Diario del re del bosco

13 settembre 2024

 

Conoscevo un ragazzo che abitava a Fidene, una vecchissima borgata romana, anzi un paesino che fino agli Sessanta era ancora isolato dalla città. Era una delle borgate più povere, e per molti aspetti tale è rimasta. Questo ragazzo veniva spesso a trovare un suo amico che abitava al Nuovo Salario, dove stavo anche io. Ci scambiavamo saluti e un po’ di chiacchiere. Poi scomparve per un paio d’anni. Mi dissero che si era trasferito altrove, al Nord e che di lui non si sapeva molto: aveva trovato lavoro, si era sposato e aveva avuto figli. Dopo qualche tempo lo incontrai per caso, qui a Roma, ci salutammo amichevolmente e subito gli domandai che fine avesse fatto. Mi disse che faceva il poliziotto, dopo aver vinto il concorso lo avevano subito mandato a Padova, al Reparto Celere.

«Ah, sei un celerino!» esclamai io allegramente, «uno del famoso Reparto Celere!».

«Eh sì» rispose lui. «Vedi, io sono contento adesso. Ho potuto sposarmi, avere una famiglia, e il lavoro non è poi così duro come si immagina. Ci chiamano per le manifestazioni, per il servizio d’ordine. Di solito non succede niente. Stiamo lì e questo basta. Soltanto con gli studenti dobbiamo usare le maniere forti, certe volte».

«Capisco…».

«Loro interrompono le strade, gridano insulti, lanciano sassi e fanno anche di peggio. Non come negli anni Settanta, è chiaro, però qualche auto danneggiata, i cassonetti dell’immondizia bruciati… Cose da poco, però noi dobbiamo intervenire. E allora qualche manganellata ci scappa. A me dispiace, ma che devo fare, è il mio lavoro».

«Ma certo che non ti devi dispiacere» dissi io, «anzi devi essere contento. Ti spiego perché. Gli studenti, come ormai è abitudine da decenni, devono vivere il loro periodo “rivoluzionario”, diciamo dell’impegno politico. È una questione di crescita personale. Sarebbe strano se non lo facessero. Allora vanno alla manifestazione e tu gli dai la manganellata, non troppo forte, per carità, ma che provoca una piccola contusione, un taglio sulla testa. Lo studente, di solito di famiglia borghese, torna nella sua elegante abitazione e mostra le ferite ai genitori, che in gioventù hanno fatto esattamente la stessa cosa. (Escludiamo però da questo discorso gli idealisti e violenti che si sono spinti molto oltre nel periodo più cupo dei cosiddetti “anni di piombo”). Allora viene curato amorosamente e con un certo orgoglio dalla madre. A cena il padre racconta al figlio di certe manifestazioni alle quali ha partecipato quando era ragazzo, le occupazioni delle scuole eccetera. La cena si svolge in un clima sereno e affettuoso. verso. Tutti sono contenti e rilassati, soprattutto l’eroe con la benda sulla fronte.

Tu, dopo il lavoro, torni a casa, che certamente non è la bella casa dello studente, comunque dignitosa. Ti aspettano tua moglie e tuo figlio piccolo. Sei un po’ stanco ma contento. Cenate anche voi in un clima sereno e tu eviti di raccontare delle manganellate perché ti dà un po’ fastidio. Però dimentichi presto tutta la faccenda. Terminata la cena, si va a letto. Insieme a tua moglie mettete a dormire il bambino e poi fate l’amore. Chi più felice di te?

Alla fine, vedi, tutti sono rimasti contenti. Le tue manganellate hanno contribuito alla crescita dello studente, lo hanno fatto diventare un poco più adulto, maturo. Ha sfidato il Potere, ha dato prova di coraggio. Il padre e la madre sono rimasti soddisfatti anche loro per il carattere deciso e combattivo del loro ragazzo e hanno anche avuto l’occasione di tornare per un momento alla loro gioventù, a Lotta Continua, al femminismo eccetera. Tu hai fatto il tuo lavoro, hai guadagnato onestamente quello stipendio che ti permettere di vivere onestamente, di avere una famiglia e una casa, dove vivi piacevolmente.

Perciò, vedi, puoi cancellare tranquillamente i tuoi sensi di colpa. Le tue manganellate hanno fatto del bene, hanno messo in moto un meccanismo che ha prodotto cose belle. Certo, devi andarci piano, calibrando la forza del colpo, mi raccomando!».

Il simpatico celerino mi ringraziò. Ci abbracciamo, con l’augurio di rivederci presto.

 

12 settembre 2024

 

Per aiutare i miei lettori a risparmiare tempo e fatica, inserisco in una sola frase la ricerca del tempo perduto di una persona che ricorda tutta la sua vita stando nel suo letto di malato, dilungandosi per pagine e pagine, dicendo cose bellissime e altre noiosissime, l’omicidio in Russia di un padre dissoluto che ha quattro figli ma non si capisce bene chi l’ha ammazzato, pare sia quello che afferma «Se non c’è Dio, tutto è possibile», invece è il figlio illegittimo suggestionato da tali idee nichiliste, l’estenuante caccia in mare a una enigmatica balena di colore bianco che rappresenta un sacco di cose, forse troppe, le vicende di un pazzo che si crede un cavaliere errante, il resoconto in versi di un viaggio immaginario di uno di Firenze che immagina di risalire dall’Inferno al Paradiso, la tragica vicenda di una moglie russa, precisamente di Mosca, bella e inquieta, che tradisce il marito e poi si butta sotto un treno… e potrei continuare con altre storie narrate in famosi interminabili romanzoni, certo capolavori, che molti dicono di avere letto ma non è vero, però tengono quei libri sugli scaffali in salotto per vantarsi di essere persone colte e soprattutto perché quei volumi fanno arredamento.

 

 

Stamattina raccontavo a Teresa del giudice Amato, di come sia stato lasciato colpevolmente solo dalle istituzioni. Era onesto e coraggioso, a differenza di tanti altri.

Infatti non aveva la scorta, è chiaro, no? E che se la merita la scorta uno che conduce le indagini sui più pericolosi gruppi della destra estremista, veri e propri killer? Certo che no. Perciò il giudice, quella mattina del 23 giugno del 1980, se ne stava lì ad aspettare l’autobus 391 per andare a piazzale Clodio, al suo ufficio. Gli spararono da dietro, ovviamente, quei pazzi e vigliacchi, alla nuca.

Un fotografo, il primo che giunse sul luogo, scattò alcune fotografie: in una si vedeva una scarpa con un buco nella suola. È qualcosa di significativo. Perché me lo immagino il tipo: la moglie gli avrà detto mille volte: «Mario, non puoi andare in ufficio con le scarpe bucate. Andiamo a comprarle, che ci vuole?». «Va bene, domani, domani andiamo…» avrà risposto lui, distrattamente, con la testa tra le nuvole, cioè con la mente occupata dal lavoro, dalle inchieste, dalle cose da fare, dalle persone da interrogare. Volete che pensasse alle scarpe?

Ecco, a Teresa gli raccontavo del giudice Mario Amato e del perché vado a innaffiare la piantina sotto il monumento a viale Jonio. Le dicevo di lui e delle tante menzogne e ingiustizie e violenze che ci stanno intorno, e alla fine ho detto: «Ecco, invece di scrivere il Diario sul giudice ho raccontato di lui a te, non è la stessa cosa?».

Almeno un accenno, qui, lo dovevo fare. Non si può pensare sempre alle faccende tristi e dolorose, d’accordo, altrimenti soffriamo troppo. Giusto scherzare e alternare il serio e il ridicolo, il bello al volgare, come faccio in questo mio Diario. Però non possiamo dimenticarlo, il giudice, e dobbiamo agire e pensare come ci insegna la Bhagavad Gita: essere presenti, combattere, non rinunciare alla propria libertà, ma senza provare dolore, come se fossimo più in alto di noi stessi, per vedere come siamo capaci di affrontare ciò che dobbiamo affrontare, con distacco, senza pensare a vincere o perdere, quasi fosse un modo per sperimentare, per  conoscere, come fossimo un’altra persona da quella che agisce, come fosse un gioco…

 

 

 

11 settembre 2024

 

Ti viene la depressione: vai su Facebook, migliaia di poeti. Tutti uguali, cioè di un valore inestinguibile. Potrebbero essere tutti grandi poeti, e chi può dirlo? Eppure conosco un poeta che è capace di farsi distinguere con molta facilità:

 

 

Senti un po’, gatto dell’antico

Egitto, l’Egitto antico è finito

da un pezzo e tu non sei un’icona e io

la tua nicchia: qui nessuno è più dio:

 

tutt’e due scalpicciamo sulla terra,

tu con quattro zampette nuova di zecca

e io con due, lunghe stecchite e stanche:

ma che cipiglio, che possa trionfante

 

con unghie e denti sulla mia mano

che fa da vittima o preda – un gabbiano

una rondine: bel colpo, per Bubasti!

per una in svezzamento a quattro pasti

 

 

(Gianfranco Palmery)

 

 

10 settembre 2024

 

Platone e Plotino erano due filosofi. Uno molto grasso, ciccione, l’altro magrolino. Come Stanno e Ollio. Il primo diceva che la realtà è un’illusione e l’altro che non è la nostra anima a stare nel corpo ma è il nostro corpo che sta nella grande anima universale. Giravano di qua e di là e si guadagnavano da vivere con le offerte delle persone che ascoltavano i loro discorsi nelle bettole, lungo la strada, nelle terme. La gente li vedeva arrivare e diceva «Ah, eccoli lì, i due filosofi, quello obeso e quello secco secco. Bella la vita, eh? Invece di lavorare, ve la cavate con qualche parolina saggia, qualche riflessione buttata là, dopo pranzo o cena, bevendo il vino insieme agli altri. Ammazza oh, che paraculi!».

(Bibliografia. Per Platone: Apologia di Socrate, Critone, Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Protagora, Gorgia. Per Plotino: Enneadi).

 

 

Ancora caldo in questa interminabile estate. I bambini dei vicini di casa sono tornati, tra poco aprirà la scuola elementare qui vicino e, almeno per cinque mattine alla settimana, la quiete di questo luogo verrà spezzata. Si sentirà il vociare dei ragazzini all’ora di ricreazione, all’ingresso e all’uscita dalle lezioni.

Cosa avranno poi da gridare, poverini. Non sanno cosa li aspetta? Invecchieranno, moriranno.

Per abituarmi alla morte come gli asceti nei campi crematori di Varanasi, la città sulle rive del Gange, qualche giorno fa sono andato a vedere un cadavere in una clinica privata. È stato un caso. Io stavo facendo la mia solita passeggiatina verso Val Melania partendo da qui, cioè da piazzale Adriatico,  ed ero abbastanza di buon umore, non pensavo alla morte manco per niente, anzi era appena passata una bella ragazza e io ho pensato come sarebbe stato bello almeno passeggiare con lei, per tacere del resto. Ma passando accanto al cancello di una clinica privata ho visto un cartello appeso: «Camera mortuaria». Il cancello era aperto. La camera mortuaria era lì a due passi. Allora mi è venuta l’idea di entrare e vedere un morto.

Senza farmi vedere, con circospezione, ho aperto il porticino e sono entrato in un ambiente climatizzato. Si stava bene, sapete, con il caldo che c’è stato questa estate era una fortuna trovare inaspettatamente un po’ di fresco. Nella prima stanza non c’era nessuno, solo un tavolaccio. Allora sono entrato nella seconda stanza ma ancora non c’era ombra di persona viva o morta. Nella terza finalmente ho trovato un corpo ricoperto da un lenzuolo, povera cosa messa in un angolo, mucchietto di ossa che sporgevano dal lenzuolo. Era un corpo piccolo, di una persona anziana, ho pensato. I vecchi li portano qui a morire, molto spesso. Non c’era una candela accesa, un fiore, non c’era niente. Ho alzato il lenzuolo: era una donna molto anziana, una ex giovane, una ex bambina, una ex neonata.

Io mi sono fermato a pregare a modo mio.

 

 

 

Mi chiedo che cosa penseranno quelli che, a Capodanno di quest’anno, hanno augurato Buon Anno a coloro che poi sono morti, per improvvise malattie, incidenti stradali eccetera. Io direi di usare maggiore cautela, al prossimo Capodanno 2025. Suggerisco sì di festeggiare, ballare e fare le solite minchiate, però quando arriva mezzanotte sarà meglio dire, mentre si brinda con l’amico del cuore «Ti auguro tante cose belle, anche perché te le meriti. Però c’è l’eventualità che potresti morire. Non vorrei portare sfiga con questo mio augurio. Se morirai, i tuoi amici non devono prendersela con me. Io la buona volontà ce l’ho messa, sono stato sincero. Spero che tu non muoia, davvero, e che quest’anno sia migliore dell’anno precedente che, con molta probabilità, è stato un anno di merda. La nostra vita, tu lo sai, è in mano a Dio, agli Dei, al Caso, al Fato, e chi lo sa? Basta un attimo e sei fregato. Però la morte non è detto che sia una sciagura, e forse non è nemmeno la fine della vita ma soltanto l’interruzione di un viaggio che continua altrove. Invece di fare auguri sconsiderati e superficiali, cura la tua anima. Pensa meglio di come solitamente pensi, svuota la tua testa dall’immondizia che entra dentro in continuazione e riempila invece di pensieri come fiori. Non odiare il tuo prossimo, non dico di amarlo ma cerca di sopportarlo. Fai entrare la luce in te, ma dov’è questa luce? Soprattutto nell’amore, ecco dov’è, imbecille. Fai i tuoi brindisi, festeggia, spara quel cazzo di petardi che fanno spaventare i cani e gli uccellini, ma poi torna a casa e non pensare solo alle porcate del sesso. Fai astinenza la notte di capodanno, inizia il nuovo anno con un atto di meditazione e raccoglimento e rinuncia ai piaceri. Ti farà bene, vedrai. E pensa alle persone che non ci sono più, a quelle che hai amato e che prima o poi raggiungerai. Forse ti stanno aspettando, non lo sai? Riesci a immaginare la felicità del ritrovarli se tutto ciò è vero? Sarebbe una felicità immensa, che durerebbe in eterno… Dunque ti auguro di non crepare improvvisamente e di vivere con maggiore consapevolezza. Allora Buon Anno, carissimo, tanti auguri e speriamo di ritrovarci qui… Altrimenti, pazienza… Ma prendila con calma questa faccenda della morte, e non voltare lo sguardo se passa un funerale. Ricordi quel celebre verso di John Donne? “…And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee”. (“E allora non chiedere mai per chi suona la campana. Suona anche per te”)

Ciao, arrivederci al prossimo Capodanno (se non moriremo).

 

 

 

9 settembre 2024

Se costeggiate il grande centro commerciale di Porta di Roma, uscendo dalla città, verso il Grande Raccordo, vedrete due costruzioni molto simili nello stile architettonico: una chiesa (quella della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni) e la palazzina dell’Agenzia delle Entrare. Lo stile tradisce le intenzioni. Tutte e due servono a far entrare soldi in cassa.

 

Dunque Esiodo e Archiloco sono i soli poeti dell’umanità che hanno affermato di aver incontrato fisicamente le Muse. Il primo le incontra mentre svolge il suo mestiere di pastore, sta pascolando il gregge. (Lo racconta lui stesso in Teogonia). Prima lo prendono in giro, dicendo che i pastori sono rozzi e ignoranti. Ma a lui, non si sa per quale precisa ragione, offrono un bellissimo ramo d’alloro fiorito e gli insegnano il “canto”, cioè lo proclamano poeta. Erano donne giovane e belle, ovviamente.

L’altro, Archiloco (secondo l’epigrafe di Paro), stava portando una sua mucca, di mattina molto presto, al mercato vicino al suo paese (iscrizione murale di Paro)  ma incontra un gruppetto di ragazze, anche queste molto carine. Lui dice cose maliziose e quelle non si offendono, rispondono a tono, scherzosamente e poi gli chiedono cosa deve fare con quella mucca a quell’ora. Per venderla al mercato, risponde. Allora gli dicono che vogliono comprala e che la pagheranno bene. A questo punto spariscono, lasciando sul terreno una lira, lo strumento a corde che serviva nell’antichità greca e latina ad accompagnare i versi dei poeti.

Che storie meravigliose. Strano, poi nessun poeta ha avuto il coraggio, la sfacciataggine di rivelare un incontro del genere. Tutti a parlare delle Muse ispiratrici, per secoli, però sempre nascoste e irraggiungibili, non vere donne che ti parlano, reali, anche se divine.

Forse qualcuno le ha incontrate, ma non l’ha detto per non essere portato al manicomio.

Io sarei la persona giusta per avere questo privilegio, non sono un mediocre verseggiatore, lo si può facilmente verificare leggendo le prime pagine del mio libro, La piccola dea, che ho offerto in lettura su questo sito. Pura poesia in prosa e in versi che trova posto tra ironie, arguzie e invettive.

Sì, è vero, sono troppo modesto, però io non ho detto di essere il solo a meritare la visita delle Muse dopo Esiodo e Archiloco. Ce ne saranno anche altri di meritevoli, attualmente, anche se non sono di mia conoscenza.

Dunque, belle meravigliose divine Muse, cosa aspettate? Sono qui, in questa casa, vicino a piazzale Adriatico!

 

 

 

8 settembre 2024

 

Se in me

 

potesse entrare di straforo

la chioma sua

di certo si trasmuterebbe

la tinta del mio sangue in quella

d’oro

 

 

 

Le rondini

 

in deliziose cappe di raso nero

dattilografavano il risveglio

dettato dall’aurora

 

 

Grande delizia

 

osservare quel treno sbuffante

salire i gradini traversini

raggiungere la bocca del tunnel

che se lo succhia come liquerizia

 

 

Dalla superba

 

chioma dell’acacia

ravviata dal pettine del vento

graziosamente sfuggivano

riccioli di passeri cantori

 

 

Stazione

 

vidi la tettoia arcuata

quale bocca di gitana

allontanare un sigaro fumante

di treno in partenza

riaccostando alle labbra

il diretto in arrivo

finché sputò lontano

l’ultimo mozzicone

di in vagone merci

 

 

(Farfa)

 

 

Una poesia di Sandro Penna:

 

                 L’insonnia delle rondini. L’amico
                 quieto a salutarmi alla stazione.

 

L’inquietudine, annunciata perentoriamente, si placa con l’apparizione improvvisa di una figura umana che, all’inizio del verso seguente, accompagnata da un semplice aggettivo, ristabilisce calma, equilibrio.
Eccola qui la “scuola di scrittura”. Una breve lezione di poesia. E pure gratis.

7 settembre 2024

Dunque ieri sera sono andato a innaffiare i fiori per Mohammed Hossein Naghadi, l’uomo iraniano che fu ucciso a piazza Elba perché oppositore della dittatura di  Khomeini. I fiori erano già stati innaffiati. Allora ho aggiunto soltanto un poco di acqua. Mai che la incontri la persona che non conosco e che condivide con me questo impegno. Arriva sempre prima o dopo.

Allora sono tornato verso casa. Nei giardini di piazzale Adriatico i bambini giocavano.  Finalmente sono tornati dalle vacanze. Mi sono rammaricato, come mi capita ogni tanto, di non avere figli. Poi però, ogni volta che mi faccio prendere dalla tristezza per questa ragione, penso alle storie che sento raccontare dai miei amici sui loro figli e allora mi consolo. Vengo a sapere di tutto: depressioni, tentativi di suicidio, ricoveri in ospedali psichiatrici, odio verso i genitori, tossicomania, eccetera eccetera. Allora mi dico che è stato meglio così. Del resto sarei stato un padre problematico, o troppo severo o troppo indulgente, insofferente alle regole della famiglia, capriccioso, apprensivo… Meglio allora la mia strana pattuglia di figli che non sono veri figli ma che sono diventati una specie di figli.

Leone, il primo accolto in casa. Grandi occhioni melanconici. Si chiama Leone perché è un leone, un vero leone della foresta, anche se di peluche. Qui, chi si sveglia prima mette Leone vicino alle tazze della colazione per augurare il buongiorno all’altro. A forza di coccolarlo scherzosamente, parlarci, metterlo sugli scaffali della libreria, in cucina, in bagno, dappertutto, a forza di trattarlo come un bambino è diventato a suo modo un bambino, anche se molto diverso. Se andiamo in campagna, lo portiamo in macchina, sul sedile di dietro.

Tutto ciò accade anche con gli altri: con Pecorella, innanzitutto. Incantevole agnellino di pezza che per sua fortuna non corre il pericolo di essere trucidato e mangiato dai brutali esseri umani. Ci sono grandi vantaggi a non esseri veri.

Poi c’è Carotino, che è il figlio di Carota. Carota era un pupazzetto che tenevamo con noi nella vecchia casa. Il sottoscritto, mettendo a posto la cucina, lo gettò nel secchio dei rifiuti. Fu una grande perdita perché Carota era stato investito di tale tenerezza che… Succede con questi pupazzi: l’anima sta in tutti gli esseri viventi ma un substrato psichico ammanta le cose materiali, soprattutto quelle che rimangono a contatto con gli essere umani (almeno con quelli che l’anima ce l’hanno ancora). Carota stava al centro dei nostri discorsi, lo tenevano fisso sul tavolo in soggiorno, dunque assisteva alle conversazioni mie e di Teresa e dei (rari) ospiti durante pranzi e cene. Lui rimaneva sempre silenzioso, e perciò dimostrava di essere d’accordo. Io adoro questo atteggiamento nei miei interlocutori. E questi nostri figli hanno tante di quelle qualità… Ad esempio, non chiedono soldi. Perché si sa che i figli quando sono piccoli sono degli angioletti, e però quando arrivano all’adolescenza sono insopportabili, spesso. A parte le preoccupazioni continue che danno, ma praticamente quando vedono il genitore gli chiedono soldi e basta, se ne vanno. E Carota non chiedeva mai soldi. Purtroppo sparì e fu un grave colpo per me e Teresa. Cioè, non esageriamo, però veramente ci dispiacque. Poi, imprevedibile fortuna. Un giorno, nei pressi della Stazione Termini, entrai in uno dei tanti negozietti gestiti da immigrati, pieni di vestiti a basso costo, souvenir, cianfrusaglie di ogni genere. Proprio lì, il fatidico incontro. Era un portachiavi. Attaccato c’era un pupazzetto piccolissimo, non so quale specie animale avessero voluto imitare i fabbricanti, fatto sta che aveva una faccetta carinissima e assomigliava un poco a Carota! Incredibile! Era il figlio di Carota, cioè Carotino! Comprai dunque il portachiavi, staccai Carotino dalla catenina che lo legava e telefonai subito a Teresa per annunciare il nuovo arrivo.

