio, d’imbarazzo, mi sentivo un intruso, uno che poi non aveva fatto nulla d’importante, perché mi rendevo conto che tra quelle persone, tutti miei coetanei, ero l’unico che non aveva mai ammazzato nessuno.

 

 

7 agosto 2024

Ma come sarà questa faccenda del mio cognome da ebreo? In famiglia, risalendo indietro di generazione in generazione, non salta fuori nulla di “ebraico” anzi: preti, suore… Mah, eppure durante la mia vita c’è sempre stato qualcuno che ad un certo punto mi domandava: «Sei ebreo?». E che ne sapevo io? Comunque rispondevo di no. Anche perché ero un poco intimorito, non si sa mai, il nazista sta sempre in agguato… Del resto in famiglia, soprattutto nei discorsi che mio nonno, commerciante di giocattoli, faceva al telefono con i suoi amici e colleghi, sentivo ogni tanto giudizi chiaramente antisemiti, non cattiverie, diciamo ingiurie “alla romanesca”, quasi bonarie… E questa è una cosa che nemmeno Woody Allen avrebbe potuto immaginare. Nascere in una famiglia di ebrei antisemiti!

Pensandoci bene: chi può saperlo davvero se sono ebreo o no? Potrebbe essere capitato il caso di un ebreo mio antenato che, mettiamo duecento anni fa, decide di sposare una cristiana (una gentile) e chiude perciò qualsiasi relazione con la comunità ebraica: quando un ebreo compie  un passo del genere, ne viene escluso automaticamente. Perché questo lo sapete, vero? Se un ebreo sposa una cristiana, con gli ebrei ha chiuso. Il figlio di quella coppia non saprà nulla dell’ebraismo del padre, e figuriamoci il figlio del figlio e così via. È chiaro che in due o tre generazioni quei Varese non avranno più nulla a che vedere con l’ebraismo. Si sposeranno in chiesa e non si metteranno certo a spendere soldi per ricerche genealogiche che, ancora adesso, se sono vere costano moltissimo. (Lasciamo stare perciò le false agenzie di ricerca genealogica che, per guadagnare un po’ di soldi, ti trovano la discendenza “nobile”. E che non ce l’ho pure io lo stemma dei Varese? È bellissimo. C’è una torre con dei leoni, una cosa del genere, ora non mi ricordo dov’è finito il diploma con l’elenco di antenati gloriosissimi: cavalieri, contesse… Come no!

Peccato però, io me lo sentivo “dentro” di essere un ebreo, soprattutto da bambino, non facevo gli scambi di figurine dei calciatori ma prestavo la più rara, ad esempio quella di Taccola, l’attaccante della Roma, chiedendo poi di restituirla dopo un paio di settimane con l’aggiunta di almeno dieci o quindici figurine. Mi ricordo che perciò i ragazzini mi chiamavo strozzino. «Ah sì, Varese è uno strozzino? Allora la figurina di Taccola te la puoi anche dimenticare!» dicevo io.

E poi c’è un altro indizio. Ho saputo che al ghetto, qui a Roma, al centro culturale, ti fanno la ricerca genealogica molto accurata e gratis. Loro sono contenti di trovare un ebreo, uno qualsiasi, e te la fanno senza farti pagare un solo euro. Dunque, sapete com’è, approfittarne mi farebbe piacere. Uno risparmia e si ritrova in tasca le stesse monete di quando è uscito di casa, e non è poco. Non so se mi spiego…

A parte gli scherzi (che gli ebrei, notoriamente intelligenti, sono in grado di apprezzare, abituati a ironizzare loro stessi su certi “pregiudizi”), non è escluso che non abbia davvero sangue ebreo nelle vene. A me francamente non me ne frega un cazzo, non credo alle razze e nemmeno alle religioni tradizionali… Che poi, se sapessi di essere ebreo anche in piccolissima parte, io diventerei immediatamente ebreo ortodosso, cioè uno di quelli col cappelletto e le treccine, che secondo me qualche problema ce l’hanno, però sono sicuri di conoscere la Verità, che secondo loro è quella che sta nei testi scritti tramandati nei secoli, e così vivono beati, felici, senza la dolorosa coscienza critica che fa dubitare di tutto…

Ma è inutile che parli a voi, cristiani, gentili… Rabbi Varese vi saluta e vi dà appuntamento alla prossima pagina di diario.