Forse colui che col tempo ha acquisito davvero una specie di anima si chiama Cavallino. Un piccolo cavallo azzurro, il colore di Krishna. Infatti adesso è sull’altarino dedicato a Buddha, con candeline sempre accese  e l’incenso eccetera. (In giro per casa abbiamo le immagini di varie divinità (o Deva, usando la parola in sanscrito dei testi induisti), poiché crediamo nell’unicità di Dio e nella verità parziale di ogni religione poiché in sostanza diversi sono i percorsi ma unica è la meta. Un po’ quello che diceva Ramakrishna, per intenderci. Come Cavallino sia stato capace di conquistare un simile onore proprio non saprei. Poi sono cose che avvengono tra me e Teresa, assurde e inverosimili e meravigliose, difficile spiegarle.

Gli altri sono i seguenti: Pecorino, che non è un montone ma una piccola pecora femmina. La sua compagna è Pecorina. Poi c’è Scimmietta (che dorme abbracciata al volume della Piccola Dea, sul letto di Teresa), Cavallina sarebbe la fidanzata di Cavallino, però non lo vede mai perché lui sta sempre sull’altare di Buddha… A seguire: Pappagallo, Nello (un asinello) e Scimmietto.

Una bella famiglia, insomma. La sera si dorme in pace, non bisogna accompagnarli a scuola, non irrompono in camera da letto in certi momenti molto privati, non piangono, non si fanno le canne oppure stupefacenti più “pesanti”, non si iscrivono a gruppi estremisti di destra o di sinistra, non diventano cattolici ferventi seguendo l’ottusità di certi gruppi come ad esempio Comunione e Liberazione, non hanno complessi di Edipo, non odiano perciò il padre, non litigano tra di loro fino allo scontro fisico, non diventano ultrà romanisti e peggio ancora laziali, non ti mettono in ansia perché tardano a rientrare la notte e soprattutto, come ho già detto, non chiedono continuamente soldi.

A Natale li portiamo sulle Dolomiti, tutti quanti. Sul sedile di dietro della mia macchina ci stanno. E io dirò: «Ecco, fate i bravi, mi raccomando. E tu Carotino non pretendere di avere sempre ragione!». E Teresa: «Ha preso da papà…».

 

 

Per caso, se un mattino all’alba

puoi figurarti il cielo a scala

tutto abitato da sapienti mondi,

e nel giardino udire piante

che riflettono o pietre sul sentiero

intelligenti o spiriti che insegnano

nell’aula di una selva, allora

làsciati pur prendere per pazzo e

gètta giù i tuoi libri dalla rupe.

 

(Gian Piero Bona)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 settembre 2024

Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, scrisse Ludwig Wittgenstein nel suo celebre saggio intitolato Tractatus Logico-Philosophicus. Dunque non si può parlare di niente, o quasi. Mi sembra giusto, perché in effetti non c’è cosa al mondo che si possa conoscere veramente. Tanto meno si può facilmente polemizzare, accusare, inveire. Io me ne rendo conto, però lo faccio innanzitutto per sfogarmi e soprattutto per divertirmi. E poi, come è possibile vivere accettando che tutto sia uguale a tutto, senza alcuna distinzione?

Per quanto riguarda la letteratura, che è stato e forse in una certa misura è ancora il mio mondo, penso che esprimere un giudizio fondato e convincente sia davvero difficile, forse impossibile.

Tutti sono diventati scrittori, poeti. Non c’è sostanziale differenza tra scrittori veri, riconosciuti tali dalla critica, che pubblicano in case editrici prestigiose e gli altri, i dilettanti, i cattivi scrittori e poeti. Con l’avvento di internet ogni differenza di potere e di qualità è stata annientata. Chi ha uno sguardo lucido può verificare facilmente che abita a Bari, per dire una persona che vive in provincia, che pubblica i suoi versi in rete e in libri pubblicati a proprie spese, potrebbe benissimo far parte della celebre “collanina bianca” di poesia della casa editrice Einaudi, e viceversa il poeta apparso nella “collanina bianca” potrebbe mettere i suoi versi in Rete e pubblicare a proprie spese, e non ci sarebbe in tutto questo nulla di sbagliato, di assurdo e d’insignificante. Forse bisogna avere i contatti giusti. La stessa cosa per la pittura. L’autore di quadri che si possono definire opere dell’espressionismo astratto, che vive, mettiamo, non a Bari ma a Tor Bella Monica, estrema periferia di Roma, produce le medesime, identiche opere dell’espressionista astratto che vive al quartiere Greenwich Village di New York, solo che il primo non conosce nessuno e sta nella più profonda miseria in un’abitazione con camera da letto e cucina, mentre il secondo ha il suo studio open space, il suo gallerista, fa le mostre e vende quei quadri a un prezzo altissimo conducendo una bella vita.

 

Le scuole di scrittura. Una moda importata dall’America, venti o trenta anni fa. Ce ne sono a decine soltanto a Roma. Ma che si studia in quelle scuole, ancora non l’ho capito. Qualche trucco della narrativa e forse pure della poesia? Ma quelli si capiscono scrivendo, leggendo. Mi sembra una visione un po’ meccanica, professionale, per una letteratura alla portata di tutti e per tutti. Certo, io ho un’idea diversa della letteratura, della poesia. Non ce lo vedo Sandro Penna partecipare a un corso di scrittura come allievo quando era un ragazzo, e come dicente più tardi. «Nessuno mi può giudicare», diceva Caterina Caselli, che evidentemente aveva letto Ludwig Wittgenstein. Ho un paio di amici che ricevono uno stipendio per “insegnare” a scrivere. Da loro ci andrei, forse, ma non ho voglia di spendere soldi, e preferisco rubare i trucchi quando li vedo. Ma per gli altri, devo dire di stare attenti a non abusare dell’ingenuità e dell’ignoranza di certe persone perché potrebbero incorrere nel reato di “circonvenzione di incapace” (articolo 643 del Codice Penale).

 

 

Ma perché oggi sto scrivendo queste cose? Sono noiose e anche un pochino tristi. Io devo scrivere questo Diario senza pensare a certe faccende. Lo scrivo per Teresa, per Cristina, per Angelo, per le migliaia, ma che dico centinaia e forse milioni di persone che da qui a poco lo leggeranno, non solo in questo piccolo pianeta ma nel pianeta della galassia più lontana, in una di quelle civiltà extraterrestri che certamente esistono in questo infinito universo, oppure per nessuno perché magari anche Teresa si stancherà di leggere. Non importa. Scrivo per me stesso. Se poi qualche anima gemella leggerà e condividerà ciò che scrivo, tanto meglio.

 

Ora esco, vado a innaffiare i fiori per l’eroe iraniano. Chissà, forse stasera incontrerò finalmente la persona misteriosa che le innaffia quasi ogni giorno ma che non ho mai conosciuto.

 

 

5 settembre 2024

Quando provai a mettere la testa a posto (molti anni fa, perché oramai ho rinunciato), mi presentai alla sede italiana di un’agenzia pubblicitaria multinazionale, la Saatchi&Saatchi, una delle più grandi o forse la più grande agenzia del mondo, era una mattina di giugno e già a Roma il sole splendeva forte, sembrava già piena estate e io ero vestito leggero ed elegantissimo, m’ero messo perfino la cravatta e avevo salutato mia madre sull’uscio notando la trepidazione sua nel vedermi finalmente deciso a cambiare strada, a lasciar stare quella vecchia per intraprendere la nuova dritta ben asfaltata strada di persona perbene e a posto, oh sì, come prima o poi lei pensava che avrei fatto, sposarmi, mettere su famiglia, quelle cose lì, lavorare otto ore al giorno e tornare a casa e trovare mogliettina adorante e marmocchi, e ritrovarmi così imprigionato in un piacevole sogno che però può essere anche un incubo, dipende dai casi, può anche finire in omicidio, droga sparata nelle vene in bagno per poter sopportare il televisore sempre acceso, i suddetti marmocchi, la suddetta mogliettina che uno finisce magari per odiare perché potrebbe essere sostanzialmente una gretta donna da quattro soldi… fatto sta che mia madre stava lì sull’uscio quella mattina a sperare ciò che tutto sommato sperano tutte le madri a meno che non siano madri icolte, intellettuali, “progressiste”, che so, quel tipo di donne che hanno superato certe impostazioni tradizionali della famiglia, e allora manco ci badano che i figli crescano bene, puliti, educati, macché, madri che se ne fregano della loro educazione, e dicono ai figli frasi come «tu sei libero, tu devi essere te stesso…», cose del genere, giustissime, in teoria, sapete, frasi che vengono dette da quelle donne lì, madri dal passato frikkettone, figlie dei fiori, “lotta continua”, un po’ svirgolate diciamo, donne meravigliose che però spesso si ritrovano con figli che sono più svirgolati di loro, e infatti da questo problema non se ne esce, o uno riceve una educazione rigida e pure sessuofobica veramente orribile e dannosa oppure peggio ancora ti ritrovi libero e solo e perduto mentre magari loro, le madri intellettuali e magari artiste, stanno in camera da letto a farsi le canne, non si scappa, è così, ne ho visti di casi del genere, e mai che uno cresca in una casa con madre e padre mentalmente equilibrati, macché, siamo tutti fregati, più o meno… poi certo esistono anche le persone fortunate ma secondo me sono una ristrettissima minoranza… ma tornando a quella mattina, avevo salutato la trepidante madre e mi ero avviato e mi ero presto seduto davanti a un cosiddetto direttore creativo, un tipo simpatico, che vide gli slogan pubblicitari che avevo preparato in un quadernetto come prova, mi aveva ascoltato un po’ ragionare intorno alla mia esistenza disastrata che intendevo assolutamente risanare e inquadrare e regolare e che poi mi aveva detto dopo un lungo silenzio: “Mi piaci! Vieni qui domattina!”.

Potete immaginare miei cari lettori la mia felicità uscendo dal palazzo dov’era la sede della famosissima agenzia Saatchi&Saatchi, proprio davanti a Castel Sant’Angelo, fondata e diretta dai due fratelli Saatchi, libanesi emigrati a Londra dove avevano avuto un clamoroso successo con la pubblicità diventando miliardari, e perciò quasi danzando per la strada tornai a casa e dissi a mia madre che finalmente avevo un lavoro, un vero lavoro, che mi avrebbe finalmente permesso di entrare o per meglio dire rientrare nel consorzio umano e non necessariamente per stare completamente nei ranghi sposandomi eccetera eccetera ma comunque ricominciando una vita decente, quella che fanno gli altri,  triste o felice che fosse.

Così il giorno dopo ero lì e iniziai ad occuparmi dei pannolini assorbenti, biancheria intima femminile (il prodotto da me preferito perché le foto di quei reggiseno e mutandine e calze eccetera mi facevano sognare), computer, telefonini, detersivi, insomma ogni sorta di merci che si doveva vendere ad ogni costo, anche facendo leva sui più bassi istinti e sulla stupidità degli esseri umani, sugli abietti sentimenti d’invidia sociale, d’ignobile rivalsa, di orrendo moralismo e perbenismo. L’automobile doveva essere venduta facendo leva sull’istinto della sopraffazione, tanto per fare un esempio, bisognava inventare uno spot che facesse vedere un bel giovane alla guida di una nuova fiammante automobile lungo una strada di città, e far vedere che la gente e soprattutto le donne e meglio ancora le bellissime donne si giravano a vedere la nuova automobile, cioè lui alla guida di quella automobile, e dunque non doveva essere troppo bello il ragazzo alla guida perché altrimenti si sarebbe pensato che le donne e soprattutto quelle bellissime si voltassero per vedere lui e invece dovevano vedere lui ma soltanto perché era alla guida di una macchina costosissima, cazzate in sostanza, che s’imparano in un momento, e però i colleghi dell’agenzia mi stavano lì a martellare con il fatto che il ragazzo doveva essere sì abbastanza carino ma con la faccia non troppo intelligente perché l’eventuale compratore della macchina doveva identificarsi con quello lì, il quasi carino e non troppo intelligente, e ancora meglio se avesse dato l’impressione di essere un perfetto imbecille, perché altrimenti l’eventuale compratore non avrebbe mai speso tanti soldi per un bene materiale immediatamente deperibile come un’automobile costosissima, non sarebbe stato così completamente fesso da spendere ad esempio 420.000 euro per la Rolls-Royce Cullinan Black Badge, una macchina enorme, impossibile da guidare nei centri cittadini, inutilmente accessoriata e divoratrice di benzina, se non fosse stato condizionato non sarebbe stato così completamente cretino da comprarsi quella macchina attraverso uno spot, eh no, il ragazzo alla guida doveva essere il ragazzo quasi carino e quasi deficiente della porta accanto che magari non capisce un cazzo di nulla e però capisce che per rimorchiare qualche mezza scema e soddisfarsi sessualmente e affettivamente e fare colpo anche sugli amici deve correre a comprarsi la nuova Rolls-Royce Cullinan Black Badge o un’altra automobile del genere.

Tutto ciò mi è tornato in mente l’altra sera  guardando in televisione lo spot di una nuova automobile, non mi ricordo la marca.

Me ne stavo in cucina a prepararmi gli spaghetti aglio e olio che sono il mio piatto preferito, veramente una cosa buona da preparare e che fa passare ogni tristezza, ogni dolore psicologico ed esistenziale, e però  bisogna saperli preparare perché altrimenti non serve a niente, ti ritrovi a mangiare una sbobba informe e allora è inutile, si ricade nei brutti pensieri, perciò bisogna conoscere bene l’arte di rosolare l’aglio, e cioè cuocere quel poco che basta i pezzetti di aglio a fiamma bassa e aspettare pazientemente che i pezzetti di aglio si colorino come devono colorarsi, piano piano di un rosa appena accennato, e a quel punto si mette il prezzemolo e lo si fa friggere un poco, ecco tutto, e poi quando gli spaghetti sono pronti (io preferisco i Barilla n°3, tanto per fare pubblicità gratuita, anche se in effetti la Barilla potrebbe pagarmi questa pubblicità che faccio, come del resto dovrebbe pagarmi la Piaggio per tutta la pubblicità che ho fatto per la Vespa nel corso di tutti questi anni e nel corso di tutti i miei libri scrivendo pagine e pagine sulle mie scorribande in giro per la città sia nella Piccola dea sia nel Re del Bosco ancora da riscrivere, ma lasciamo perdere) e insomma quando gli spaghetti sono pronti tu li devi gettare nel tegame dove hai preparato il condimento per cuocerli a fiamma bassa per pochi istanti, e così te li mangi e sei felice o abbastanza felice. Insomma me ne stavo lì in cucina a prepararmi gli spaghetti aglio e olio per reagire alla tristezza dell’esistenza ma anche per nutrirmi semplicemente quando voltai lo sguardo e vidi la faccia di uno che guidava un’automobile nuova fiammante in un spot televisivo.

Ora c’è da dire che la cosa che mi ha sorpreso veramente è stata l’evidente stupidità manifestata da quella volto. Perché era veramente stupido, direi orrendamente stupido, faceva quasi paura e allora mi è rivenuta in mente tutta la storia della pubblicità, dico la mia vicenda personale, quelle lunghe giornate di lavoro, di quel lavoro che effettivamente si poteva considerare “creativo” se per “creativo” s’intende far funzionare il cervello sperando che ne esca una buona idea o perlomeno un’idea decente, infatti io coi miei colleghi stavo lì, in uno stanzone a cercare di scrivere gli slogan pubblicitari che nel gergo pubblicitario si chiamano headlines e a scrivere soggetti e sceneggiature per gli spot televisivi. Era una vita dignitosa, senza alcun dubbio, anche se i rapporti tra colleghi non è che fossero idilliaci, anzi spesso erano brutti rapporti, gelosie, invidie di ogni genere, insomma tutto il campionario delle puttanate che gli esseri umani amano scambiarsi l’uno con l’altro appena si mettono in relazione e soprattutto quando si ritrovano in un ambiente di lavoro, e però mi alzavo presto la mattina, mi sbarbavo, facevo la doccia, salutavo mia madre sull’uscio di casa come avrei potuto salutare una moglie e in effetti mia madre era una specie di moglie a quei tempi, poi prendevo l’autobus convinto di essere diventato finalmente come gli altri, un uomo capace di guadagnarsi il pane quotidiano senza essere costretto ad andare in giro a chiedere soldi in prestito o a cavarmela con piccoli lavori marginali, uno dunque che sarebbe riuscito a cavarsela nella vita, a sfangarla come si dice, a vivere e dunque a morire come gli altri, a marcire in quegli uffici enormi, perché in fondo si marciva lì dentro, diciamo la verità, si doveva rimanere alla Saatchi&Saatchi per almeno otto ore al giorno occupando il proprio cervello e di conseguenza parte della propria anima con i problemi riguardanti pannolini assorbenti, lavastoviglie, telefonini, computer, merci di ogni genere che possono essere utili ma soprattutto servono a procurare soddisfazioni momentanee e piaceri passeggeri ma non hanno una relazione benefica con l’anima poiché la cosiddetta anima non ha alcun bisogno di essere lusingata e infiocchettata e rivestita elegantemente ma vuole librarsi su ogni cosa, vuole giocare con gli oggetti ma senza desiderio di proprietà, vuole essere libera di manifestarsi la sua natura, e soltanto nell’arte, nella vera arte essa trova la sua dimensione autentica perché l’anima cosiddetta si manifesta e trova se stessa in letteratura, pittura, musica, e non  nel surrogato ambiguo della pubblicità, che utilizza il bello e qualsiasi emozione per vendere merci. Nella pubblicità le anime dei cosiddetti creativi corrono il rischio di marcire, e ciò avviene assai spesso nel mondo del lavoro che diventa facilmente il mondo dell’alienazione, come diceva un mio vecchio amico che ha il cognome che finisce per X, dunque se uno vuol lavorare deve essere pronto a veder marcire almeno un pezzetto della propria anima, questo lo so adesso e però lo intuivo in quelle lunghe giornate trascorse alla Saatchi&Saatchi e che mi sono tornate alla mente voltando lo sguardo ed osservando stupito la faccia idiota di quell’attore che stava impersonando un idiota alla guida di un ultimo modello di una Mercedes o Fiat o Volkswagen, non ricordo quale azienda automobilistica fosse, non importa, importa soltanto che aveva la faccia ferocemente idiota quell’attore, ma talmente idiota e da deficiente che sono rimasto lì a rimuginare e infatti il mio aglio ha rischiato di bruciarsi.

Le cose evidentemente sono peggiorate dai miei tempi, pensai dunque gettando gli spaghetti Barilla n°3 nel tegame dove c’era il condimento e cioè l’aglio e il prezzemolo e l’olio e facendo allora cuocere gli spaghetti stessi per far prendere il sapore e cuocere ancora gli ingredienti, e peggiorate parecchio perché quella faccia voleva dire che i maghi della pubblicità avevano deciso che per identificarsi il consumatore ha bisogno ormai di vedere qualcuno che sia al suo stesso livello e questo livello adesso è chiaramente bassissimo perché la faccia da imbecille che avevo intravisto con sgomento poco prima, al momento cioè della cottura iniziale dell’aglio che aveva perciò rischiato di bruciarsi, era la faccia di uno che ormai è stato rovinato da decenni di consumismo sfrenato, di neocapitalismo, di vuoto interiore, di disperazione esistenziale, uno che non ha più nulla da chiedere alla sua vita, che ormai non può che comprarsi l’ultimo modello della Volkswagen, della Fiat o peggio ancora della Rolls-Royce Cullinan Black Badge, uno che perciò rappresenta efficacemente la tragedia umana ma innanzitutto la tragedia italiana, perché quella era senza dubbio una faccia italiana se pur imbecille, e perciò esprimeva desolazione, noia, disgusto di una situazione nella quale le persone in questa da me amatissima penisola sono costrette a vivere, senza più un briciolo di speranza, di gioia, di vera autentica gioia di vivere, e sarà la crisi economica, e sarà che i valori della famiglia e della religione e della convivenza civile sono caduti a pezzi senza essere sostituiti da nient’altro che da un colpevole e nocivo e perdente individualismo, e sarà che anche a livello politico ci si ritrova tutti ad assistere allo scontro il più delle volte finto e di maniera perché giocato ormai sul filo della polemica giornalistica tra una Destra che accoglie e mescola ipocritamente i fantasmi del consumismo sfrenato, della cultura televisiva schifosissima da Grande Fratello, della continua distruzione del territorio con i valori che dovrebbe difendere, i valori tradizionali, Dio Patria e Famiglia, e questa mescolanza ignobile è concepita per pura convenienza politica, i post-fascisti, i neoconservatori si non messi proprio con coloro che hanno distrutto quegli stessi valori, davvero ormai estinti, e dall’altra parte c’è una Sinistra ammaccata, impoverita, impotente, che ha perso la sua identità ideologica e che ora si ritrova a vivacchiare con i brandelli di questa defunta ideologia, un miscuglio abbastanza triste e inutile e deprimente di idee “politicamente corrette”, la parodia della democrazia, la parodia della difesa dei lavoratori, la parodia, la dignità delle minoranze eccetera, e questa è una cosa tristezza e disperante per tutti coloro che avvertono il disagio per questa mancanza di speranza e il vuoto psicologico e ideologico e anche politico ed è per questo motivo che quella faccia nello spot mi ha sgomentato tanto, così pensavo finendo di mangiare gli spaghetti, e d’un tratto ho compreso che mi ero tanto spaventato perché quella faccia esprimeva la mia disperazione, la mia desolazione. la mia stupidità, Io vedevo in quella faccia ciò che senza rendermene conto ero diventato. Ero io quell’imbecille.

4 settembre 2024

 

Si deve parlare di cose belle e vere, ma poco, per non averne sazietà, e renderle rare e preziose, costringere il lettore ad aspettarle o andarle a cercare tra le futilità, assurdità e vere e proprie brutture che si leggeranno spesso nel mio diario, anche perché in effetti nella vita reale ci assalgono da ogni lato ed è impossibile non parlarne.

Parlerò perciò di un’altra opera di quella mostra indelebilmente rimasta nella mia mente di cui ho già parlato, cioè quella dove c’era la fotografia  del garofano dentro il culo. Stavo lì, in mezzo alla piccola folla di abituali frequentatori di inaugurazioni di mostre d’arte (pittori, critici, amanti dell’arte contemporanea e sperimentale, sfaccendanti ricchi sfondati, eccetera), e dopo essere rimasto un poco turbato da quell’opera forse immortale, mi sposto di qualche passo e rimango fulminato da un’altra opera, questa volta una piccola scultura, davvero enigmatica. C’era un modellino del Colosseo con dentro una fica, ma non una fica vera ovviamente: una fica perfettamente riprodotta che comunque un certo stupore lo suscitava perché sembrava quasi vera, con le grandi e piccole labbra in rilievo, un clitoride piuttosto pronunciato, ma così ben formato e sporgente che veniva voglia di sfiorarlo, di stringerlo dolcemente tra pollice e indice… Stava lì, la fica, dentro il Colosseo, ma a farci cosa? Bisogna pensarci bene, formulare ipotesi.

Forse il Colosseo, stando al centro di Roma, sta al centro del mondo, come si dice da sempre? Mah. Teniamolo però presente. Se una fica sta dentro al Colosseo vuol dire che la fica suddetta è al centro del mondo, diciamo dell’universo. Roma caput mundi. E va bè. Mi sembra fin troppo chiaro a questo punto. Io però non mi accontentai e, dopo aver formulato la mia ipotesi, mi diressi verso l’autore dell’opera stessa che poi era un’autrice, una donna che conoscevo da anni, una bravissima pittrice che non sapevo si dedicasse alle fiche dentro i monumenti storici e cose del genere. La raggiunsi e le chiesi delucidazioni, premettendo che sapevo benissimo che è molto ingenuo chiedere all’artista il significato dell’opera. Lei, che non era solo una brava pittrice ma anche una persona gentile oltre che una bellissima donna, mi rispose con una certa fretta perché era circondata da varie persone che parlavano con lei «È un abisso». Così mi rispose. «Ah sì, un abisso» dissi a me stesso allontanandomi, un abisso, certo, come non averci pensato subito, che idiota.

Impressionante quanta gente fosse andata a vedere quella mostra. E tutta queste quelle persone, mi chiedo a distanza di anni, cosa avranno pensato di quelle opere e soprattutto delle due di cui ho parlato e cioè Il garofano dentro il buco del culo e La fica dentro il Colosseo? Ma forse non pensavano nulla, o poco. Stando lì accanto alla piccola scultura di gesso dipinta di rosso, notavo che la gente dava uno sguardo distratto e poi passava oltre. Pochissimi si fermavano ad osservare, a contemplare l’opera. Transitavano fregandosene altamente di quella sorca, bernarda, patonzola, fregna dentro il modellino del Colosseo. Sospetto che volessero quasi esclusivamente partecipare all’incontro mondano, salutare, abbracciarsi e baciarsi, sorseggiare lo spumantino… E in effetti, a chi potrebbe importare di quella scultura? Mica la comprarono e la esposero in salotto. È chiaro che era soltanto una provocazione, destinata a durare per il periodo della sua esposizione nella mostra per poi finire in qualche ripostiglio. Magari invece l’hanno comprato e chissà quanti soldi hanno speso, alla faccia mia, chissà.

Fatto sta che non dimenticherò mai né il garofano nel culo né la fica dentro il Colosseo.

 

3 settembre 2024

 

Basta incontrare un amico, al bar di Val Melaina, per passare in pochi minuti dai pensieri peggiori alla spensieratezza. Angelo. Lui sapeva già da tempo di questa storia delle piantine dell’iraniano e della persona misteriosa che le innaffia, alternandosi con me, e che io non ho mai conosciuto. E questa cosa va avanti da mesi.

Angelo mi provoca, dice che sotto sotto io immagino (spero) che si tratti di una ragazza bellissima, giovanissima. Scherzando, io protesto, nego con fermezza, però in effetti…

Chiaro che è una ragazza. Sui venticinque anni, diciamo, non di più.  Altezza: 1,65. Corpo molto formoso e un seno abbondante (almeno quarta misura di reggiseno). Non parliamo poi delle meravigliose gambe e degli occhi grandi, verdi e dei lunghi riccioli neri che scivolano sulle spalle… Ovviamente fa caldo e perciò lei indossa un vestito di tessuto leggero, quasi trasparante, cortissimo, con davanti due bretelline che reggono a malapena i voluminosi seni.

Non mi stupisce affatto che una ragazza del genere riveli una sensibilità tanto forte. Bisogna disdegnare i pregiudizi sulla bellezza delle donne, che tanti giudicano in contrasto con le qualità intellettuali. Tutti i giorni va lì a innaffiare le piantine dell’eroe iraniano, perché oltre che sensibile è dotata di un certo spessore morale che le fa amare le persone coraggiose, che sono capaci di sacrificare la propria vita in nome della libertà contro le dittature di ogni genere.

Certo, i suoi studi a Oxford in filologia romanza l’hanno anche educata alla disciplina necessaria per affrontare un tale impegno. La sua tesi di laurea sulle venti carte autografe di Petrarca conservate nel Codice Vaticano latino 1196, ha destato un grande interesse nella comunità internazionale dei filologi.

Come conosco tutto ciò? Be’, certo, un pochino d’immaginazione, lo ammetto, contribuisce a formare questo quadro, ma io intuisco che molto di ciò che dico corrisponde esattamente alla realtà. Ma certo, non può essere altrimenti! Poi voglio vedere la faccia di Angelo quando porterò la ragazza al bar di Val Melaina per fargliela conoscere!

 

Molto felice sono stato per le parole lusinghiere sul Diario che ha scritto Cristina, la moglie di Giovanni, il fratello della mia Teresa. Ho il privilegio di conoscere per nome tutti i miei lettori… pochi ma buonissimi!

 

Mi dispiace per Emanuele che ancora non si è fatto vivo, e per altri due amici… Se qualcosa non è di loro gradimento, che importa? Spero di vederli presto e di ridere insieme di tutte le cose che scriviamo, non dobbiamo prenderci troppo sul serio! Per me da oggi vale quello che disse il grande Henry Miller in Primavera nera: «Sempre felice e contento! È il mio motto».

 

Io non rileggo le pagine del Diario, voglio scrivere a ruota libera. Scrivo di mattina, poi rileggo nel pomeriggio e poi pubblicare sul sito. (Solo nel caso di quelle note su Proust e Hugo mi sono dovuto impegnare di più, ma erano questioni piuttosto complesse, ma avevo anche degli appunti di qualche tempo fa, che hanno agevolato il lavoro). Ma ricordo di essere stato molto polemico col premio Strega e soprattutto con i “colleghi” che girano attorno a quel premio, definendoli se ricordo bene “scrittori mediocri” o cosa del genere. Chiedo scusa, era agosto, sono stato cattivello, sicuramente tra loro ci sono persone di un certo valore, però qualche dubbio mi è venuto qualche giorno fa sfogliando un paio di libri della cinquina finalista del premio di quest’anno… Mah, che vi devo dire, ognuno ha i suoi gusti, si dice così, no? E magari ho beccato proprio i peggiori mentre gli altri tre sono autentici capolavori, possibilissimo. Come è possibile che la persona che va a innaffiare le piantine dell’iraniano sia una ragazza bellissime. Improbabile ma possibile, perché no?

 

E poi prendersela con il premio Strega è come sparare sulla Crove Rossa. Ma poi, perché ne parlo? Che fanno di male quelle persone? Si cerca di vendere qualche libro… Certo, Sandro Penna, per dirne una, al premio Strega non venne mai invitato. E se fosse in vita una specie di Arthur Rimbaud, pensate che lo inviterebbero? Certo lui non ci andrebbe, e se ci andasse combinerebbe un sacco di guai…

 

Gli scrittori, gli artisti di grande valore sono spesso emarginati. È qualcosa che è capitata tante volte. Lasciamo stare gli esempi soliti, Van Gogh, Dino Campana, ma io ho conosciuto personalmente dei grandi scrittori che avrebbero meritato di maggiori riconoscimenti o che sono stati totalmente ignorati dall’ambiente letterario: Margherita Guidacci, Giangranco Palmery, Marello Landi….

Ognuno vede le cose e le persone a modo suo, è vera questa considerazione banalissima. Ricordo quando portai un amico a trovare Marcello Landi, che pochi conoscono. Io lo vedevo come il poeta veggente, l’albatros di Baudelaire, deriso e umiliato, che inciampa nei tranelli della vita. La loro videro solo un pensionato delle poste con problemi mentali, un povero pazzo.

Chi aveva ragione, io o il mio amico?

 

 

2 settembre 2024

 

Entrai dove non so,

E rimasi non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Non sapevo dove entravo,

Però, come là mi vidi,

Senza vedere dove stavo,

Grandi cose io compresi.

Non dirò cosa sentivo,

Perché restai non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Di pace e pietà

Era sapienza perfetta,

In solitudine profonda

Vidi la via diritta:

Cosa tanto segreta

Che restai balbettando

Ogni scienza trascendendo.

Ero così meravigliato,

Così assorto ed estraniato,

Che la mia mente rimase

Completamente vuota;

Però fui dotato

Di un capire senza capire

Ogni scienza trascendendo.

Chi là giunge veramente

Di tutto si sente privato,

Quanto prima conosceva

Infima cosa gli sembra,

E più comprende questa scienza,

Più resta non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

A mano a mano che salivo,

Tanto meno io capivo:

Come se una nuvola oscura

Rischiarasse la notte.

Per questo chi l’ha veduta

Resta sempre non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

Questo sapere senza comprendere

Ha un così alto potere

Che i sapienti discutendo

Non lo possono analizzare,

Perché non arriva la loro sapienza

Ad intendere non intendendo

Ogni scienza trascendendo.

È talmente alta

Questa immensa conoscenza,

Che né facoltà né scienza

La possono affrontare.

Ma soltanto chi perde se stesso

Col non sapere sapendo

Ogni scienza trascendendo.

E se proprio lo volete sapere,

Questa grande sapienza

Consiste in un forte sentire

La divina essenza.

Ed è per questa pietosa essenza

Che si resta non sapendo

Ogni scienza trascendendo.

 

 

(San Giovanni della Croce. Traduzione di r.v.)

 

1 settembre 2024

 

Vogliamo continuare il discorso sulla stupidità umana iniziato ieri con la storia della statuina della Madonnina segregata dalle lamiere? E va bene, facciamo un altro esempio, anche perché alla fine rivelerò una sorprendente verità, che spiega tante cose altrimenti inspiegabili.

Gli esempi della stupidità umana sono infiniti, e non servirà certo per arginarla queste parole che scrivo. Ma bisogna dare testimonianza che esiste altro, che c’è qualcosa di diverso, di migliore, di bello e intelligente, o almeno di meno stupido.

Ad esempio, il pino ricurvo di piazzale delle Muse. Storia di almeno venti o trent’anni fa, ormai. Era lì da un bel po’ di tempo, quell’albero: prima dell’epoca in cui ci salivo sopra insieme agli altri bambini del quartiere, prima del Fascismo, prima della Prima Guerra Mondiale, prima di tanta altra Storia. Aveva almeno un paio di secoli, forse tre, quell’albero, che aveva la caratteristica di essere molto ricurvo, il grosso tronco era piegato, si alzava di poco dal terreno, e infatti il divertimento nostro era quello di salirci in punta di piedi per arrivare fino al primo ramo. Poi, credo negli anni Novanta del secolo scorso, fu deciso di costruire un parcheggio sotto il giardino del piazzale, tra i due vecchi bar, il Parnaso e le Casina delle Rose, che venne così totalmente stravolto. Scomparve, finito il bellissimo guardino. Costruirono il grande parcheggio in nome del Dio Automobile, e sopra le aiuole vennero ridisegnate (malissimo), e qualcuno fece quella cosa assurda, cioè venne segato, abbattuto lo storico pino. Io dico: come hanno fatto? Chi l’ha fatto? E gli abitanti del quartiere per quale motivo glielo hanno permesso? Ci scommetto che l’albero era sanissimo e non andava abbattuto. (Chiaro che per giustificare una tale schifezza avranno detto che era malato).

Ricordo questo obbrobrio perché ieri ci è venuto in mente a me e a Giulia, la barista del chiosco di piazzale Adriatico, vicino a dove abito. Giulia se lo ricorda benissimo il famoso pino marino ricurvo di piazzale delle Muse, perché abitava nei pressi. Mi ha detto una cosa sorprendente, a cui non avevo mai pensato. Parlando tra un caffè e l’altro, il discorso è caduto su alcune persone, nel mondo dell’informazione e della politica, che affermano cose platealmente false, sbagliate, assurde, e molto nocive per la popolazione. Le cose sono due, ho detto io: o sono cretini, oppure pagati. Certe volte tutte e due le cose insieme. Allora ho chiesto a Giulia: ma questi individui come fanno a campare con il peso della menzogna e dell’inganno? Non si vergognano davanti a chi conosce la verità su ciò che dicono? E come fanno a sopportare la loro miserevole condizione umana? Non hanno un briciolo di pudore, di rispetto di se stessi?

«La risposta è molto semplice» ha detto Giulia. «Non hanno l’anima. Perciò possono fare e dire qualsiasi cosa. Sono dei mostri».

Sono rimasto sorpreso. Perché è vero, è così. E guardate che potrei parlare di questioni molto precise, magari sulle quali si può discutere, si possono avere opinioni diverse: però esistono individui che in maniera assolutamente evidente prendono una posizione “di parte”, prevenuta, strumentale, falsa, ed è chiaro che obbediscono a qualcuno che sta sopra di loro. Quando fu deciso di costruire quell’assurdo parcheggio di piazzale delle Muse (con relativo abbattimento dello storico pino, che ne è stata sicuramente una diretta conseguenza) senza dubbio ci sarà stato il politico, l’amministratore pubblico (con il coro di giornalisti compiacenti) che avrà proclamato con “convinzione” (ma in realtà per assecondare, pagato, le esigenze dei costruttori) che il parcheggio doveva essere costruito per risolvere il problema dei parcheggi e che non si poteva assolutamente evitare. E allora, dico, come avrà fatto a dormire tranquillo sapendo di aver ingannato gli abitanti del quartiere lucrando sopra una menzogna? E il pino ricurvo di piazzale delle Muse è solo un piccolo esempio. Quel tipo di persone per i soldi farebbero qualsiasi cosa, dunque non hanno l’anima, e se ne hanno ancora un pezzetto lo tengono bene nascosto. E poi c’è la filosofia del tengo famiglia, che serve a giustificare, soprattutto a se stessi, qualsiasi porcheria.

Insomma, ha ragione Giulia, che non soltanto è molto intelligente ma fa il caffè più buono della zona.

(Aggiudicato un caffè gratis per domani mattina, grazie).

 

 

 

 

31 agosto 2024

 

Quasi parallela a via Salaria c’è una strada, via di Villa Spada che porta a Roma Smistamento, uno scalo ferroviario, dove i treni vengono riparati e puliti. Ha una storia vecchia questo posto. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso era un grande centro di lavoro e di vita sociale. I ferrovieri abitavano qui, con le loro famiglie, soprattutto quelli che lavoravano nei capannoni e sui binari. Ancora negli anni Settanta e Ottanta era un luogo di lavoro importante per le Ferrovie dello Stato, che poi sono state svendute ai privati e smembrate. Ora è un luogo abbastanza triste, soprattutto per chi sa o ricorda il passato. Molte le case e i capannoni in rovina. Io lo conosco bene perché un amico ci abita da quando era bambino.

Un paio d’anni fa una Madonnina di terracotta, chiamata la Madonnina dei ferrovieri, venne rubata. Aveva un valore innanzitutto affettivo. Le signore anziane andavano in quella piccola aiuola dove stava la statuina per dire le preghiere, pe anche per incontrarsi.

Io pensai che fosse cosa buona e giusta andare a comprarne un’altra e rimetterla al posto di quella sparita. Accompagnato da Teresa e Pino, andai a prenderla in una rivendita di statue di vario genere a via Prati Fiscali e con non poca fatica la mettemmo al suo posto, col cemento. Molto contenti e soddisfatti del gesto. Ovviamente scattammo selfie con la Madonnina.

Trascorsi alcuni mesi, non si sa per quale ragione, l’aiuola della Madonnina venne recintata dalla lamiera, nascondendola. Una Madonnina segregata. Poi è rimasta così, e l’aiuola è diventata uno spazio per l’immondizia. Faccio notare che intorno alla statuina c’è una bellissima pianta di rose rosse. Io ogni tanto vado a parlare coi ferrovieri ma non ci sono più le Ferrovie dello Stato ma aziende private che hanno sedi altrove e alle quali non interessa certo una statuina della Vergine Maria. A maggio sono andato, nel tardi pomeriggio. C’era uno spiraglio attraverso il quale ho potuto vedere la Madonnina e le bellissime rose, intorno al cumulo d’immondizia. Al tramonto l’immondizia è sparita come d’incanto dalla scena ed è rimasta soltanto la statuina e le rose accese dalla luce del sole che tramontava. Non c’è modo di passare attraversi le lamiere che la imprigionano, si può vedere questa cosa bella soltanto attraverso una fessura. Meglio così, diventa ancora più bella e più preziosa, e poi sta lì come un monito contro la suprema stupidità umana.

Oggi ci torno con Pino, che abita proprio accanto, in questo giorno di fine agosto.

 

30 agosto 2024

 

Ma che dovrei scrivere? La cosa più importante è che sono andato dall’iraniano, cioè sono andato “in pellegrinaggio” alla targa che ricorda Mohammed Hossein Naghadi, ucciso qui vicino, per innaffiare le piantine che ho messo lì per ricordarlo. Come ho già detto, mi alterno con una persona che non conosco. Per due giorni non sono andato, per vari motivi che non sto qui a dire. Ero preoccupato per i fiori. Ma la persona misteriosa, che condivide questo impegno, aveva fatto il suo “dovere”. Le piantine sgocciolavano, era passata da lì da pochissimo E mai che la incontrassi, mi piacerebbe. È una donna, un uomo, una coppia? Non si sa. Ma a chi può interessare tutto ciò? Non importa, però per me è una bella storia. Spero che continui. Io comunque a innaffiare ci vado. Ieri sera ero felice per i fiori, che nonostante il caldo splendevano nella sera.

 

 

A proposito di fiori…. È una questione un po’ stupida e ignobile ma come ho già detto in questo diario tutto deve entrare. Il mio lettore intelligente non si scandalizza se si avvicendano le cose più diverse. Vorrei parlare di un’opera un’opera di un artista, un grande artista, che si fece fotografare nudo e con un garofano ben piantato nel culo. Questa opera sublime fu esposta in una galleria. Parlo di almeno venti anni fa. Che fine avrà fatto quella fotografia? Sarà esposta in un appartamento? Oppure in una galleria? Certo, un’opera preziosa, che tutti vorremmo possedere, anche per il semplice fatto di poterla vedere appena svegli, magari davanti al letto dove si dorme.

Mi ricordo, ero andato a vedere una certa mostra in una galleria del Centro, vicino Campo de’ Fiori, non perché ne avessi in fondo una gran voglia ma perché a quei tempi non mi dispiaceva ogni tanto immergermi nel chiasso di luoghi affollati, ad esempio nella mondanità delle inaugurazioni delle mostre d’arte, così, soltanto per il bisogno di sentire rumori e voci intorno a me invece del solito assoluto silenzio; era un’abitudine consolidata proprio perché alla fine, quando tornavo a casa, spesso stremato e deluso dagli incontri e dalla fastidiosa confusione, ritrovavo con maggior piacere il silenzio e la  solitudine: poteva essere un compleanno che si festeggiava in discoteca, e allora mi piaceva farmi assordare dal volume altissimo della musica e guardare un po’ defilato chi ballava, oppure la cena a casa di un conoscente, o anche la prima teatrale dell’amico attore, e così via… quella volta avevo deciso di accettare l’invito per l’inaugurazione di una mostra intitolata Eros, anche perché era sempre piacevole fare una passeggiata da quelle parti, tra piazza Navona e Campo de’ Fiori. Lasciai la Vespa a Villa Borghese, poi scesi giù dal Pincio lungo la scalinata di Trinità dei Monti e m’incamminai lungo una delle le strade dei bei negozi, delle vetrine illuminate, della folla sui marciapiedi che sembra in preda alla fretta del consumo, ed arrivai così a via del Corso, svoltai su Largo Chigi, a due passi dal Pantheon, ed eccomi lì poco dopo a via del Paradiso, che poi è un bellissimo e poeticissimo nome per una via.

Giunto davanti al portone, al numero 34, trovai una piccola folla, consueta per i vernissage di quella galleria piuttosto famosa. C’erano esposte opere di pittori e anche scultori, una collettiva. Il tema dunque, era l’eros. Bene. Sempre un argomento interessante. Un tema centrale nella mia vita e nella vita di tutti…. L’opera che evidentemente suscitava più interesse, visti i capannelli davanti ad essa e le accese discussioni, era una foto appesa nella sala appena entrati a sinistra, una grande foto che ritraeva l’autore stesso inginocchiato, nudo e con un garofano ficcato nel sedere.

Oh ecco, proprio quello di cui avevo veramente bisogno di vedere.

Che a modo suo è effettivamente una cosa poetica. Un fiore è sempre gentile, anche se te lo fai mettere con il gambo dentro il culo. Però, ciò che chiesi guardando quella sublime opera, non era tanto cosa volesse dire, ma chi glielo aveva messo dentro.

Un assistente, questo è certo. Per mettesi un garofano ben piantato nel sedere ci sarà stato qualcuno disposto a infilarlo piano piano, il garofano, per poi permettere all’artista di andare alla macchina fotografica per controllare l’inquadratura, e poi di nuovo in posizione tenendosi il fiore ficcato fino in fondo, e poi ancora una volta all’inquadratura, e così via fino all’ultima inquadratura dove accadde l’irripetibile, però immortalato dalla macchina fotografica: fiore e buco del culo incorniciati in un magico accordo.

Pagato quanto l’assistente? Quanto è la paga per un lavoro del genere? Contratto a tempo indeterminato? Non credo. Si ficcano gambi di garofano nei culi degli artisti mica tutti i giorni, eh no. È una cosa che capita una volta ogni tanto, solo quando viene l’ispirazione all’artista e si sa che l’artista è imprevedibile, nessuno può sapere se e quando gli verrà l’ispirazione. E l’ispirazione in questo caso deve essere stata grande. Impossibile non dare seguito a quell’impulso, irrefrenabile, forse simile a quello di Giacomo Leopardi quando scrisse la poesia intitolata L’infinito, più o meno.

 

29 agosto 2024

 

 

Le mie lacrime riflettono la luce

sulla vetta più desolata della luna.

Guardo in cielo, la tristezza passa.

Dormi ora, che è tardi.

 

 

Una poesia di Matilde, me l’ha mandata adesso. Lei ha cominciato da poco a scrivere poesie, perciò una certa ingenuità letteraria è perdonabile. Ma c’è qualcosa di bello in questi versi, una luce autentica riflessa sulla vetta più desolata della luna.

 

 

 

 

Se passate a piazza Fiume, qui a Roma, vedrete che La Rinascente, il famoso “grande magazzino” creato all’inizio del secolo scorso dai fratelli Bocconi, ha cambiato nome. Hanno tolto l’articolo e scritto tutto maiuscolo il nome: RINASCENTE. Il nome era stato inventato da Gabriele D’Annunzio (ricevendo in cambio una certa somma). Un nome bellissimo per un negozio di merci varie, forse troppo bello. Perché mai l’hanno rovinato così? Non voglio pensarci, sennò divento triste. So che l’azienda non è più italiana, ma thailandese: la Central Group of Companies, che ha affidato a uno studio di grafica inglese (North Design)  il compito di fare questa brutta stupidaggine. Bravi, veramente bravi, bisogna dirlo. Complimenti ai proprietari thailandesi e ai loro collaboratori italiani, ai quali faccio questa proposta: se mi pagate ve lo rimetto io l’articolo, perché voi magari non siete capaci.

 

 

 

28 agosto 2024

Le cose più importanti devono rimanere segrete. Mi ci si può avvicinare, con poche parole, non è necessario dilungarsi.

Ecco: il torrente. Macché torrente, è un rimasuglio di fiumiciattolo che vado a visitare abitualmente poco lontano da casa, al Parco della Marcigliana. Si trova nel luogo più desolato del pianeta. Eppure, intorno a mezzogiorno, nelle belle giornate, i raggi del sole cadono su quella poca acqua facendola brillare come ci fossero lì sotto mille diamanti, meravigliosamente. Ecco dunque dove stava la bellezza. E io che l’ andavo a cercare chissà dove. Stava qui, nella sua forma più essenziale.

Penso che capiti la stessa cosa con le verità, anche quelle spirituali, “religiose”. Ne troviamo poche nelle chiese, nei discorsi dei filosofi. Invece in un appartato ristrettissimo spazio ne troviamo in abbondanza. Qui, in questo preciso punto, sotto il vecchio ponte disastrato.

Mi metto fermo, in silenzio come in un tempio. Guardo l’acqua simile ai diamanti luccicanti. Il lieve, lievissimo, incantevole suono dell’acqua che scorre aggiunge bellezza a bellezza.

 

 

Sulla faccenda del tempio e della villetta abusiva, silenzio assoluto. Forse è meglio così. Altrimenti arriverebbero ruspe, giornalisti, televisioni, sindaci, dunque rumore, folla, casino. Molto meglio questo silenzio, simile al grande silenzio del lago, che niente deve turbare per volontà e decreto degli Dei. Tutto si rovinerebbe facilmente. Giorni fa sono andato al lago e mi sono fermato alla fonte di Egeria, sacra per gli antichi, per bere alla fontanella a lato della strada. C’era un individuo che stava usando la fresca e purissima e sacra e risanatrice e inviolabile acqua per pulire la macchina. Che cosa potevo fare, cosa potevo dire? Il lago deve essere protetto dalle creature di conformazione umanoide che non hanno rispetto di nulla.

Non ho detto una parola, me ne sono andato più in là, sulla riva. Poi ho fatto il bagno. Il lago mi ha accolto come una madre grande e comprensiva.

 

27 agosto 2024

Tempo fa hanno dato il premio Nobel al grande, meraviglioso Bob Dylan, per le sue canzoni. Soltanto che le canzoni, per quanto poetiche, non sono poesia. Dunque ora sappiamo che i tanto potenti accademici di Stoccolma non capiscono nulla di poesia. Bene, è confortante. Almeno non leggerò mai gli scrittori premiati, cioè li leggerò indipendentemente dal premio. Come il premio Strega, ad esempio. Mai letto un libro premiato. Soltanto una volta, perché aveva vinto un mio amico che nel suo libro aveva parlato di me, per una piccola cosa. Allora ho scoperto che era pure un bel libro, però questo fatto non c’entrava niente col fatto di aver ricevuto il primo premio allo Strega. Ma davvero c’è ancora gente che compra un libro perché magari sta nella cinquina dei libro finalisti? Come no, tantissima gente. Ci sono tutti quelli che girano attorno al premio, i votanti, i giornalisti, gli editori… e vabbè, bisogna pure campare.

Certo, adesso, dopo avere letto queste righe, non  m’inviteranno più a partecipare al premio, nemmeno se scrivessi uno di quei romanzonio romanzetti che odio. Però potrò sempre dire, se mai un giorno dovessero candidarmi, che fino alla precedente edizione la pensavo così. «Ma adesso», affermerò convinto, «bè, adesso è tutto cambiato, molto migliorato questo importantissimo premio, ora sì che si può premiare lo scrittore più importante e che ha scritto il libro più bello, non uno di quei soliti libri abbastanza mediocri degli spesso mediocri scrittori che saranno letti da poche persone e poi verranno dimenticati per sempre. Ora sì che potete premiarmi, signori della giuria. E sono disposto a bere pure quel pessimo liquore davanti a tutti cercando di non vomitare».

 

 

 

Ma guarda che mi tocca scrivere. Ieri ho messo la poesia di Margherita Guidacci. Come passare dal Paradiso all’Inferno, cioè, non proprio Inferno, cerchiamo di essere giusti, ma Purgatorio.

 

 

 

Ieri, poi, rileggendo il Diario, ho notato che la sublime poesia di Margherita segue, scorrendo la pagina, una specie di mio raccontino del giorno precedente, una cosetta un po’ scema su una cacca lungo la strada, che faccio addirittura parlare. Certo, l’accostamento è stridente, diciamo così. Però questo diario deve essere proprio scritto in questo modo, innanzitutto di getto, e poi a una cosa meravigliosa può seguirne una ironica, polemica e anche una un po’ sciocca. Che poi è il mio stile, no? Mischiare l’alto e il bassissimo, il candido celestiale e la faccenda indecorosa. Nella mio libro La piccola dea, del quale si possono qui nel sito leggere le prime pagine, ho scritto una prosetta che voglio andare a ritrovare. Mi serve per spiegarmi meglio.

 

 

                                                                                         La dimora degli stili

 

La dimora degli stili è in cima a una montagna. Molti s’avventurano per quegli impervi sentieri ma nessuno fino ad ora è riuscito a raggiungerla. Uno soltanto è arrivato ad osservarla da vicino, ma non è stato facile. Coraggio bisogna avere, purezza d’animo, anche soltanto per tentare.

Ricordo d’essermi incamminato un venerdì, in compagnia di Leo, il mio fedele cagnolino. Era una giornata di pieno sole. I ruscelli scorrevano placidamente nei loro letti argillosi e gli animali a quattro zampe, costretti a sostare eternamente nei recinti, belavano o nitrivano o muggivano con rassegnazione e senza alcuna invidia per le creature alate, più fortunate, che vagavano nell’aria.

Avevo riempito lo zaino soltanto col necessario: panini, thermos, gessetti colorati, un manuale d’alpinismo, due cornetti portafortuna, la pelle d’orso, l’oppio, il saggio di Aldous Huxley intitolato Le porte della percezione, i ricordi d’infanzia, la prima dichiarazione d’amore, i dischi per ballare i lenti, i brutti voti in matematica, un corteo studentesco con molotov e lacrimogeni, le cene di Natale coi parenti, le voci all’imbrunire mentre sulla città di mare la nebbia si stende come un velo, Parigi, camminare insieme a te lungo un grande viale alberato indossando buffi cappelli, un paio di comode ciabatte, le ciambelle preparate da mia madre, il Bhāgavata Purāṇa, quella scena di un vecchio film con Greta Garbo, quando lei entra in un bar e dice con la bellissima voce della doppiatrice italiana: «Ehi, uno scotch, e non essere avaro», e poi la calzamaglia di lana, il rasoio per tagliarsi eventualmente le vene, la scatola dei preservativi e la paura di morire. Nient’altro.

Partimmo presto e a mezzogiorno, già un poco stanco, dicevo a Leo, accarezzandolo sulla testa: «Chissà cosa fanno stasera in televisione…». Ma un compito nobile e difficile mi aspettava, una prova di orgoglio che ormai non potevo evitare. Ho percorso ogni sentiero, mi sono ritrovato al buio nella fitta boscaglia che circonda la zona montuosa, poi ho cominciato a salire ed eccomi finalmente quasi all’apice di tutte le fantasie possibili, dove si vede finalmente la forma perfetta, la semplice verità di tutte le cose.

È  lassù, irraggiungibile: la dimora degli stili.

 

 

 

 

 

26 agorto 2024

 

Non occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti

Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo condu-

cono;

Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;

E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.

Bastava che l’ombra sorgesse dall’angolo più quieto della stanza

O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa –

La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:

Noi sapevamo già di appartenere alla morte.

 

(Margherita Guidacci)

25 agosto 2024

Storia di una merda

Ero una piccola merda. Lasciata lì, sul marciapiede. Piccola, indifesa. Frutto di un semplice bisogno fisiologico, di un gesto naturale come può esserlo il respirare, soltanto più indiscreto, materiale, imbarazzante. Una merda, nient’altro. Tutti mi guardavano con disprezzo… ma un giorno un poeta riuscì chissà come a notarmi. Forse perché il poeta – il vero poeta – è colui che tutto considera, che tutto contempla e che nulla giudica e condanna: amico davvero dell’universo intero, anzi di tutti gli universi possibili e immaginabili, compresi quelli paralleli o lontanissimi al di là delle galassie più lontane, ai confini dell’universo, chissà dove… partecipe e solidale alla vita degli uomini e degli alberi e dei fiumi e delle nuvole in cielo e degli esseri che volano o che strisciano sul terreno o che sguazzano in acqua e perfino delle pietre e delle cose inanimate… difensore dei giusti e degli assassini, dei ladri e dei derubati, dei potenti e degli indifesi e che riuscirebbe ad amare una pulce, un microbo, un virus pestilenziale poiché vede bellezza e verità in ogni aspetto del mondo e nulla potrà fargli cambiare idea, né miseria, né solitudine, né carestie, terremoti ed ogni genere di devastazione e di sciagura poiché nulla può toccare profondamente colui che accetta, che dice , che dice: è giusto e bello

Perciò si accorse di me, il poeta; mi vide sul marciapiede e restò fermo a guardarmi. Che bisogno aveva di osservarmi? Nessuno. Che ci si può fare con una cacca? Quale interesse posso suscitare? Me ne stavo lì sul marciapiede davanti a casa del poeta, lui uscì e restò fermo immobile ad osservarmi un po’ chinato in avanti per contemplarmi meglio. Mi contemplava! Una cosa davvero assurda, certo, lo capisco benissimo…. Eppure è quello che lui stava facendo, per quanto sembri incomprensibile. Mi guardava con curiosità, immaginando chissà cosa.

Poi è tornato a casa e ha scritto questa paginetta. Tutto è vivo e degno di attenzione per il poeta, dunque anche una merda come me. Sarebbe capace di incuriosirsi e immaginare e far parlare anche il marciapiede che mi stava sotto. Infatti c’è riuscito. Leggerete qui sotto il dialogo tra una merda come me e un marciapiede. Non crederete ai vostri occhi. Eppure bisogna dire che c’è qualcosa di vero in questo colloquio.

 

Merda  Scusami, sai, non volevo… non è colpa mia.

Marciapiede  Ma figurati. Lo so che non è stata colpa tua.

Merda  Sei molto gentile e comprensivo.

Marciapiede  Prego, prego…

Merda  Mi dispiace. Ti sto pesando?

Marciapiede No, no… è che l’odore è un po’ fastidioso…

Merda  Che imbarazzo! Perdonami!

Marciapiede  Tranquillo. È nella tua natura, d’altronde; che merda saresti se non puzzassi almeno un poco? Le merde profumate ancora non l’hanno inventate… Dai, lasciamo perdere. Bisogna rassegnarsi al proprio destino. Credi che a me faccia piacere essere ciò che sono? Sempre sotto i piedi di tutti, calpestato, sporcato dalle merde… scusa, sai, non mi riferivo a te… Ogni tanto mi ripuliscono e talvolta anche mi riparano ma nessuno pensa a me come a qualcosa meritevole di rispetto. Solo il poeta, ora, mostra interesse per me.

Merda  Sì, certo. C’è il poeta, per fortuna. Che pensa di farti parlare, come pensa di far parlare me.

Marciapiede. È vero, hai ragione. Una grande fortuna per noi due.

Merda  Effettivamente è una fortuna e una grande consolazione. Allora dovremmo ringraziarlo insieme, il poeta.

Marciapiede & Merda (in coro) Grazie, poeta!

 

Questo è il dialogo che si è svolto stamattina. Poi è arrivato il netturbino e mi ha spazzato via. A me, alla merda che sono. Ma resterà nei secoli – ma che dico, nei millenni – questo dialogo tra me e il mio amico marciapiede. Addio.

 

 

 

A proposito di merde, mi domando (anche per chiudere questo nauseabondo argomento), perché il mondo è pieno di stronzi?

Sì, non è possibile negarlo: pieno zeppo di stronzi. Ma il perché non lo so. Nessuno potrà mai riuscire a comprendere per quale ragione su questo pianeta esistano individui del genere. Come ad esempio quelli che spendono un sacco di soldi per comprare i fuoristrada di ultima generazione, enormi jeep, e invece di andarci nel Sahara o nel deserto del Gobi o in quello del Kalahari, li usano per lo shopping in Centro con il bel risultato di intasare ancor di più le già trafficatissime strade della città in cui mi tocca vivere. Tu questi stronzi li vedi transitare o parcheggiare in seconda fila completamente ignari della loro miserevole condizione intellettuale, per giunta sprezzanti, mentre giganteggiano pieni di vanità di fronte agli altri normali automobilisti o motociclisti o ciclisti eccetera.

Giorni fa me ne stavo fermo ad un semaforo rosso in sella al mio scooter quando è arrivata una di quelle mastodontiche automobili, quasi il doppio più grande delle altre e venti volte più della mia Vespa. Ho visto di cosa si trattava: era un Land Rover Defender, una cosa enorme, una specie di mostro. Ho potuto allora fissare negli occhi il guidatore, dal basso in alto, cercando di penetrare attraverso lo sguardo in quella mente devastata dalla pubblicità, dai bisogni indotti, dalle false concezioni della vita che vogliono fare della Terra un pianeta da conquistare e da consumare fino all’ultimo granello di polvere.

«Imbecille, oltre che grandissimo stronzo» gli ho detto telepaticamente mentre lui al di là del finestrino si godeva l’aria condizionata e la musica dello stereo a tutto volume, «stammi a sentire, voglio domandarti una cosa: come riesci a non comprendere di aver buttato dalla finestra quei soldi che avresti potuto impiegare in mille altre maniere più utili e divertenti? Che te ne fai di un bene materiale che tra un solo anno avrà dimezzato il suo valore? Dove cazzo ci devi andare con questa specie di autobus con le ruote giganti? In Africa? In Medio Oriente, tra Damasco e le rive del Mar Rosso? Allora vai, parti immediatamente e raggiungi uno di quei magnifici luoghi, e non rompere le palle qui!… Io ti imploro, non usare la jeep per correre lungo le strette e rinascimentali strade del Centro di Roma, non lo capisci che in questo modo non fai che aumentarne il caos?». Lui rimaneva in un suo imperscrutabile mutismo. «Lo so cosa stai pensando» ho continuato, «è per ragioni di spazio che te lo sei comprato, per questioni di comfort. Oh sì, certo: la moglie e i bambini… Cazzate. I tuoi bambini non hanno alcun bisogno di due metri al quadrato per stare comodi sui sedili posteriori durante le gite dei fine settimana o nei viaggi delle vacanze estive… Ascolta: ricordo benissimo quando mio padre ci portava, a me e alla mia famiglia, sulla mitica Opel Kadett 1000 di colore verdolino, su e giù per le strade delle Dolomiti, tra il ghiacciaio della Marmolada e il passo Pordoi. Me ne stavo lì con i miei fratelli, un po’ stretto ma tutto sommato abbastanza comodo su quei sedili di plastica mentre mamma e papà, che Dio li benedica, pensavano a tutto il resto. Noi tre figli eravamo relativamente felici a quei tempi e ci piaceva tanto scorazzare intorno alle montagne con quella macchina. Avevamo la netta sensazione di stare al sicuro, protetti, tranquillissimi di arrivare a destinazione, non solo perché nostro padre era un guidatore provetto ma anche perché quella Opel verdolina non ci avrebbe sicuramente lasciato nei guai. Mai papà se n’era lamentato, anzi non avevamo ascoltato altro che lodi riguardo alla sua affidabilità; e infatti quell’automobile ci portava dappertutto, perfino su strade sterrate, in cima ad alcuni passi dolomitici che a quei tempi, cioè verso la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, non erano ancora stati raggiunti dall’asfalto. Il bagagliaio era abbastanza grande da contenere tutto ciò che occorreva e nessuno di noi sentiva assolutamente la mancanza di spazi più ampi… Dunque, scusami, ma questa storiella dello spazio e del comfort non regge».

Ma il semaforo è diventato verde. A quel punto ho tirato fuori il fiato che avevo in corpo e senza più remore ho gridato: «Aspetta, stronzo, non partire! Ti devo dire ancora una cosa fondamentale, e cioè che puoi svegliarti da questo tuo sonno mortale, davvero puoi farcela! Esci dall’abitacolo, adesso, qui ed ora, e abbandona questo mostro meccanico insensatamente grande per andartene finalmente libero e spensierato. Sì, sì, è possibile! Qualcuno si occuperà di rimuoverlo, e probabilmente qualcun altro ti verrà a cercare, ma che importa? Tu ormai sarai già lontano, libero, felice vagando finalmente lontano dalla città, lungo verdissime valli e boschi incontaminati… Percorrerai le rive di torrenti e ruscelli e infine approderai ad un piccolo lago dall’acqua limpidissima dove ti chinerai a bere e dove poi ti tufferai, nudo, nuotando felice… E chissà, forse ad un tratto scorgerai una figura femminile poco lontano, tra gli alberi, una fanciulla bellissima che ti farà un enigmatico cenno con la mano prima di scendere anch’essa in acqua e venirti incontro…. Ma sì, sì, tu subito l’abbraccerai e lei sentirà la tua potente eccitazione da fauno silvestre e così vi amerete con mille giochi nella frescura del laghetto e tra le fronde degli abeti sotto un cielo chiaro e pulito… E allora cosa aspetti? Svegliati! Reagisci, coglione! Abbandona questo triste sogno di successo e di supremazia che ti rende schiavo ed entra in un sogno più bello e colorato! Ricordati cosa dice Gesù nel Vangelo di Luca (17, 33): “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà”. Salva la tua vita perdendoti, deficiente! Ma se adesso non vuoi fare troppo casino, allora parcheggia questa mastodontica jeep e chiama il primo rivenditore di automobili usate per liberartene il prima possibile! Hai speso 30.000 o 50.000 euro e forse ancora di più, idiota che non sei altro, e però puoi rivenderlo e rifarci un po’ di soldi… Ma ti rendi conto cosa significherebbe risparmiare i soldi dell’assicurazione e del bollo e della benzina? Sarebbe prezioso denaro che potresti impiegare in mille altri modi. Ti prego, dammi retta, te lo dico per il tuo bene! Fermati! Aspetta un momento!… Aspetta, ritardato mentale!».

Lui senza degnarmi di un solo sguardo è ripartito, facendomi respirare abbondante gas di scarico.

«Che stronzo!» ho detto io.

 

 

D’improvviso, nel tetro silenzio di agosto, irrompono le voci dei bambini che abitano qui vicino, appena tornati dalle vacanze. Per favore, bambini, non andate più via.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

24 agosto 2024

A Roma, poiché i soldi per le cose necessarie sono sempre pochi, si vedono in giro ancora i vecchissimi e malandati camion dei Vigili del Fuoco costruiti negli anni Sessanta. Davvero, avranno almeno cinquant’anni. Perciò sono identici ai camion dei pompieri con cui giocavo da bambino, che erano stati progettati e realizzati dalle aziende dei giocattoli a imitazioni di quelli veri. Così i camion veri di adesso sembrano le riproduzioni perfette dei miei giocattoli! Identici ai modellini, soltanto un po’ più grandi: automobiline giganti!

 

 

 

Fievole, quasi impercettibile la voce dell’amata, accanto a me nella penombra. Poi mi dici: «Ma perché stiamo parlando così piano, si può sapere?».

Siamo presi dalla sera che scende lentamente e dall’amore, ecco perché. Avvertiamo verso sera questo respiro leggero delle cose, lo sentiamo come un soffio sulla pelle.

Poi non diciamo più nemmeno una parola, felici di svanire insieme ad ogni cosa, nella sera.

 

 

 

Parlerò adesso, semplicemente perché non ho altro da fare in questo tetro pomeriggio di agosto, con notizie allarmanti e caldo insopportabile, di due artisti molto differenti tra loro ma che hanno in comune una cosa che svelerò soltanto alla fine di questo breve saggio che sicuramente sarà giudicato con parole osannanti dalla critica e figuriamoci poi come reagirà lo sterminato pubblico dei miei lettori: Bob Marley e Alessandro Manzoni.

Cominciamo da Bob.

Egli s’impenna sollevato dalle note più alte della sua stessa voce e scivola e rotola sui suoni della chitarra solista e del basso finché giunge finalmente alla conclusione del brano e della sua stessa vita, laggiù. Oh sì, ora Bob sta cadendo nel baratro, lo capisco bene: questo sarà la sua ultima canzone poiché il cancro avanza nella gola anche se lui, per fortuna, non se ne preoccupa troppo. Al Buio Silenzioso non ha mai fatto caso. Non ne ha mai avuto paura e non è mai andato a un funerale in vita sua. Così ha detto nelle interviste. Infatti anche adesso, con le flebo nelle vene e le infermiere intorno, guardatelo come corre e salta sul grande palcoscenico della vita!

Eppure cadi, Bob, ecco, stai cadendo…

Distratto dai preparativi per l’ultimo viaggio, hai dimenticato di salutare i partecipanti all’ultimo banchetto in tuo onore. Innanzitutto, c’è il sottoscritto. Che non ha altro merito che quello di averti ascoltato in cuffia nei lunghi pomeriggi invernali, quando si avverte con un senso di vertigine che tutto cambia lentissimamente e che ciò è ineluttabile. Salgo sulla lunga tavola imbastita a ballare insieme a Peter Tosh, ai tuoi innumerevoli figli sparsi per il mondo, alle tue ex mogli e a tutte le tue amanti, ai mariti traditi, ai poliziotti giamaicani che fumano erba… Tutti insieme a festeggiare l’inizio del tuo viaggio verso l’infinito. Perché non vogliamo piangere ma danzare, danzare, danzare…

E ora passiamo ad esaminare il grande, importantissimo scrittore italiano, Alessandro Manzoni.

Non ho mai avuto il coraggio di dirlo, né tanto meno di scriverlo in quei temi del cazzo che mi davano a scuola, ma questo scrittore mi ha sempre annoiato mortalmente. Ad esempio, quella famosa poesia (Ei fu. Siccome immobile/dato il mortal sospiro…) io l’ho sempre odiata. Mi sembra retorica e veramente scema. Per quanto riguarda I promessi sposi voglio far notare soltanto una cosa: è un bel romanzo, certo, ma che figura ci fa se lo mettiamo a confronto con le opere dei suoi contemporanei Hugo, Stendhal, Balzac, Dostoevskij, Melville, Dickens? Quei signori li ammiro incondizionatamente, anzi li adoro, mentre per Manzoni provo sì molta soggezione, come davanti a un monumento, ma non amore. E questo per colpa sua, credo, non soltanto mia. Anche Hugo, ogni tanto è un po’ trombone, vanitoso, magniloquente, e forse anche lui scriveva pensando che un giorno sarebbe stato studiato a scuola, però Alessandro (Alex per gli amici) in trombonismo lo batte dieci a uno. Mi dispiace, ma spesso il Manzoni (con l’articolo “il”, come appunto si fa coi grandi scrittori) proprio non lo reggo.

Esagero? Dico questo a causa delle mie esperienze scolastiche del tutto negative? Posso ammettere che la scuola renderebbe noiosa anche la cosa più bella del mondo. Però non credo che nessuno, nemmeno il peggiore degli insegnanti, riuscirebbe a rovinare un romanzo di Victor Hugo.

Va bè, ma tutto questo che diavolo c’entra? Cioè, che c’entra Alessandro Manzoni con Bob Marley? Per via delle orecchie. L’avete mai notato? Se prendete un ritratto di Manzoni e l’avvicinate a una qualsiasi foto di Marley, vi renderete facilmente conto che la forma delle loro orecchie è identica. Non ci credete? Fate la prova.

Certo, soltanto uno veramente alterato psicologicamente può fare un paragone del genere. Manco mi fossi fatto un cannone che nemmeno il vecchio Bob!

Alessandro Manzoni e Bob Marley! Cose da pazzi!

 

 

 

 

 

23 agosto 2024

 

Felicità, o ghirlanda fiorita che circondi il mondo quando dorme sotto il peso del dolore e della morte! Perché il mondo vive nel segno del tormento e dell’amore sconosciuto. Dorme, e sogna senza sapere di sognare; e mentre sogna, ruota intorno al perno che tutto regge. O magia, o felicità!

 

 

 

Avevo pensato di tracciare un cerchio che racchiudesse l’intera città, le piccole gioie, gli sforzi che si fanno per campare, le albe contemplate dalla finestra, l’agonia e la morte di un amico, le lunghe attese dal dentista, la fatica di alzarsi presto la mattina per andare a lavorare, la discussione sottovoce in camera da letto tra moglie e marito a proposito dell’educazione dei figli, la noia domenicale, le grida dei ragazzini che giocano a pallone nel cortile condominiale durante un pomeriggio estivo quando l’improvviso frastuono di lamiere al di là del cancello rompe la quiete di quella giornata estiva e i ragazzini che si sporgono per vedere le il litigio tra i due uomini mentre gli altri automobilisti intrappolati nel traffico suonano istericamente i clacson e l’arrivo dell’autoambulanza e le imprecazioni  del ferito… e mille cose ancora avrei voluto riunire nel grande cerchio che tanto desideravo tracciare, come ad abbracciare la città con un’idea, con l’aspirazione di dire tutto. Anche il dolore fisico e la gioia delle partorienti, la solitudine dei guardiani notturni, l’onnipotenza delle donne giovani e belle che camminano per la strada sapendosi osservate… e così via, a salire e a scendere, in lungo e in largo, ogni cosa e persona, perfino coloro che sembrano assenti volevo rinchiudere in questo grande cerchio: le persone morte che abbiamo amato, gli invisibili, da noi sempre pensati e ricordati e rimpianti e perciò costretti a rivivere forse a malincuore in un modo che noi non conosciamo. Ma non soltanto i morti, anche gli angeli e i diavoli volevo includere nel magico cerchio che avevo intenzione di disegnare, perché forse anch’essi esistono, e pure gli innocenti e sconosciuti piccoli animali volevo metterci dentro, sì certo, gli insetti numerosissimi e silenziosi, e i topi odiatissimi e gli esseri alati e più fortunati che vivono lungo i grandi viali alberati, ad esempio i passeri sui rami.

Ma non ne sono capace. Non traccerò nessun grande cerchio. Ne traccerò invece uno infinitamente ridotto nel quale collocherò con estrema precisione la storia della gattina Juve e della signora Rosy, raccontando quanto fu triste gettare il corpo della gattina nel cassonetto condominiale dell’immondizia e anche di cosa pensai dopo, che spiegherà per quale ragione io non ho potuto e non potrò mai tracciare un grande cerchio intorno alla città. Si era infatti ammalata, la gattina. Era molto vecchia ormai e c’era da aspettarselo. (Il fatto è che uno non riesce a prepararsi a niente, cioè non crede possibile che da lì a un’ora, da lì a un minuto tutto cambi e ci si ritrovi ad affrontare il dolore, la morte e tutto il resto). Quasi d’improvviso s’è messa zitta e buona su un cuscino che lei aveva sempre considerato la sua cuccia e poi lì è rimasta. Per amore della verità bisogna dire che di cucce, Juve, ce ne aveva parecchie su e giù per il condominio. Lei infatti se ne andava in giro per tetti e balconi e giardini, entrava nelle case, dappertutto, poiché aveva un mucchio di autentici vice-padroni e vice-padrone e vice-padroncini e mangiava quando e come e quanto voleva; insomma se la spassava e faceva una gran bella vita, fregandosene altamente (anche questo bisogna pur dirlo) degli altri gatti meno fortunati e molto meno furbi e in effetti bisogna dirlo chiaro e tondo per amore di verità: Juve era parecchio furba e incontenibile e in un certo senso amorale poiché a suo piacimento entrava dalle finestre aperte e mangiava nelle ciotole altrui oppure rubava sui tavoli delle cucine e insomma se ne infischiava altamente della buona educazione che, dico io, anche i gatti dovrebbero tenere in considerazione almeno un poco, o no? Mezza addormentata, non s’è mossa da quel cuscino fino a sera che le faceva da cuccia e in poche ore è morta.

Era circa mezzanotte, e poco prima che spirasse, in casa c’eravamo io, la signora Rosy e il portiere del mio condominio. La signora Rosy stava piangendo sommessamente. Anche a me dispiaceva parecchio perché era una bella gattina che conoscevo da tanti anni e sempre se ne stava nel giardino del condominio e quando tornavo la sera in Vespa, lei, sentendo il rumore del motore, saltava fuori dalla siepe e veniva a salutarmi e a prendersi un po’ di carezze e per fare un po’ di fusa. Io me la prendevo in braccio e la sentivo calda e morbida ed era un piacere averla vicino. Era proprio una bella gatta. Bianca con chiazze nere. Per questo la signora Rosy l’aveva chiamata Juve: da Juventus, la squadra di calcio che ha le maglie bianche e nere.

Ad un certo punto si è messa a rantolare, poi ha fatto un profondo sospiro ed è morta. Nella stanza si è avvertito qualcosa di grande e minaccioso, come una specie di promessa mantenuta ad ogni costo. Il portiere ha detto: «Ecco…».

Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto. Poi la signora Rosy ha smesso di piangere ed è uscita dalla stanza. Io e il portiere siamo rimasti lì a guardare il corpo della gattina, fermo, immobile e già estraneo.

Il portiere ha detto: «Adesso bisogna portarla via».

«Ma dove?» ho domandato io.

«La buttiamo nel cassonetto».

«Nel cassonetto dell’immondizia? Ma no!» ho protestato.

«E dove sennò?».

In quel momento è tornata la signora Rosy, si è inginocchiata e ha allargato un telo sul pavimento. «Povera Juve» ha detto. Per un momento è rimasta così, in ginocchio. Poi con due mani ha preso la gattina e l’ha distesa sul telo. Poi ha avvolto il corpo con quella specie di sudario.

«Signora Rosy» ho detto io, «ma adesso dove la vuole mettere? Non vorrà buttarla nel cassonetto dell’immondizia!».

La donna ha fatto un respiro prima di rispondere. Il portiere, invece di lasciarla dire, ha detto: «Per forza. Sennò dove la mettiamo?».

Io ho insistito. «Potremmo metterla in giardino, forse. Scaviamo una buca. Nell’aiuola in fondo. Che ne dice, signora?».

«Ma non si può, credo» ha risposto lei, che ha avuto tanti gatti e dunque sa cosa succede in questi casi. Infatti il portiere ha aggiunto, come per chiudere il discorso: «Certo che non si può».

Allora la signora Rosy ha preso quel fagottino in braccio ed è uscita di casa seguita da me e dal portiere. Camminavamo in fila indiana, scendendo per le scale e poi in strada. Siamo dunque arrivati al cassonetto dell’immondizia. In giro non c’era nessuno; era sera tardi e la gente se ne stava a casa a riposare oppure chissà dove. Faceva freddo, e però il cielo era limpidissimo e stellato. Il portiere ha aperto il coperchio del cassonetto e la signora Rosy ha gettato il fagottino dentro. C’è stato un tonfo perché evidentemente il cassonetto era vuoto. Questo mi ha dato un brivido. Poi il cassonetto è stato richiuso.

La signora Rosy ha detto, mentre tornavamo indietro, che i gatti sono tanto carini e fanno una grande compagnia. Peccato, ha aggiunto, che durino così poco rispetto a noi uomini. Bisogna prepararsi a vederli morire, ha detto. Se non si accetta questo fatto, cioè se non si accetta di dover soffrire prima o poi per la loro morte sempre prematura e perciò difficilmente accettabile anche da chi si prepara ad accettarla, allora è meglio non averli vicino, meglio non prenderli a casa. Ma come si fa a vivere, ha concluso la signora Rosy, senza voler bene a nessuno?

Siano rimasti per un po’ in silenzio davanti alle scale, io, la signora Rosy e il portiere. Poi io ho detto, senza pensare molto a quel che dicevo, così, lasciandomi trasportare dalle circostanze, cioè dalla tristezza derivante da quella specie di funerale per l’amatissima gattina Juve che ora giaceva tra l’immondizia in attesa di essere triturata insieme all’immondizia: «Però non si capisce, proprio non si riesce a capire perché deve essere così, cioè che i gatti devono morire così presto, e anzi non si capisce per quale ragione tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».

Era un’affermazione assurda e ridicola, me ne resi conto perfettamente io stesso appena pronunciata. Mettersi a filosofeggiare a quell’ora di notte davanti alle scale del condominio insieme al portiere e alla signora Rosy era la cosa più scema che essere umano potesse fare. E che diavolo pretendevo, che uno dei miei interlocutori dicesse frasi del tipo è la natura oppure Dio l’ha voluto o qualunque frase banale anche se magari veritiera però certamente inadatta in quel momento? Nessuno infatti aprì bocca per rispondermi, come previsto. Era stata una frase davvero troppo idiota, e come ho già detto lo ammisi in cuor mio immediatamente dopo averla pronunciata.

La signora Rosy disse: «Bene. Allora grazie. Ci vediamo».

«Sì, ci vediamo, signora» disse il portiere prima di scomparire repentinamente nel suo appartamento al piano terra.

La signora Rosy cominciò a salire le scale. Mi chiesi: perché la signora Rosy non prende l’ascensore? È per fare esercizio fisico? Oppure nemmeno ci ha pensato e ha preso la via delle scale e basta?

In fondo sono idiozie anche quelle che mi sto chiedendo adesso, dissi a me stesso.

Sentii i passi strascicati della signora Rosy risuonare per le scale. Poi la chiave, lassù, entrò nella serratura e subito dopo la porta ci richiuse rumorosamente, quasi con violenza, con un piccolo boato che fece tremare i vetri delle finestre lungo le scale.

Io avvertii una fitta salirmi lungo la spina dorsale, ed ebbi come un capogiro. Cosa mi stava capitando? Nulla. Soltanto, mi sentii d’improvviso tremendamente solo. Mi resi conto in quel preciso momento che in vita mia avevo vissuto nella più assoluta solitudine. Chissà perché ci pensai in quella situazione. Provai questa sensazione: il cervello, l’anima, il corpo, gli intestini, il sangue che stava circolando nelle vene, tutto aderiva e formava un’entità unica che aveva forse per la prima volta pienamente coscienza di se stessa e che sentiva di staccarsi con un violento strappo dal resto del mondo e dall’universo intero. Era quest’ondata di solitudine e di consapevolezza che mi aveva fatto trasalire e quasi svenire. Restai per qualche momento immobile, aggrappato alla ringhiera delle scale, a cercare di capire se sarei morto o no.

Ma non accadde nulla di irreparabile. Mi scossi da quella specie di catalessi in cui ero precipitato e raggiunsi casa mia. Una volta a letto, pensai: «Non bisogna mai fare domande. Le domande sono sempre assurde, stupide». Presi una pastiglia di Valium e spensi la luce del comodino. Restai un poco sveglio, nella penombra, a godermi il tepore del letto e a riflettere su ciò che era accaduto. L’ultimo pensiero prima di dormire: «Non scriverò mai più nulla che non riguardi con esattezza me stesso, ciò che mi capita, le poche cose che succedono. Non scriverò mai un romanzo, non traccerò mai un grande cerchio intorno alla città».

 

22 agosto 2024

O amore, mio amore, dolcissimo e indecente, io voglio penetrare in te come fossi uno speleologo, pazzo e metafisico, per scendere nella più profondissima delle caverne e così sfiorare la radice di tutte le cose. So che, raggiungendo le tue profondità, io posso mirare a profondità abissali.

Un fiume scorre in questa caverna. Una piovra gigante (Enteroctopus dofleini) affiora sulla superficie dell’acqua e ti chiama per nome mentre pesci multicolori sgusciano tra le onde giocando a nascondino. Sulla riva si trovano conchiglie che, se le avvicini all’orecchio, emettono L’aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach.

Mi siedo sulla riva sabbiosa. Mi bagno i piedi. L’acqua è calda, quasi bollente. (Ricordi quella sera alle terme di Saturnia? Ecco, anche da quella sera proviene questa fantasia). Poi scaccio con un piede un mostriciattolo tentacolare, cioè una piovra “normale” (Octopus vulgaris), che mi ha fatto il solletico alle dita. Ha una testa piccola e una faccia arguta e sorridente, come nei cartoni animati. Anche questo strano animale viene da te, amore. Non avendo altre strade per arrivare ai tuoi fondali, e ai fondali dei tuoi fondali, e pure ai fondali dei fondali dei tuoi fondali, io mi getto a capofitto in questo antro candido, e però sudicio, meraviglioso.

Infatti il sogno arriva dove, a mente fredda, non arriverei mai. Nulla di così stravagante, in fondo: acque bollenti in caverne profondissime, mostri, mostriciattoli, conchiglie che emettono L’aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach… e il sottoscritto che se ne sta beato sulla riva di questo fiume e si addormenta per un breve riposino. Chissà quali sogni farò addormentandomi nel mio stesso sogno…

Uno stormo di uccelli mi sfiora per infastidirmi, io mi sveglio e riconosco immediatamente l’Alce Reale (Alce impennis), un volatile ormai estinto e che si è formato nella mia mente da ragazzino, durante i lunghissimi pomeriggi invernali, quando si muore di noia e si resta davanti alla televisione ad aspettare la fine dell’adolescenza. Giocavo con lui, e ora lo ritrovo qui, dentro di te.

Ma ci sono molte altre creature che affiorano nella mia mente mentre me ne sto qui in santa pace. Le linci (Lync pardinus), tanto per fare un esempio: vivono nell’oscurità e si muovono al rallentatore. Provengono da certi giochi che si fanno nell’infanzia… sapete, quando si gioca al dottore. (Tu devi averci giocato un po’ troppo. Non fai altro che sedurre gli uomini, per la semplice ragione che ti piace tanto fare la puttana, amore). Infatti dai traumi propriamente sessuali derivano i seguenti animali che possiamo spesso incontrare quando c’inoltriamo in caverne femminili di questo tipo: l’orso delle caverne, per l’appunto (Ursus spelaeus) e l’orso bruno (Ursus Arctos) ma anche il divertentissimo orso polare (Ursus Maritimus) che sfoglia riviste di moda e canticchia le canzoni dei gruppi del rock psichedelico americano degli anni Sessanta come ad esempio i The Palace Guard di Los Angeles e i  Grateful Dead  di San Francisco. E guai a disturbarlo.

Proseguiamo in questa interessantissima rassegna di creature realmente immaginarie eppure in un certo modo realmente esistenti poiché figlie di una pericolosa ossessione, di un dolore o di un piacere acuto, insopportabile. Dopo gli uccelli, le linci e gli orsi, ecco le iene: la iene delle caverne africane (Haene spelaea), che ride come una matta se le proponi equazioni matematiche, e la più inquieta iena striata (Haena striata), che prende a calci gli psichiatri e i sessuologi perché negano le verità e i piaceri che appartengono ai pochi.

Inoltre, i roditori. (Che rodono ai fianchi soltanto chi se lo merita, e questa è la penitenza per la tua lussuria di grande baldracca che non sei altro, amore mio). Ma ci sono anche i roditori del Neolitico e dell’Età del bronzo, quelli dell’antichissima epoca di Hallstatt e, anche se sembra impossibile, addirittura quelli dell’epoca di La Tène: la marmotta (Arctonis marmotta), il bobac (Arctonis bobac), il citello (Spermophilius citellus), il criceto (Cricetus frumentaris) che una volta era diffuso dal Reno all’Obi durante la stagione invernale e dal Caucaso a 60° di latitudine Nord e che ora ci sorprende ancora spuntando talvolta dalla tasca del giaccone di pelle, e perfino i castori (il Tragontherium e il Tragontherium Cervieri) che assaggiano i tuoi umori esprimendo giudizi che io non condivido affatto. Poi ci sono pure bovini, ovibovini, lepri, conigli, cani, volpi, scimmie, molluschi, cinghiali, renne… dei quali potrei fornire nome origini abitudini, ma ora mi sono annoiato. Abitano in te, sopra di te, sotto di te… Se intraprendo un viaggio nei tuoi labirinti, devo per forza tenere conto della fauna che tu fai vivere e prosperare in messo alla tua… (CENSURA). Certo, tutto questo sembra semplicemente una ridicola visione che però io ho visto percorrendo la strada della verità, che non è mai nuda e cruda e lineare ma anzi parecchio cotta, anzi stracotta e tortuosa, anzi aggrovigliata.

Tu stessa vieni da epoche di cui si sono perse le tracce. I tuoi antenati facevano sacrifici umani. E tu sei un’assassina. È naturale per te far piangere e morire maschi e femmine. Nulla e nessuno ti resiste. Tu sei da mettere in prigione.

Ti parlo francamente: vorrei ucciderti con le mie mani, amore. Ma non voglio più farmi trascinare da questi impulsi distruttivi. Ogni tanto verrò a cercarti per chiacchierare e prendere un tè. Qual è il tuo indirizzo? Ah sì, viale Castrense 56, palazzina B, interno 5. D’accordo, presto verrò a farti visita. Nel frattempo mi metto ad accarezzare il mostriciattolo che si è tanto divertito a stuzzicarmi i piedi: infatti eccomi qui, ancora sdraiato in riva al fiume che ti scorre dentro. Sai, non è facile uscire da questo sogno…

 

21 agosto 2024

così il sogno è per lui l’aurora dell’eternità 

Jean Paul

 

 

Non ci sono mondi, non ci sono sacre scritture, Dei, religioni, sacrifici,

non ci sono classi, tribù di famiglia, nazionalità,

non c’è alcun sentiero oscuro né alcun sentiero luminoso.

C’è solo la più alta Verità, il Brahman Assoluto.

(Avadhut Gita)

 

Mi ricordo un tema che mi dissero di svolgere in terza media, al Tasso, vicino a piazza Fiume, una scuola di un certo prestigio dove scrissero, su un libretto dedicato alla mia famiglia, dopo l’esame di terza media, che io ero un bambino con capacità di topo pratico e che avrei dovuto intraprendere un percorso scolastico di tipo tecnico scientifico (in sostanza, che avrei dovuto studiare per diventare ingegnere, o qualcosa del genere). Che lungimiranza, che intelligenza, che sensibilità in quei professori! Davvero avevano capito tutto di un ragazzino come me!

Comunque, tornando al tema, era questo, se ricordo esattamente (ma potrei sbagliarmi, ricordare male, inventare, divertirmi): «Quali sarebbero le tue reazioni se fossi rinchiuso vivo in una bara?».

Svolgimento:

Mi piace questo tema; curioso, e che apre interessanti prospettive. Certo, cazzo, vi sparate sostanze un po’ troppo forti ultimamente.

Allora cominciamo. «La vita corre, fugge via» ho detto al becchino ieri mattina mentre per gioco mi stavano calando nella fossa, «procede inarrestabile anche sotto questo sole di agosto ancora molto caldo.. L’estate tra poco terminerà a noi non resterà che tirare le somme. Richiudi senza esitare, amico, il coperchio di questa bara di legno pregiato. Il mio destino è compiuto».

Lui piangeva. Così il sottoscritto, non soltanto per consolarlo ma per il piacere di condividere una verità, ha aggiunto: «Bisognerebbe essere un fiore, un qualsiasi fiore, anche quello che vedo lì, a pochi centimetri dai miei occhi e che viene chiamato Lathyrus Odoratus. Multicolore, dal gambo lungo e sottile, e con un’ampia corolla. Vive lietamente tra un sasso e un cespuglio, nel fresco dell’erba. La sua esistenza è felice, poiché non ha bisogno di pensare e ricordare e tirare le somme. Se arriva un insetto e si posa su un petalo, avverte soltanto il frenetico movimento delle ali e delle zampe appoggiate sui tessuti, il pungiglione che penetra fino in fondo per scavare e spolpare… Tutto ciò potrei sentire anch’io se potessi essere un fiore sulla riva di un torrente. Purtroppo posso soltanto immaginare, ma immaginare, sognare, vuol dire vivere».

L’amico becchino, facendo uno strano sorriso e asciugandosi le lacrime, a questo punto mi ha domandato: «Tu vuoi dire che noi possiamo comprendere, sognando, la linfa che scorre lungo il gambo ed esplode nel fiore, il fremito della foglia, l’arsura del terreno in cui affondano le piccole radici e il sollievo indescrivibile della pioggia?».

«Esatto. Ma adesso vieni, c’è posto per tutti e due in questa tomba».

Così ci siamo ritrovati nel buio, buio fitto, dopo aver tirato sulla testa il coperchio della bara. Notai che, pur restando per lunghi momenti a contatto ravvicinato con il becchino, io non sentivo alcuno stimolo sessuale. Del resto, perché provare desiderio per un individuo brutto, basso e tarchiato? Avrei preferito avere vicino una bella ragazza, oh sì. È sempre meglio essere rinchiusi in una cassa da morto insieme ad una bella figliola piuttosto che con un uomo peloso e per giunta puzzolente, almeno per me!

Non avevo finito di parlare, avevo bisogno di aggiungere alcune personali riflessioni alle quali tenevo molto. «Vedi, imbecille che non sei altro» ho detto ancora, «abitualmente il cielo copre i nostri corpi come un manto lieve di gioia. Come fossimo bambini, e figli di un solo padre. (Cerca di seguirmi, perché queste cose non te le ripeterò mai più). Senza rendercene conto respiriamo le cose, tutte le cose, nell’aria del mattino. Il sole, infatti, è vivo. La campagna qui attorno è viva. Tu sei vivo. Scoperchiamo dunque la bara e usciamo fuori da questo tetro luogo, per giunta fasullo, nei quale però i nostri desideri sono veri anche se espressi in forma di canto o promessa o frase musicale e colorata… Non affliggiamoci più, te ne prego. L’aria è calda, la terra è calda. Andiamo, corriamo. Perché, vedi, come diceva Plotino (che era il fratello gemello, magro e piccolino, di quello grande e grosso e ciccione che tutti chiamavano Platone) non è l’anima a stare dentro i nostri corpi ma è il nostro corpo a stare dentro la grande, universale anima. Dunque siamo tutti dentro lo stesso ventre, e cantiamo. Anche se rimaniamo zitti zitti dentro una tomba, noi cantiamo. Lo senti? Il lombrico che striscia a pochi centimetri da qui, canta. Il fiore canta. L’insetto che si nutre del fiore, canta. La terra, nell’arsura o nel sollievo della pioggia, canta. Saremo presto cenere, ma questa cenere canterà… È questo il lungo canto del mondo che vive. Chiaro, no?».

C’era poca aria dentro quella tomba. M’era venuta anche fame. Abbiamo così  deciso che la sceneggiata poteva terminare. Siamo dunque usciti dalla fossa tra gli applausi del pubblico. La gente gridava: «Bravi, bravissimi! Nessuno come voi due sa dire quelle cose che coviamo dentro i nostri cuori!… Sciocchezze? Assurdità? Non ha importanza! Ci consola tanto ascoltare le parole che non riusciamo ad esprimere! Grazie! Grazie ancora e per sempre!».

Poi siamo andati a ritirare i soldi che ci spettavano. Ci hanno sempre pagato bene, in quel cimitero.

 

 

 

 

 

 

 

20 agosto 2024

Ho trovato un altro morto ammazzato di cui occuparmi, evviva! Questa volta non ho trovato una targa, veramente è una specie di edicola lungo il sentiero che parte da un’azienda agricola, la Cesarina, e s’inoltra tra i campi. Siamo nel cosiddetto Parco della Marcigliana. Di solito vado in Vespa a fare un giretto dalla parte del parco più vicina alla Salaria, ma una pattuglia di vigili, giorni fa, mi ha impedito l’accesso alla strada (non si capisce per quale ragione), allora sono andato in direzione Nomentana, mi sono fermato e ho camminato nei campi. Quanto voglio bene a quei vigili che mi hanno impedito di raggiungere il mio solito posticino dove contemplare il tramonto e fare due passi! Qui, davanti alla Cesarina (che io conosco benissimo perché ci abitava la madre dolcissima di un mio parente e una volta ero andato a trovarla: luogo di altri tempi, case di contadini ma molto ben fatte, un cortile dove giocavano i bambini e davanti i campi coltivati…), c’è un rimasuglio di campagna romana che io non conoscevo! Ci sono le allodole che da tanto tempo non vedevo e non ascoltavo!

Insomma mi sono incamminato e ad un certo punto del sentiero ho trovato questa edicola mal ridotta, completamente abbandonata con un nome scritto sul cemento: STEFANO e una foto. Il caso ha voluto che proprio mentre sostavo lì davanti è passata una signora che stava facendo la sua passeggiatina pomeridiana, e le ho chiesto notizie. Trent’anni fa circa quel ragazzo è stato ucciso per questioni di droga. Piccoli spacciatori di borgata, però questo Stefano (nella foto si vede un giovanissimo) deve essersi messo nei guai seri. La signora ha detto che l’hanno pugnalato e lui è morto qui. La signora è andata via e io sono rimasto a pensare a Stefano e a chi ha messo questa edicola e come mai è abbandonata.

Povero Stefano. Mi venivano le lacrime agli occhi. Il sole piano piano è tramontato, le allodole si muovevano in aria e sull’erba dove hanno i nidi.

Così ieri, verso sera, sono tornato e ho portato una bella piantina di rose e ho rimesso in sesto l’edicola. Per fortuna Stefano adesso è nell’eternità, non gli importa nulla di edicole e fiori e assassini. Però per fortuna ho un nuovo amico, anche se morto e pure ammazzato.

E fanno tre, con l’iraniano  e il giudice. Verrò presto a innaffiare i fiori, fa caldo adesso e la piantina ha bisogno di acqua. Ci porto pure Teresa. Anzi, può venire chiunque, sono invitati tutti i miei lettori. Si potrebbe anche organizzare una gita nella quale si vanno a visitare i vari morti ammazzati. Magari faccio pure pagare un biglietto… No, scherzo, il biglietto no. E poi chi ci viene a visitare i morti? I vivi hanno altre occupazioni, soprattutto adesso, stanno in vacanza, al mare, in montagna, oppure  sono in viaggio. I vivi sono fatti così, bisogna capirli. Poi ognuno di loro, dico dei vivi, ha i suoi morti, cioè familiari, amici, mica si può pretendere che la gente si metta a pensare pure ai morti degli altri e per di più ammazzati. Allora ci penso io. Come già ho scritto in questo mio Diario, ci sto benissimo insieme ai morti. Se poi sono morti ammazzati, ancora meglio. Mi fa male l’ingiustizia, la violenza. Cerco per quanto posso di rendere omaggio a queste povere persone che hanno subìto un torto assai grande, cerco di riparare, anche se è cosa inutile, a meno che non si creda (ma ce ne vuole per crederlo…) che un gesto di simpatia e un omaggio possano servire a qualcosa, come una luce che si accende nella tenebra, un messaggio per mondi sconosciuti.

Tra l’altro, da lì si vede, verso il tramonto, uno spettacolo: quando il sole sta per tramontare, i raggi del sole colpiscono le vetrate delle case di Grottaferrata e più su di Rocca di Papa, sul Monte Albano. Piccoli fuochi si accendono per qualche attimo. E poi lì dietro c’è il lago di Nemi, e il Santuario di Diana e il teatro dove si svolgeva il duello del re del bosco!

 

 

 

Voglio ancora ringraziare i vigili. In missione speciale da parte di Dio, senza saperlo, ovviamente. Angeli custodi in divisa. Prima di andare da Stefano, ieri sono tornato sulla strada chiusa al traffico, quella che raggiunge la Salaria da via della Bufalotta. La strada sta benissimo, l’asfalto è in ottimo stato, non si capisce il motivo di questa interruzione. Però un mio amico di zona, molto bene informato su ciò che succede intorno a Montesacro, mi ha rivelato che forse hanno chiuso la strada per impedire il ritrovo dei gay ad un certo punto del percorso. Possibile? A Roma è tutto possibile, anche una cosa insensata come questa, non mi stupirei se fosse vero. Sembra che i proprietari dei terreni e delle poche case coloniche, abbiano protestato. Che poi conosco benissimo quel posto. Seguendo quella strada, dopo una centrale elettrica (una volta era dell’Enel) si arriva a una collinetta dove si può godere di bei tramonti in questo pezzo di campagna romana rimasto, che è appunto quello tra la via Salaria e la via Nomentana, poco dopo Cinquina e la Bufalotta, che viene chiamato Parco della Marcigliana. Io da molto tempo mi fermavo per andare a vedere da vicino una grande e bellissima quercia secolare e poi tornare sulla strada per vedere il tramonto. Proprio quello è il ritrovo dei gay! Io avevo visto strani movimenti di macchine, avevo capito la faccenda ma non me ne curavo. Alcune volte c’era stato anche qualche tentativo di approccio ma io avevo gentilmente ed educatamente rifiutato. Facendo poi la figura di quello che se la tira. Uno infatti m’ha detto, una volta che già il sole era tramontato ma io continuavo a passeggiare: «Ahò, e che ce l’hai solo tu? Anvedi questo che fanatico!». E in effetti, chi poteva credere che andassi esattamente nel ritrovo dei gay a guardare il tramonto? Ma io che ne sapevo! E quando me ne sono reso conto che me ne importava? Ognuno si faceva i fatti suoi e tutto scorreva tranquillamente. C’era bisogno di interrompere una strada per impedire a liberi cittadini di Roma di fare le ammucchiate in posti assolutamente solitari e fuori da sguardi indiscreti? (Chissà poi se c’è stato davvero questo provvedimento).

Mah, fatto sta che, impedendomi di raggiungere il luogo degli incontri gay,  i solerti vigili urbani mi hanno fatto scoprire l’edicola dedicata a Stefano. Tante volte succede così. I solerti vigili urbani mi hanno spinto verso la felicità. E talvolta succede anche per questioni più gravi e importanti: il Male opera in favore del Bene. Proprio come si legge nel Faust di Goethe: «Dunque chi sei tu infine?». «Io sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente opera il Bene».

19 agosto 2024

La legge del contrappasso. Anche questa cosa, come il verbo formicare che da bambino avevo frainteso con fornicare pensando avesse a che fare con qualche strana perversione sessuale riguardante le formiche, non l’avevo capita e pensavo, da bambino, che fosse un espediente musicale nella musica jazz, un modo di suonare il contrabbasso in certi casi rari, nei quali il musicista magari si lascia andare a un “a solo” troppo lungo e allora gli altri componenti della band intervengono coi loro strumenti per sovrapporsi al suonatore di contrabbasso per farlo smettere e riportarlo sulla giusta strada dell’esecuzione.

Sì, la legge del contrabbasso. Charles Mingus la conosceva benissimo.

Ma come mi venivano in testa queste assurdità? È che da bambino ho avuto problemi con il linguaggio. Fino a due anni non parlavo, poi fino a quattro o cinque anni  ho elaborato un mio linguaggio personalissimo ma mi capivano soltanto i miei fratelli, che traducevano ciò che dicevo ai miei genitori.

Mi portarono pure dallo psichiatra. Al centro di igiene mentale che stava, se ben ricordo, al Policlinico Umberto I. Una grande sala, piena di bambini urlanti… e mia madre, poverina, con infinita pazienza se ne stava lì seduta ad aspettare il suo turno per la visita con lo psichiatra per sapere come fare con questo suo figlio che non si capiva se era mezzo scemo oppure un artista d’avanguardia che aveva a noia il linguaggio comune e aveva dunque deciso di elaborarne uno per conto suo, stranissimo, inesplicabile, che solo quelli della neoavanguardia degli anni Sessanta avrebbero potuto comprendere.

Poi arrivò il mio turno. Entrai con mamma in una camera (la ricordo benissimo e ora non aggiungo nullo di scherzoso o esagerato). Lo psichiatra in realtà era una psichiatra, cioè una donna. Aveva gli occhiali, si atteggiava in maniera molto professionale, avevva lo sguardo severo e mi faceva un po’ paura anche se mi disse facendomi una carezza sulla testa che non dovevo preoccuparmi, che dovevamo fare un piccolo esame per vedere bene la situazione. Ricordo come se fosse ieri che mi fece sedere davanti alla sua scrivania, mi mise davanti agli occhi un foglio di carta e una matita e disse: «Adesso, Robertino, disegnami una casa. Ma non la casa che ti hanno fatto disegnare all’asilo ma la casa come ti viene in mente senza pensarci, così, istintivamente». Io la guardai e guardai il volto preoccupato di mia madre. Allora, giuro che dico la pura verità, pensai che se avessi disegnato la casa come mi era venuta in mente in quel momento mi avrebbe rinchiuso al manicomio. La mia casa immaginata era lunghissima e stretta, arrivava fino alla luna e anche oltre, non c’etano finestre, e nemmeno la porta d’entrata. E non era dritta ma tutta a curve.

Io per paura di essere spedito dritto dritto al manicomio disegnai una casetta squadrata con le finestrelle davanti a un sentiero, e vicino c’era un alberello e poi una collina e tante pecorelle. Come la voleva la dottoressa. E che ero matto davvero a farla come l’avrei fatta se mi fossi fidato? Certo, è incredibile che a quell’età pensassi in quel modo e fossi capace di fregare degli adulti, e addirittura una psichiatra!

La dottoressa guardò il foglio e disse a mia madre: «Tutto a posto. Suo figlio è normalissimo».

 

 

17 agorto 2024

Perché alla fine, diciamo la verità, andare a teatro è quasi sempre una autentica tortura. E io devo ammettere che sempre, o quasi sempre, il momento più bello, veramente liberatorio, è quando si spengono le luci sul palcoscenico dopo l’ultima battuta, c’è un silenzio che dura qualche attimo e da lì di capisce che forse lo spettacolo è finito, e poi parte l’applauso, solitamente scrosciante, e allora si capisce che uno se ne può andare a casa, che è libero, che è terminata quella grande rottura di coglioni.

Non dimenticherò mai quella volta al teatro Argentina. Una persona che conoscevo, tra l’altro uno dei pochi scrittori che stimo, una persona coraggiosa, una perla rara tra i tanti mediocri, mi aveva invitato alla prima del suo spettacolo. Era una cosa importante: la prima serata di una messinscena di un testo scritto da lui, mi aveva invitato e io ero abbastanza contento di andarci, e per questo avevo portato con me una mia amica, anche per poter sopportare meglio, eventualmente, la possibile se non prevedibile rottura di coglioni. Che ci fu, purtroppo. Una cosa tristissima, un monologo ossessionante su vicende esistenziali drammatiche, un voce fioca, appena udibile al lume di candela, uno spettacolo insopportabile, deprimente… quando le luci si accesero in sala alla fine del primo tempo, io e la mia amica ci guardammo, sgomenti: ce l’avremmo fatta a sopportare il secondo atto, che sarebbe durato almeno un’altra ora?

Ma come potevamo fare? Io avevo incontrato all’entrata l’autore, gli avevo detto: «dopo lo spettacolo ci vediamo e così ti sinceramente cosa ne pensi», ero pronto ad andare nei camerini a complimentarmi con gli attori per dire: «Che interpretazione straordinaria!», insomma le cose orrendamente false e ipocrite che si pronunciano in queste situazioni, e soprattutto era chiaro che avrei dovuto complimentarmi soprattutto con l’autore dicendo: «Che inarrivabile, inaudita potenza il tuo lavoro!», «Che sconvolgente rivelazione del tuo innato talento drammaturgico che ingiustamente è rimasto sconosciuto fino ad ora ma che con questo inimitabile spettacolo viene finalmente alla luce per tutti noi, ma che dico, per il mondo intero!».

Dunque ero fregato. Non potevo andarmene. Così rimanemmo con la santa pazienza… ma quando si spensero le luci e l’attore a lume di candela ricominciò a parlare di putrefazione della carne, di tombe, di dolore fisico, io e la mia amica non ce la facemmo davvero e di comune accordo ci alzammo piano piano (anche per non svegliare lo spettatore che dormiva nella fila davanti), e ci avviammo all’uscita. Certo, avrei perso un amico, una persona così buona che non meritava un trattamento del genere, e in più avrei perduto un “contatto” con uno dell’ambiente letterario. Bisogna avere relazioni con qualcuno, che sia scrittore, critico eccetera, sennò si rimane soli come un cane e nessuno mai prenderà in considerazione la tua proposta nelle case editrici, nei giornali, alla radio e in televisione. Sì, l’avrei pagata cara. Ma era più forte di me, io non avrei sopportato un’altra ora lì dentro.

Così io e la mia amica chiedemmo gentilmente a bassa voce a un addetto del teatro di aprirci la porta ed uscimmo dal teatro Argentina.

Che gioia! Quale infinita beatitudine! Una sensazione di benessere meravigliosa! L’aria fresca, la liberà! Andammo a fare una passeggiata a piazza Navona, meravigliosa, l’aria era fresca e noi ridemmo, scherzammo su ciò che era accaduto, e ci rallegrammo assai di essere riusciti a evadere da quella elegante prigione.

Veramente, soltanto il teatro può dare felicità di questo genere.

 

 

 

Non se la prendano gli amici che fanno teatro (ne ho un paio), ho visto anche spettacoli molto belli in vita mia, però di solito è vero quello che ho detto, andare a teatro è terribile, almeno per me.

Infatti ho escogitato una cosa schifosamente falsa e ipocrita, di cui un poco mi vergogno ma che devo ammettere perché qui nel mio Diario c’è posto soltanto per la pure e semplice verità.

Invece di sorbirmi tutto lo spettacolo, quell’ora e mezza, o due, una volta ho fatto questo: sono andato all’uscita del teatro, ho aspettato che fosse finito lo spettacolo, poi quando si sono aperte le porte del teatro aprono le porte per far uscire il pubblico, io furtivamente mi sono diretto ai camerini. Qui c’era la solita fila di ammiratori che vanno a complimentarsi, però facendo in fretta sono stato uno dei primi a poter parlare con l’attore e perciò gli ho detto: «Uno spettacolo indimenticabile! E la tua interpretazione rimarrà nella Storia del teatro, dico sul serio, sono sincero, tu mi conosci, non direi mai una cosa per farti piacere, non sono uno spregevole ipocrita, io! Grazie. Grazie per questa tua inimitabile interpretazione! Spero che la critica sia benevola e comprenda che un lavoro del genere deve essere quantomeno esaltato perché sua ricordato negli anni a venire, forse nei secoli!».

Davvero l’ho fatto.

 

 

Mi ricordo, quando ero bambino, un adulto pronunciò la parola fornicare. Io compresi male e pensai che avesse detto: formicare. Sapevo ancora poco o quasi nulla del sesso ma quella persona aveva fatto intendere che aveva assistito a un atto imbarazzante in cui due individui avevano formicato. Perciò io pensai che si trattasse di qualcosa di perverso e che avesse a che fare con le formiche? Sesso con formiche? Ammazza oh, allora ero io il perverso!

 

16 agosto 2024

Ad un certo punto della mattina arrivano le odiose cicale, peste sonora dell’estate. Loro non vanno in vacanza. Ossessive, ripetono lo stesso suono per tutto il giorno, non si fermano mai le maledette. Ogni tanto, sì, una breve tregua. Ricaricano le batterie. Poi ricominciano.

Pure Virgilio, che pure amava tanto la Natura, nelle Bucoliche, esattamente nella seconda ecloga, scrive: sole sub ardenti resonant arbusta cicadis (cioè: sotto il sole ardente risuona dagli alberi lo stridulo canto delle cicale). Stridule cicale… Dunque rompevano il cazzo pure a lui.

 

 

Ferragosto è passato, per fortuna, ce l’ho fatta anche questa volta. C’è tempo prima che arrivi un’altra di queste feste comandate alle quali non si può sfuggire, nemmeno trasferendosi in un altro pianeta, lontanissimo, uno di quelli di cui parlano i libri sacri d’Oriente (il Ramayana, il Mahabharata, i Purana, i Veda): veri e propri paradisi dove si vive beatamente e a lungo, e in certi casi eternamente. Lasciando fuori i pianeti mediani, tra Cielo e Inferno come la Terra e quelli infernali, ai quale è meglio non pensare perché abbiamo già abbastanza cose infernali da queste parti, ne voglio citare soltanto un paio, i più importanti: Svarga,  o Indraloka, che è la dimora dei Deva, insomma degli Dei, e poi quello che sta addirittura ancora più in alto, cioè il Brahmaloka, la dimora di Brahma.

Là sì che mi piacerebbe vivere. Ovviamente insieme a Teresina.

 

 

15 agosto 2024

Mentre cercavo di scrivere qualcosa, uno di questi uccellini che stazionano sull’albero davanti alla mia finestra si è messo a cantare. Ma più che un canto era un discorso articolato fatto di suoni. A chi stava parlando? A un essere alato come lui? A me è sembrato, per un lungo momento, dimenticando la ragionevolezza, che si rivolgesse a me, per dirmi di smettere di preoccuparmi: se proprio vuoi scrivere, mi sembrava che dicesse, scrivi ma senza pensarci tanto, senza dispiacerti se ti leggono pochi, o rimuginare su come possono giudicare questi pochi ciò che scrivi. Tanto lo sai che non potrai comunicare l’essenziale. Quello lo faccio io. Io sono il canto del mondo. Non lo sapevi? Tu scrivi ciò che senti, perché istintivamente ti avvicinerai a qualcosa di autentico, di profondo, vero.

Poi mi sono svegliato da questo sogno, però anche se soltanto immaginate queste parole mi hanno colpito, e aiutato. Pure l’ho visto questo volatile dal canto soave e gentile e a suo modo istruttivo. In un attimo si è librato in aria ed è fuggito via.

 

 

Ecco dunque la cosa impegnativa che stavo cercando così faticosamente di scrivere. Invece è facilissima da dire.

Anni fa mi fermai davanti a una bancarella di via Nazionale, una di quelle piene di cianfrusaglie, di oggettini da un euro, di riproduzioni in miniatura dei monumenti di Roma e di vestiti a pochissimo prezzo. Non mi ricordo cosa cercavo, però mi misi a parlare con l’uomo, abbastanza giovane, che lavorava lì. Non so assolutamente come siamo arrivati a parlare di religione ma lui a un certo punto mi ha detto: «Ma scusami, non so perché fai tutti questi discorsi su Gesù e ti domandi se bisogna credere o no, eccetera. Gesù è come Krishna, un avatar, una incarnazione di Dio. E ce ne sono anche altri di avatar».

A quell’epoca avrò avuto più o meno sessant’anni. Durante la mia vita nessuno mi aveva detto una cosa così semplice e vera, e mai l’avevo letto in nessun libro. Ignoranza mia? Può darsi. Eppure in parrocchia, a scuola, e poi parlando con gli amici adolescenti, e di seguito per anni e anni leggendo libri su libri e riviste e ascoltato discorsi di persone di qualsiasi tipo, MAI avevo sentito enunciare una verità limpida e sacrosanta come questa. (Forse nemmeno molti “dogmi” verrebbero intaccati poiché ogni specifica verità, ogni rivelazione non escluderebbe l’altra, almeno nella maggior parte dei casi. Ogni incarnazione ha forse la sua storia, le sue vicende esistenziali, i suoi miracoli).

Forse perché è troppo limpida e sacrosanta. Se fosse pronunciata e dibattuta e propagandata, tutti i preti delle varie religioni continuerebbero a fare il loro mestiere ma senza prendersi troppo sul serio, senza guadagnarci troppo e soprattutto senza aggressività verso chi dice cose diverse. E ogni essere umano seguirebbe gli insegnamenti di Gesù, di Krishna, di Buddha, distinguendo nettamente e con grande facilità ciò che è vero e bello dei loro insegnamenti da ciò che altri hanno messo in bocca a questi profeti, uomini illuminati, incarnazione divine.

Sì, era molto semplice da scrivere.

 

 

14 agosto 2024

Agosto in pieno svolgimento. La solita messinscena: strade vuote, silenzio assoluto. Io e la persona sconosciuta ci occupiamo imperterriti delle piantine (tre) che stanno sotto la targa che ricorda l’iraniano Mohammed Hossein Naghdi, martire della libertà, che vado a trovare come si va a trovare un vecchio amico. Resto lì per un poco. Mi trovo bene con lui, e in genere con i morti, soprattutto con quelli ammazzati. Infatti ho comprato un’altra piantina e l’ho collocata vicino al monumento (abbastanza brutto) che ricorda il magistrato Mario Amato, assassinato da un terrorista “nero” in viale Jonio, a due passi da qui, il 23 giugno 1980.

Però i morti non interessano soltanto a me. A voi, affezionati lettori del Diario, oggi racconterò qualcosa di ciò che dissero i morti a Victor Hugo. Esiste un libro molto curioso e bello che in Italia non è mai stato pubblicato: Les Tables Tournantes de Jersey, cioè la trascrizione delle sedute spiritiche alle quali il grande Victor partecipò durante l’esilio durato circa un paio d’anni, dal 1852 al 1855, sull’isola di Jersey, nello stretto della Manica.

Eppure I tavolini parlanti di Jersey compare a pieno titolo in numerose “opere complete” pubblicate in Francia (prima fra tutte, la prestigiosa Œuvres complètes de Victor Hugo – volume IX – a cura di Jean Massin, Le Club François du Libre, Paris 1967-1969).

Hugo coinvolse in questo gioco la moglie, i figli Adèle e François-Victor, l’amico Auguste Vacquerie e innanzitutto la famosa medium Madame de Girardin, ospite per qualche tempo dell’isola. Con l’assistenza della Girardin stessa, Hugo incontrò ed “intervistò” le anime di scrittori (Chateabriand, Dante, Racine, Shakespeare, Molière, Cervantes, Balzac…), personaggi storici (Annibale, André Chènier…), entità simboliche (La Critica, La Morte, L’Ombra del Sepolcro…), parlò addirittura con le anime di Gesù e Maometto.

I dialoghi sono spesso molto belli, surreali divertenti. Le curiosità e le stranezze non mancano. Gli spiriti raccontano avvenimenti, giudicano con severità, discettano solennemente o con improvvisi guizzi di humour attorno a questioni di morale, religione e arte. Chénier descrive ciò che pensava la sua testa ghigliottinata dopo essere caduta nel cesto… Dante dice a Hugo, in italiano: “Caro mio”… Shakespeare detta alcuni suoi versi “inediti”, però in lingua francese, perché, spiega l’anima del grande bardo, “l’inglese non è lingua adatta alla grande poesia”. (La reazione di Shakespeare a questa affermazione non si conosce).

Chi sono queste voci dell’Aldilà? Anime vere di trapassati richiamate dalla potente medium in visita a Jersey? Semplicemente l’intelligenza di Hugo “quintuplicata dal magnetismo che fa muovere il tavolino” come dice il figlio François-Victor? Un gioco letterario, un passatempo del famoso scrittore che non sapeva come far passare il tempo? Forse un po’ di tutto questo.

C’è però da dire che in Oriente qualcuno (anzi no, alcuni milioni di persone) prende molto sul serio lo spiritismo di Victor Hugo. In Vietnam è stata fondata una religione (e non si tratta di una piccola setta di fanatici, ma della terza religione di quel Paese dopo il Cristianesimo e Buddismo) che considera Hugo un vero e proprio Santo. Per il Caodaismo (Cao Dai) Victor Hugo è colui che ha aperto la strada all’Uomo verso il mondo dei morti. Non dimentichiamo che lo stesso Hugo parlava di questo testo come il libro che sarebbe diventato “la Bibbia dell’avvenire”.

In Francia la raccolta delle trascrizioni delle sedute apparve molto tardi, nel 1923, a cura di Gustave Simon. Seguirono raccolte di pagine scelte, fino alla più recente (1996) per i tipi dell’editore L’école des lettres, a cura di Jean Maurel. Il testo venne accolto in alcune opere complete (ma non nella Plèiade di Gallimard). Alcuni editori hanno preferito adottare, per quanto riguarda la firma del libro, la formula Chez Victor Hugo, che sarebbe come dire: “Circolo di Victor Hugo” o “Sedute di casa Hugo”. Perché mai? Per la ragione che alle sedute partecipavano amici e conoscenti di Hugo; e anche perché, talvolta, la trascrizione delle sedute era affidata non a Hugo ma ad una di queste altre persone.

Riguardo poi agli autografi, ci sono alcuni misteri. Esistevano quattro quaderni, che sparirono per un certo numero di anni. Poi ne saltò fuori uno che è conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Gli altri tre, perduti. Pare esistano qui e là pagine mai pubblicate nemmeno in Francia, che si potrebbero recuperare e tradurre e pubblicare per la prima volta.

 

Nota:

In Italia non è stata pubblicata alcuna traduzione integrale del testo di Hugo, ma soltanto saggi che inseriscono stralci del testo:

  1. Chambers-M. Ebon, Conversazioni con l’eternità, Crisalide Edizioni, Spigno Saturnia (Latina) 2002.

Giorgio di Simone, Dialoghi con l’infinito, l’opera sconosciuta di Victor Hugo, Edizioni del Centro Studi Italiano di Parapsicologia, Genova 2001.

Una bibliografia essenziale del testo in Francia è la seguente:

Gustave Simon, Chez Victor Hugo: Les Tables tournantes de Jersey, Luis Conard Editeur, Paris 1923.

V.Hugo, Œuvres Complète (a cura di Jean Massin),Volume IX, Le Club François du Livre, Paris 1967-1969.

Chez Victor Hugo, Les Tables tournantes de Jersey, L’école des lettres, Paris 1996.

 

 

 

 

 

 

 

13 agosto 2024

Questa cosa non l’ho letta da nessuna parte. Ho studiato un poco la faccenda, sono andato a cercare i testi, li ho confrontati, e perciò adesso pubblico la seguente riflessione nel mio Diario.

Ecco l’inizio del celebre romanzo di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (nella traduzione di Giovanni Raboni):A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V.”. (Longtemps, je me suis couché de bonne heure. Parfois, à peine ma bougie éteinte, mes yeux se fermaient si vite que je n’avais pas le temps de me dire : «Je m’endors.». Et, une demi-heure après, la pensée qu’il était temps de chercher le sommeil m’éveillait ; je voulais poser le volume que je croyais avoir encore dans les mains et souffler ma lumière ; je n’avais pas cessé en dormant de faire des réflexions sur ce que je venais de lire, mais ces réflexions avaient pris un tour un peu particulier ; il me semblait que j’étais moi-même ce dont parlait l’ouvrage : une église, un quatuor, la rivalité de François Ier et de Charles-Quint.).

Ma Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone di pensieri (pagina 290 del manoscritto originale), scrive: “L’uomo non si avvede mai precisamente del punto un cui egli si addormenta, per quanto voglia procurarlo. Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento e quasi un’immagine di esso fine, e se l’uomo non può sentire il punto il cui le sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte”.

Infatti nelle Operette morali, esattamente nel Dialogo di Federico Ruysch e della sue mummie, possiamo leggere: “Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della morte. Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi. Ruysch. Come non ve n’accorgeste? Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre. Ruysch. Ma l’addormentarsi è cosa naturale. Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.”.

Dunque mi sembra che Proust abbia commesso un errore.

Allo stesso modo di quando ho notato, soltanto io, che la targa commemorativa della casa dove ha abitato Ennio Flaiano è stata posta tra due numeri civici, sopra un muro che divide esattamente due palazzine, per cui non si capisce dove stava la casa, non so se congratularmi con me stesso o spaventarmi.

 

 

 

 

12 agosto 2024

Oggi la creatura più dolce che io abbia mai conosciuto, mi ha scritto: «Ti amo tanto». Anche questo fa parte di un diario, no? Di altro non riesco a scrivere perché le cose da raccontare sono troppe, e caotiche, e indecifrabili. Questo mondo è un mondo di pazzi, e i più pazzi sono quelli che lo governano. Ci sono due guerre non molto lontano da qui. Servono a vendere armi, a fare soldi, e a soddisfare la sete di potere di schifosi individui. Certe volte le notizie che arrivano sembrano inventate, fasulle, ma soltanto perché questi conflitti non hanno alcun senso e sono privi di qualsiasi giustificazione, perciò sembrano irreali. I morti sono veri, invece… Ma a loro, ai più pazzi tra i pazzi, non importa. Tra l’altro, ho l’impressione che i più pericolosi non siano quelli che si fanno vedere in televisione. I politici, i militari, è evidentissimo, sono burattini.

Ma adesso non voglio pensarci, sennò mi sento male.

E poi, strano, non vedo la solita folla oceanica sotto casa mia. Dove saranno andati? Ah sì, al mare, tutti quanti.

Ok, va bene così. A domani.

11 agosto 2024

Scrivo brevemente perché sono pigro, e non dilungarmi è nella mia natura di scrittore , inoltre non voglio che questo mio Diario sia usato per far passare il tempo ai lettori. Per quello ci sono i romanzi.

Qui i pensieri scorrono indisturbati uno dopo l’altro, così come vengono in mente. Nessuno che mi censuri, che mi “riveda” il testo, come farebbero i cosiddetti editor, quegli individui che per le case editrici rileggono i testi da pubblicare, e correggono, tagliano, ricuciono… Stronzi! Peggio degli austriaci! (Per comprendere quest’ultima frase si può rileggere il Diario dell’otto agosto).

Dunque siamo nel pieno della grande messinscena dell’agosto. Città vuote, negozi chiusi, medici assenti, caldo opprimente, solitudine, angoscia… Eppure sono qui a scrivere sul mio sito, covando il mio malumore. Per la prima volta possiedo un mezzo per scrivere e pubblicare direttamente, senza intermediari, e questo è importante per me. Unica compagnia, gli uccellini che cantano beati nei giardino  sotto casa.

Per fortuna in agosto non c’è il chiasso dei bambini della scuola elementare qui vicino durante l’ora di ricreazione (tre mesi di vacanza, una delle tante assurdità italiane), li ascolto sempre durante l’anno. Mi danno fastidio. Che avranno tanto da gridare? Non lo sanno che diventeranno vecchi, non glielo hanno detto? No di certo. Nemmeno che dovranno morire. E gli riempiranno la testa di falsità per farne dei bravi, utili, laboriosi cittadini. (Peccato che la società di cui dovrebbero far parte stia crollando, a quanto pare, i sintomi ci sono tutti: guerre, crisi economiche, valori etici completamente distrutti…). Bisognerebbe che un maestro di prima elementare, il primo giorno di scuola, appena entrato in classe, facesse il seguente discorso: «Buongiorno, poveri disgraziati. Ancora non sapete in quale guaio vi siete cacciati. Certo, non è colpa vostra ma dei vostri genitori. Dopo essere stati svezzati siete stati mandati qui per assorbire nozioni in maniera assolutamente acritica. Dopo i primi elementi della lingua e della matematica, cominceranno a condizionarvi facendovi studiare una Storia in gran parte falsa, con “fatti” che, se veri, sono presentati in maniera del tutto tendenziosa. Come la Storia nel secolo precedente, ad esempio.  La prima guerra mondiale: un inutile massacro, da mettersi a piangere ogni volta che ci si pensa, ma vi parleranno di Patriottismo, Eroismo… La seconda guerra mondiale? Certo, i “buoni” e i “cattivi” si vedevano chiaramente ma i buoni non erano così buoni come ci hanno voluto far credere.  I responsabili delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non sono mai stati processati da un tribunale come quello di Norimberga. Il presidente americano Truman e gli altri. Autentici criminali, pazzi. La volete sapere la verità? La guerra era già vinta dagli USA ma si era già in piena “guerra fredda” e gli americani hanno voluto bruciare i russi sul tempo, hanno fatto presto per dimostrare chi comandava, chi avrebbe comandato almeno in Occidente. Ma a voi questo non ve lo diranno. Perché questo basterebbe per mettere quasi sullo stesso piano, quanto ad atrocità e delitti contro l’umanità, l’America c la Germania nazista. Soprattutto vi insegneranno a stare fermi nei banchi, voi che avete un bisogno fisico di correre e giocare e stare alla’aria aperta. Invece no, vi hanno mandato qui a scuola per farvi terrorizzare con questa storia malefica dei voti, per mettervi in soggezione e uno contro l’altro, per farvi diventare ambiziosi, subdoli, asociali. Dei maestri e dei professori che incontrerete negli anni a seguire meglio non parlare. Saranno bravissimi a riempirvi la testa si cazzate. Io posso dirvi queste cose soltanto perché sono un personaggio di fantasia partorito da uno che se ne sta da solo in agosto e scrive innanzitutto per non morire di nevrosi. Certo, non voglio essere del tutto pessimista: a dispetto di tutto, imparerete un sacco di cose che vi interessano e sarete relativamente felici. In fondo questo è uno sfogo. Forse andare a farsi una bella passeggiata o un giretto in Vespa sarebbe stato meglio, questo lo dico io personaggio all’autore. Però è vero che sarete ingannati molto. Vi faranno credere un sacco di bugie riguardanti la politica, la religione… Sarete condizionati e penserete ciò che vogliono i potenti di questo mondo. Anche le vostre ribellioni adolescenziali saranno programmate, perdonate, accettare per darvi l’illusione di quel quarto di luna romantico e rivoluzionario che a una certa età non si nega a nessuno. Poi vi sposerete, o conviverete, farete figli… poi la pensione e infine una bella tomba tutta per voi dove finalmente vi lasceranno in pace. Bel programmino, vero? E questo è solo l’inizio. La prima elementare. Il primo tratto di un percorso da incubo. Del resto siete capitati in un pianeta mediano, cioè un pianeta collocato esattamente tra i pianeti superiori come il Brahmaloka paradisiaco (dimora dei Deva e del dio creatore), e quelli infernali dominati dagli asura, cioè dai diavoli. Tanto peggiore questo luogo perché si trova in quella fase che gli antichi testi sacri (i Veda, i Purana…) chiamano periodo del Kali-Yuga, l’età della dissoluzione, del crollo, dominato cioè da Kali, La Distruttrice. Voi non potete fare altro, per salvarvi, che prendere coscienza di tutto ciò. Ma pochi saranno quelli che svilupperanno una coscienza critica. Gli altri andranno in massa da una porte o dall’altra, si divideranno, si faranno la guerra perché i potenti di questo mondo vogliono che vi ammazzate tra di voi senza conoscere il vero nemico. Comunque adesso basta, bambini. Vi ho già detto troppo. Cominciate a studiare le lettere dell’alfabeto. Ecco, questa è la prima lettera dell’alfabeto italiano, la lettera A: la vedere che bella letterona di plastica? Ecco, con questa lettera si forma la parola Amore, l’unica che in fondo conta e che può salvarci davvero».

 

I bambini della piscina condominiale. Musica per le mie orecchie. Finisco di scrivere il brano precedente e li sento. Meno male che c’è l’altra faccia di ogni cosa, sennò uno si ammazzerebbe subito. Ora che ci penso, potrei fare come quegli scrittori che venivano pubblicati da Adelphi negli anni Ottanta. Parlavano soltanto della negatività della vita, ogni pagina era deprimente, triste, e non lasciava speranza. Infatti quegli scrittori parlavano continuamente di suicidio, però non si suicidavano mai. Pubblicavano con la casa più snob e importante dell’epoca, guadagnavano un bel po’ di soldi e magari scopavano pure.

 

 

 

 

10 agosto 2024

Oggi una folle oceanica sotto casa mia. Gridavano: «Evviva il Re del bosco! Evviva la piccola dea!». Io mi sono affacciato al balcone e ho gridato: «È giunta l’ora delle decisione irrevocabili… Va bene, continuerò a scrivere il Diario, che sarà il diario di uno scrittore, ma non dimenticherò la faccenda del teatro del duello e della villetta abusiva. Tornate a casa, amici». A proposito del teatro e dell’abuso edilizio, voglio riportare un articolo dal sito www.edilportare.com. Titolo: Abusi edilizi, la demolizione è sempre legittima anche dopo molti anni. Sottotitolo: Consiglio di stato: per l’abbattimento non sono necessarie motivazioni né il proprietario può chiedere che la sua situazione sia tutelata. Segue il testo: Anche a distanza di molti anni, il Comune può ordinare la demolizione di un abuso edilizio senza dover dare alcuna spiegazione. Lo ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza 8501/2020. I giudici si sono pronunciati sul ricorso contro il provvedimento di annullamento del permesso di costruire e la contestuale ingiunzione di demolizione delle opere abusive. Sull’area, nel 1954 era stato apposto un vincolo paesistico. Il proprietario aveva quindi presentato richiesto il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica, ottenendole nel 1964. Dalle foto storiche era però emerso che i lavori erano iniziati già nel 1956. Ulteriori indagini avevano anche accertato che il progetto assentito non prevedeva la costruzione del livello interrato. Nel 2018 il Comune ha quindi annullato d’ufficio il permesso di costruire ed emesso contestualmente un ordine di demolizione, ma il proprietario ha lamentato che non ci fossero delle ragioni di pubblica utilità che motivassero la demolizione a distanza di molti anni. I giudici del Consiglio di Stato hanno confermato l’ordine di demolizione spiegando che “la demolizione di un immobile abusivo non richiede una motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata che impongono la rimozione dell’abuso anche laddove lo stesso sia adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell’opera”. In materia di abusi edilizi, l’amministrazione pubblica, anche a distanza di tempo, ha l’obbligo di adottare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato l’esistenza di opere abusive. Il proprietario, ha concluso il CdS, non può prospettare un legittimo affidamento, cioè non può dolersi dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione abbia emanato il provvedimento.

 

 

9 agosto 2024

Stamattina ho scritto cose soltanto rabbiose e tristi, rileggendo l’effetto era veramente deprimente e io non voglio deprimere i miei numerosi lettori (alcune migliaia, dicono gli ultimi rilevamenti, anche se un sito giornalistico cinese, citando fonti difficilmente verificabili, forse non troppo attendibili, dichiara un numero impressionante: uno, forse due milioni di lettori. Cifre che, in ogni caso, lo confesso, mi lusingano, mi commuovono, e mi incoraggiano a proseguire la stesura di questo Diario).

Perciò oggi pomeriggio, mettendo da parte gli scherzi, pubblico  le poesie di una nuova poetessa, assolutamente inedita: Matilde. Sono brevi, bellissime composizioni. Questi versi partono dall’anima e arrivano in cielo, chissà dove.

 

La foglia ti dà la sua mano,

gracile ma risoluta.

Le nervature scrivono il tuo destino,

contro luce, trasparente.

 

 

Vola sulle foglie

il vento inaspettato.

Forse arrivi tu.

 

 

La luce entra nel cunicolo

ed esce nell’infinito.

 

 

Una lacrima disegna una linea

che scorre nell’infinito.

 

 

 

 

 

8 agosto 2024

Ah l’infanzia, innocente territorio dove nessuno può tornare! Mi ricordo bene la scuola elementare dove i miei genitori mi hanno mandato. Suore vicentine. Ci facevano fare le recite di fine anno ambientate sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Noi maschietti indossavamo la divisa dei fanti, quelli che nella realtà si facevano massacrare al grido di «Savoia!», e infatti noi lo gridavamo convintissimi. Le bambine invece cantavano gli inni patriottici, del tipo: «E se non partissi anch’io sarebbe una viltà!».

Che stronzate. Ma c’è poco da scherzare. Un’educazione del genere ti fa crescere male e ti assicura gravi disagi psichici quando sei adulto. Io per un certo periodo della mia vita ho odiato gli austriaci e in un certo modo li odio ancora. Maledetti austriaci la pagherete cara, anche se non mi avete mai fatto niente di male. Me lo dice il cuore, qualcosa che è piantato nel centro del mio essere come una pianta velenosa e che niente e nessuno potrà estirpare.

Ma perché le suore ci impartivano lezioni di odio invece che di amore? E non lo sapevano che orrendo e insensato massacro era stato della prima Guerra Mondiale? Misteri della religione, cioè del cattolicesimo e per meglio dire del cattolicesimo veneto. Perché le suore sono sempre venete, non so per quale ragione.

 

 

 

Anni fa mi ritrovai a parlare, alla fine della presentazione di un libro,  con un gruppetto di persone a loro modo “originali”:  Valerio Morucci, Adriana Faranda, Giusva Fioravanti, tutti terroristi rossi e neri che avevano sulle spalle svariate condanne per omicidio. Il volume che era stato presentato riguardava la storia degli “anni di piombo”. Ad un certo punto provai una strana sensazione di disagio, d’imbarazzo, mi sentivo un intruso, uno che poi non aveva fatto nulla d’importante, perché mi rendevo conto che tra quelle persone, tutti miei coetanei, ero l’unico che non aveva mai ammazzato nessuno.

 

 

7 agosto 2024

Ma come sarà questa faccenda del mio cognome da ebreo? In famiglia, risalendo indietro di generazione in generazione, non salta fuori nulla di “ebraico” anzi: preti, suore… Mah, eppure durante la mia vita c’è sempre stato qualcuno che ad un certo punto mi domandava: «Sei ebreo?». E che ne sapevo io? Comunque rispondevo di no. Anche perché ero un poco intimorito, non si sa mai, il nazista sta sempre in agguato… Del resto in famiglia, soprattutto nei discorsi che mio nonno, commerciante di giocattoli, faceva al telefono con i suoi amici e colleghi, sentivo ogni tanto giudizi chiaramente antisemiti, non cattiverie, diciamo ingiurie “alla romanesca”, quasi bonarie… E questa è una cosa che nemmeno Woody Allen avrebbe potuto immaginare. Nascere in una famiglia di ebrei antisemiti!

Pensandoci bene: chi può saperlo davvero se sono ebreo o no? Potrebbe essere capitato il caso di un ebreo mio antenato che, mettiamo duecento anni fa, decide di sposare una cristiana (una gentile) e chiude perciò qualsiasi relazione con la comunità ebraica: quando un ebreo compie  un passo del genere, ne viene escluso automaticamente. Perché questo lo sapete, vero? Se un ebreo sposa una cristiana, con gli ebrei ha chiuso. Il figlio di quella coppia non saprà nulla dell’ebraismo del padre, e figuriamoci il figlio del figlio e così via. È chiaro che in due o tre generazioni quei Varese non avranno più nulla a che vedere con l’ebraismo. Si sposeranno in chiesa e non si metteranno certo a spendere soldi per ricerche genealogiche che, ancora adesso, se sono vere costano moltissimo. (Lasciamo stare perciò le false agenzie di ricerca genealogica che, per guadagnare un po’ di soldi, ti trovano la discendenza “nobile”. E che non ce l’ho pure io lo stemma dei Varese? È bellissimo. C’è una torre con dei leoni, una cosa del genere, ora non mi ricordo dov’è finito il diploma con l’elenco di antenati gloriosissimi: cavalieri, contesse… Come no!

Peccato però, io me lo sentivo “dentro” di essere un ebreo, soprattutto da bambino, non facevo gli scambi di figurine dei calciatori ma prestavo la più rara, ad esempio quella di Taccola, l’attaccante della Roma, chiedendo poi di restituirla dopo un paio di settimane con l’aggiunta di almeno dieci o quindici figurine. Mi ricordo che perciò i ragazzini mi chiamavo strozzino. «Ah sì, Varese è uno strozzino? Allora la figurina di Taccola te la puoi anche dimenticare!» dicevo io.

E poi c’è un altro indizio. Ho saputo che al ghetto, qui a Roma, al centro culturale, ti fanno la ricerca genealogica molto accurata e gratis. Loro sono contenti di trovare un ebreo, uno qualsiasi, e te la fanno senza farti pagare un solo euro. Dunque, sapete com’è, approfittarne mi farebbe piacere. Uno risparmia e si ritrova in tasca le stesse monete di quando è uscito di casa, e non è poco. Non so se mi spiego…

A parte gli scherzi (che gli ebrei, notoriamente intelligenti, sono in grado di apprezzare, abituati a ironizzare loro stessi su certi “pregiudizi”), non è escluso che non abbia davvero sangue ebreo nelle vene. A me francamente non me ne frega un cazzo, non credo alle razze e nemmeno alle religioni tradizionali… Che poi, se sapessi di essere ebreo anche in piccolissima parte, io diventerei immediatamente ebreo ortodosso, cioè uno di quelli col cappelletto e le treccine, che secondo me qualche problema ce l’hanno, però sono sicuri di conoscere la Verità, che secondo loro è quella che sta nei testi scritti tramandati nei secoli, e così vivono beati, felici, senza la dolorosa coscienza critica che fa dubitare di tutto…

Ma è inutile che parli a voi, cristiani, gentili… Rabbi Varese vi saluta e vi dà appuntamento alla prossima pagina di diario.

 

 

 

6 agosto 2024

Stamattina mi sono svegliato di buon umore. Ho riposato bene, Poi è arrivato un elogio e un incoraggiamento da un amico, e questo mi basta: ieri sera pensavo che fosse una vera pazzia scrivere per pochissime persone e invece va bene così, anzi meglio, almeno per adesso, mi fa stare tranquillo. Internet è pieno di coglioni, ci può essere quello che polemizza, insulta. Invece me ne posso stare buono e tranquillo, pensando che posso scrivere anche per quella persona che cura le piante dell’eroe iraniano. Non la conosco e non lo conoscerò mai, e perciò non leggerà mai quello che scrivo. forse, Ecco il pubblico che preferisco: fatto di persone invisibili, di pochissimi, di lettori potenziali, probabilmente inesistenti.

Si vive bene in questo condominio costruito da Belisario o da un costruttore simile a lui nelle scelte architettoniche da vero palazzinaro: cemento armato a più non posso e linee squadrate da quadro di Mondrian. Soprattutto adesso, in agosto. Silenzio assoluto. Non si capisce se sono tutti morti, o dormono, o guardano la televisione (no, quella non la vede più nessuno). Ogni tanto esco fuori di casa per una passeggiatina, per fare la spesa, nella desolazione tipica di questo periodo estivo, nel caldo insopportabile, nella desolazione dei negozi chiusi per ferie, incontrando turisti sudaticci che non si capisce cosa ci vengano a fare a Montesacro… Ma non rimpiango affatto la casa di Val Melania dove ho abitato alcuni anni. Certo, stare in quel quartiere mi ha insegnato molto. Ad esempio, ora so tutto sul riciclaggio di denaro sporco. È un gioco da ragazzi. Ora anche Val Melania non è più quella di una volta, ci sono tante persone normalissime ma ancora si possono incontrare i vecchi boss della malavita che mi hanno spiegato tante cose e soprattutto raccontato i bei tempi andati… Eh, bei tempi davvero… Un giorno mi presentarono uno che aveva partecipato alla famosa rocambolesca evasione con elicottero dal carcere di Rebibbia, qualcuno dei miei lettori ricorda l’episodio? Il 23 novembre del 1986 alcuni malavitosi rubarono un elicottero all’aeroporto dell’Urbe sulla Salaria e scesero con questo sul campo di calcio del carcere. Così un paio di detenuti salirono sull’elicottero che indisturbato se ne andò volando via come una farfalla gigante verso la libertà. Certo, ora sono cose che non si possono più fare, mi diceva il vecchio boss, troppe tecnologia, allarmi eccetera, e poi i giovani sono tutti dei rincoglioniti, ha detto. Eh sì, questo è vero, ho detto io.

Qui invece famigliole coi bambini, impiegati, commercialisti, “brava gente” diciamo. Che non farebbe mai evadere qualcuno da un carcere con l’elicottero. Ma soprattutto un silenzio meraviglioso, anche se a tratti inquietante.

Invece a Val Melania… (Vi prego, miei lettori, fatemi indugiare un poco in questi amabili ricordi…). Innanzitutto non potrò mai dimenticare le campane registrate della chiesa di Val Melaina. Una cosa falsa, un suono veramente orrendo, che induce alla bestemmia o quanto meno all’ateismo. Tra l’altro, verso sera, quando parte la registrazione ad altissimo volume, alle otto in punto (che tra l’altro non si capisce cosa significhi perché non è l’ora del Vespro), non si sente il din don delle campane ma il ritornello di una melodia banale, una litania sacra recente. Perché non registrare le note della Salve Regina? Se non dovere fare una cosa brutta, almeno rendetela un pochettino meno brutta, no?

Però se uno si trova verso le sei di pomeriggio a Villa Borghese può ascoltare, in quello stesso momento, magari durante uno di quei meravigliosi tramonti romani, le stupende campane del Centro della città, quelle di Trinità dei Monti e le altre lungo le vie adiacenti, che riavvicinerebbero a Dio anche il più miscredente e ateo e bestemmiatore uomo del mondo.

È una questione di soldi, di ceto sociale, ovviamente. Col cavolo che se le beccano le campane finte gli abitanti della Roma vera. Queste sono cose da periferia, per i poveracci. Che poi, sai che gli frega a quelli di Val Melaina delle campane, che ancora suonano registrate! Io li conosco. Io ci ho abitato a Val Melaina!

Devo dire che alcuni amici pensano che per me andare ad abitare a Val Melaina sia stata conseguenza di scarsa agiatezza economica. Nulla di più sbagliato. Io volevo conoscere il popolo, sentirne l’odore, per così dire (e in effetti, qualche volta in ascensore quell’odore si sentiva…). Non volevo essere come quegli snob dei Parioli e di quartieri simili, che sono “di sinistra”, e magari comunisti, a parole. Loro il popolo lo amano ma da lontano, e posso capirli. Io invece amo davvero il popolo, e il popolo mi ama, oppure mi amerà, ne sono sicuro.

E poi, verso sera, si aggiungeva lo straziante blues del suonatore di strada all’uscita della metropolitana di via Scarpanto. Forse soltanto a New Orleans e lungo il Mississippi si ascolta una musica del genere.

Ad un certo punto ecco le campane. Campane registrate e blues, un binomio sorprendente, inaudito, stravolgente, che potrebbe ammazzarti, che solo gli abitanti di quel quartiere possono vivere. Gli altri possono soltanto immaginarlo da lontano, possibilmente da molto lontano.

 

 

 

 

 

5 agosto 2024

 

Ieri sera le piantine sotto la targa dell’iraniano avevano la terra umida. Lei (o lui) non ha mancato al suo dovere/piacere.  Bene così.

A proposito di targhe, poco più in là della targa che ricorda l’iraniano, c’è quella che ricorda lo scrittore Ennio Flaiano (da me molto amato). C’è scritto: in questa casa abitò lo scrittore Ennio Flaiano, eccetera. Soltanto che la targa è stata inserita sul muro che divide due palazzine che hanno naturalmente numeri civici diversi. Dunque non si sa dov’era l’abitazione di Flaiano, se in una palazzina o l’altra.

A Flaiano sarebbe piaciuta immensamente questa piccola assurdità. Per lui, scrittore dell’incomprensibile fluire della vita, della sua assoluta anormalità, della futilità mischiata al dolore cupo di ogni esistenza umana.

Possibile che me ne sia accorto soltanto io? E quelli che l’hanno messa lì, quelle persone che per amore di questo scrittore l’hanno posta proprio in quella posizione, non se ne sono accorti? E gli inquilini delle due palazzine, e i passanti?

No, soltanto io. Non so se essere orgoglioso o spaventarmi.

 

 

Mi piace questo Diario da scrivere ogni giorno, quasi in presa diretta. Le mie ottimistiche previsione sul numero dei miei attuali lettori sono state forse ottimistiche. Magari quattro o cinque hanno letto, ma non hanno reagito molto.

Teresa, la dolcissima creatura, mi ha riempito di elogi. Certo, lei è un po’ di parte. Poi mi ha incoraggiato dicendo che a poco a poco i lettori cresceranno, ne è sicura. Però per adesso è lei e basta, a quanto pare. Un amico mi ha mandato un cuoricino su Messanger. Non è poco. Si parte da un cuore e si arriva chissà dove, magari al premio Nobel. Ah, quello lo darei per sicuro. Non dico per l’anno in corso, ma il prossimo anno non mi scappa. Certo, dovrò comprarmi l’abito da cerimonia, penso uno smoking, e andare fino a Stoccolma e fare un discorso. Cose pesanti da fare, in effetti, per me. Ma il premio consiste in un sacco di soldi, e allora sì che ne vale la pena. Almeno Teresa potrebbe accompagnarmi, ne sarebbe felice sicuramente, a lei piace viaggiare.

Dice che sono lo scrittore più grande, più importante che abbia mai conosciuto. Eh te credo, di scrittori ha conosciuto solo me!

4 agosto 2024

Sembra, per certi aspetti, un racconto di Henry James. Qui vicino casa, cioè vicino a piazzale Adriatico, esattamente a piazza Elba, c’è una targa fissata a un albero che ricorda l’omicidio di Mohammed Hossein Naghdi, un militante della resistenza iraniana all’orrenda dittatura teocratica dell’ayatollah Khomeyni, avvenuto il 16 marzo 1993. Quando venni ad abitare da queste parti notai questa targa. Sotto c’era una specie di canestro rettangolare, un portafiori, vuoto, completamente abbandonato, senza traccia di piante. Allora comprai una piantina, mi pare di piccole rose, e l’appoggiai sul canestro.

Ricordavo bene il fatto e anche la persona assassinata. Guarda caso abitavo, all’epoca dell’omicidio, vicino a lei, al rione Monti, in via del Boschetto. Sapevo di lui. In quegli anni il rione Monti era ancora “popolare”, un vero rione di Roma, Tutti conoscevano tutti, c’era una specie di comunità e le notizie circolavano. Del resto era chiaro che quell’uomo svolgesse un lavoro pericoloso. Ogni mattina arrivava una volante della polizia che seguiva la sua macchina guidata da un autista fino al suo ufficio in piazza Elba. (Per la cronaca, la volante a metà strada, sulla Nomentana, tornava indietro lasciandolo solo… I soliti “misteri” italiani). Un killer gli sparò alla testa appena arrivato a destinazione con una mitraglietta Skorpion.

Il Comune di Roma, poco dopo il fatto, ricordò questo eroe della libertà con la piccola targa. Un eroe dimenticato, evidentemente. Io però ho messo la piantina e raddrizzato il canestro.

Un paio di mesi dopo, passando per caso vicino all’albero con la targa, vidi che qualcuno aveva aggiunto una pianta alla mia. Rimasi stupito e contento. Allora esisteva una persona che la pensava come me e che aveva recepito un mio implicito suggerimento.

La storia non finisce qui, anzi inizia proprio adesso, anche se non c’è molto da raccontare. Da almeno tre anni, io e questa persona, rimasta sconosciuta, ci alterniamo per occuparci delle piantine. Se le rubano, uno dei due subito va a comprarne un’altra. E poi ci alterniamo per innaffiare e curare i fiori. Mai ci siamo incontrati. È capitato una volta che le piantine sono rimaste senza cura da parte dello sconosciuto (o sconosciuta): io vado di sera a innaffiare, l’altra persona di mattina. Io con le dita mi accorgo se le piantine sono state innaffiate dall’umidità della terra nei vasi. Se sono asciutte, la mattina non sono state bagnate. Per una settimana intera la terra delle piantine era secca, lui (o lei) non si era fatto vivo (o viva). Che cosa poteva essere accaduto? Una malattia, un viaggio? Non credo una dimenticanza. Mi stavo quasi preoccupando. Poi una sera, finalmente, trovai la terra umida. La misteriosa persona era tornata.

Ogni sera vado all’appuntamento con il morto ammazzato. Ogni sera mi domando chi sarà questa persona che con me si cura delle piantine e del ricordo di Mohammed Hossein Naghdi. Strano, io mi trovo bene soprattutto con i morti e con le persone che non ho mai visto in vita mia. Che volete farci, sono fatto così.

 

 

Ieri, 3 agosto, mi ha telefonato dopo tanto tempo la mia amica Monica, attrice e scrittrice. Le ho detto di questo sito e del Diario. Ha detto che leggerà. Bene, a questo punto ho due lettori, anzi lettrici, Teresa, la mia amica del cuore, e Monica. Lettrici eccellenti, persone intelligenti e sensibili. Ho mandato messaggi anche a Emanuele, Andrea, Fabrizio e Gianluca e sono sicuro che leggeranno anche loro. Cosa voglio di più. Pensavo che soltanto Teresa avrebbe letto. Forse entro un paio di giorni avrò cinque o sei lettori. Un successo clamoroso, inaspettato.

 

2 agosto 2024

Questa idea di dare il libro La piccola dea soltanto a chi se lo merita può sembrare un tantino presuntuosa, lo riconosco. Ma ci sono arrivato alla fine di innumerevoli delusioni. Negli ultimi anni, quando pensavo che fossi arrivato davvero ad una stesura finale, ho stampato qualche copia e l’ho offerta ad alcune persone, però se alla maggior parte di queste persone non l’avessi data sarebbe stato meglio. Non ne hanno ricavato nulla, e io ho avuto l’impressione di aver donato qualcosa di troppo prezioso: lo so che sembra esagerato, ma se leggo certe cose che vengono pubblicate, mi dispiace, rimango nella mia presunzione. E non parliamo poi delle poesie! Ma perché scrivono poesie tanto brutte? Addirittura poeti di un certo “nome”. Allora ho deciso così. In fondo, chi pensa sia pura follia, può sempre leggere tante altre cose, che ci sono, magari i classici, ma La piccola dea non andrà nelle mani di chiunque. Certo, è una situazione un po’ assurda, pubblicare con un editore sarebbe certo più giusto ma dove trovarlo? E poi io degli editori non mi fido, e non mando il testo in giro, la piccola dea non va a casa di sconosciuti, voglio essere un padre premuroso. Quanti mi chiederanno il libro? Ce ne sarà uno, o due, o addirittura tre? Chissà, il numero non importa. Avere tre lettori attenti, appassionati, che mi vogliono bene e che diventano miei amici sarebbe già molto bello e mi farebbe stare molto meglio in salute (soprattutto quella mentale). Dunque, vedremo.

 

 

Una mediocrità vera, opprimente. Io penso di aver assaporato fino all’ultima goccia la vita piccolo borghese, impiegatizia. Ho abitato al Nuovo Salario per anni, in un condominio del costruttore Belisario, a via Piero Foscari. Sapete, quell’edilizia della periferia (non troppo periferica) degli anni Settanta, neo/neo/neo razionalista nel quale lo stile “moderno”, al passo con i tempi, si sposa magicamente con le ragioni economiche, col risparmio sui materiali, con le esigenze della speculazione edilizia. Tante linee squadrate, tanto cemento armato. Ho sofferto molto in quel luogo. Eppure, come sempre c’è l’altra faccia delle cose, molte persone sono felici in quel contesto. Giovani coppie con bambini, ad esempio, sprovveduti magari ignari di quella claustrofobica condizione sociale.

Un giorno di qualche anno fa, quando ancora abitavo al Nuova Salario nel condominio costruito da Belisario, una ragazza del palazzo si gettò dal quarto piano. Ma si salvò miracolosamente, pur riportando lesioni gravissime. Voleva fuggire da quel luogo. Ma non si sfugge dal Nuovo Salario, da Belisario. Ora, dopo aver vissuto per qualche anno a Val Melania, mi sono ritrovato a Montesacro, nella parte nuova, costruita negli anni Settanta, dunque non nella bellissima Città Giardino degli degli anni Trenta, cioè durante il ventennio fascista. Ora abito qui, in una strada vicino a piazzale Adriatico, in condominio di Belisario. Stesso stile architettonica, stesso cemento armato, stesse giovani coppie con bambini, felicissimi giovani inconsapevoli.

Non si sfugge al Nuova Salario, non si evita Belisario, non si può cambiare il proprio destino.

 

 

 

1 agosto 2024

Tito Labieno, l’oratore e scrittore romano che si ammazzò quando seppe che il Senato aveva decretato il rogo di tutti i suoi libri, ai tempi dell’imperatore Cesare Ottaviano. I libri erano la sua vita, dunque era come se avessero deciso la sua morte. Perciò andò alla tomba di famiglia, l’aprì e ci si mise entro, lasciandosi morire di fame e di sete.

Tutto ciò a differenza dei grandi poeti e letterati dell’ambiente di Mecenate, vicinissimi perciò all’imperatore, ad esempio il sublime Virgilio. Grandissimo poeta ma così leccaculo da mettere il nome di Augusto nei versi delle sue opere.

Cosa dire in proposito? Ha fatto bene Virgilio? Senza l’imperatore non avrebbe potuto vivere, cioè vivere scrivendo. Ma certo è ammirabile la scelta di Labieno, una specie di eroe per tutti quelli che si trovano a disagio nell’onorare, nel lusingare, nel tacere quello che pensano.

Nota curiosa. Io non avevo mai sentito parlare di Tito Labieno (da non confondersi con l’omonimo geberale di Giulio Cesare), finché una sera ho trovato la sua storia riferita in poche righe nella rubrica della Settimana Enigmistica Non tutti sanno che…, è questo il riconoscimento attuale di questo martire della verità e della dignità intellettuale.

 

30 luglio 2024

Chiamatemi Ismaele, anzi no: re del bosco.

Certo, è un gioco, voglio giocare perché non ho niente da fare e perciò ho deciso di scrivere questo diario, ma in fondo è un’appellativo che meriterei, per l’amore che ho per il lago di Nemi, per la dedizione a voler denunciare lo scandalo della villetta abusiva… Dunque sì, anche senza ammazzare nessuno, mi autoproclamo il nuovo re del bosco. Alla faccia di chi mi odia (poiché, per quanto risulti assurdo e incomprensibile a una persona pacifica e appartata come me, c’è qualcuno che non ha di meglio da fare nella vita che odiarmi.

Anche se forse non è proprio odio, forse esagero. Diciamo che provano una certa insofferenza per come sono, per come penso. Si scandalizzano perché dico la verità su certe cose, e chi dice la verità dà fastidio, getta allarme, mette in crisi.

Basterebbe fare l’esempio della faccenda del teatro del duello e della villetta abusiva. Ce ne fosse stato uno, tra giornalisti archeologi scrittori sindaci sovrintendenti che abbia detto una parola, dico UNA. Di cosa hanno paura? Sono isolato, tenuto a distanza di sicurezza. Va bene, non importa. Forse è meglio così. Sto bene in questa solitudine, e pazienza per lo scandalo dell’abuso edilizio. Quello che dovevo fare l’ho fatto.

 

 

Si scrive dei, dèi, oppure Dei con la maiuscola? Nella prima edizione delle Upaniṣad antiche e medie, curate e tradotte da Pio Filippani Ronconi, si legge Dei. Nella nuova edizione, gli Dei misteriosamente svaniscono, sostituiti dai pochi significativi dèi. Diranno che ci cono ragioni linguistiche eccetera ma ci deve essere una motivazione ideologica. Giusto così. Gli Dei, cioè i Deva dei testi induisti, gli esseri di luce o come volete chiamarli, devono vivere nell’ombra, oscurati e sconosciuti. Soltanto l’unico Dio merita la maiuscola, a quanto pare, e magari sarà pure vero che esiste soltanto Lui (con la L maiuscola, ovviamente), eppure non è giusto sminuire, stravolgere, ignorare ciò che è vero per altre persone, per altre religioni e culture.

 

Che poi mi piace essere Re, e che cavolo! Povero, solitario, sconosciuto, ma Re del Bosco! Questa mi piace! E vai!

 

Aggiungerò al sito le prime pagine della mia Piccola dea. Così almeno qualcuno le leggerà. Per il resto del libro, vedremo. Ci potrebbe essere un editore interessato, oppure potrei stamparlo a mia spese e venderlo qui. Ho anche l’idea di mandarlo soltanto a chi se lo merita e a chi desidera leggerlo con tutto il cuore. Sì, potrebbe essere una buona idea. Ma chi lo meriterebbe? Non so, forse a chi lo pagasse bene, ma quanto dovrebbe pagare un libro  del genere, diciamo anche unico, un capolavoro, per essere modesti, umili fino alla denigrazione di se stessi? 50 euro, 100 euro, 300 euro? No, non si può monetizzare, è assurdo. Forse ci potrebbe essere un pagamento in natura: 10 bottiglie del migliore champagne, auto di lusso, venticinque escort meravigliose, un biglietto d’aereo per il Tibet… Ma no, no, che sto dicendo, sono impazzito? Io darei la mia Piccola dea soltanto alla persona meritevole per le sue qualità intellettuali e morali, a una persona che volesse diventare mia amica e che me lo dimostrasse in qualche modo. Sì, finalmente, un autore che sceglie i suoi lettori privilegiati, ad uno ad uno. Basta con queste attese da editori, agenti letterari eccetera, basta! Adesso decido io!