Il montanaro
1.
Tutta una vita per arrivare fino a qui. E dovrò salire ancora. Sotto gli uomini si muovono lentamente; molto piccoli sembrano. Lontano è il mondo e io, aggrappato alla montagna, medito su questo vuoto.
2.
Era il giorno del matrimonio. Il cibo buono, i parenti col vestito della festa, i bambini che gridano e corrono nel giardino … Mia moglie aveva un vestitino celeste, un cappellino sbilenco. Timida e impacciata, e per questo ancora più graziosa, sembrava non aspettare altro che di scappare via, proprio come me.
Cerimonia religiosa, pranzo di una lunghezza estenuante, ballo in piazza… finalmente, la sera, prendemmo la macchina per andare in quella piccola radura dove sempre ci fermiamo per stare un poco da soli. Tra noi commentammo, spesso ridendo, tutto ciò che era accaduto durante la giornata. Ma troppo stanchi, rimandammo l’amore all’indomani.
3.
La nostra vita trascorreva lieta. Nacque nostro figlio. Le persone ci rispettavano. Si viveva con poco.
Tornavo a casa dal lavoro e non pretendevo altro che di riposarmi e di giocare col bambino.
4.
Ma presto sentii il peso di quella abituale serenità. Appena era possibile, me ne andavo all’alba sui prati coperti di rugiada e lucenti sotto il sole. Risalivo il torrente. Sulla linea delle colline vedevo spuntare le cime innevate.
Noi montanari amiamo i boschi e i ripidi sentieri, e poi ce ne stiamo le ore a contemplare la vetta più alta, che ci invita, che ci sfida. È una passione, questa, che ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, che a loro volta la ricevettero in dono dai nostri nonni, e così da generazioni. È una tradizione da tramandare e da difendere.
Salivo fino all’altipiano, e riscendevo a valle che era già notte. Tutto ciò per molti giorni di seguito. Cominciai a non andare al lavoro.
Mia moglie mi diceva: «Che cosa ti sei messo in testa? Sei impazzito?”».
Io non sentivo ragioni. Avrei potuto conciliare questa passione per la montagna con il lavoro e tutto il resto ma avevo come un’ossessione, una febbre. Di altro non m’interessavo: c’erano soltanto le rocce, appuntite, sullo sfondo del cielo. E quella cima più alta. I giorni passavano e io diventavo sempre più inquieto. Ormai conoscevo bene il percorso: bisognava percorrere la valle fino in fondo, poi risalire il torrente e prendere il sentiero che porta al rifugio. Da lì si alza lo sguardo al cielo, e si trattiene il fiato guardando la Punta della Civetta.
5.
E finalmente è arrivato il giorno, e l’ora.
Sono uscito di casa all’alba, facendo attenzione a non svegliare mia moglie. Il paese era immerso in una luce azzurrina che rendeva fantastiche le cose. I miei passi risuonavano nelle vie. Ero solo al limite di quel sogno che mi trascinava lontano.
I prati mandavano un odore di terra e di fiori. Ho seguito il torrente, e ho preso il sentiero per il rifugio… Il sole era già alto. L’interminabile parete, ora che si trattava di scalarla, mi incuteva paura. Ma ormai non potevo tornare indietro. Ho preso la via ferrata e sono arrivato sotto la parete. Ho lanciato la corda per il primo appiglio.
6.
Picchia con il martello, alza la gamba, fissa la corda, non abbassare lo sguardo, soffoca la paura…
Il sole scaldava la roccia, cominciava a bruciare la pelle. Io mi stancavo dopo pochi metri, la salita era molto più faticosa di quanto pensassi; ero inquieto e provavo rabbia verso me stesso perché il pensiero di lasciar stare, di tornare indietro, a poco a poco prese spazio nella mia mente.
Ma i pensieri bisogna scacciarli, toglierli via dalla fronte come il sudore.
Mentre calava il sole, ho preparato la cuccetta per dormire sospeso in aria.
7.
Io sono un bambino che si avventura in una fitta boscaglia. (Ecco cosa ho sognato a circa a quattromila metri di altezza). Mia madre mi chiama ma io proseguo a camminare nella vegetazione che non lascia filtrare nemmeno un raggio di luce. Proseguo nella semi oscurità… Poi mi accorgo di una luce. La seguo d’istinto e mi ritrovo in un cimitero. C’è un senso di grande serenità tra le tombe. Alcune giovani donne, vestite di nero, depongono i fiori e pregano con il sorriso sulle labbra. Io mi rendo conto di essere diventato un vecchio e mi chino su una tomba che non ha nome: sulla lapide è attaccata una mia foto da ragazzo e allora capisco che sono venuto a cercare la persona che ero e che è morta da parecchi anni. Qualcuno mi sussurra all’orecchio che una donna inginocchiata poco più in là, e di cui non riesco a vedere il volto, è mia madre. Allora mi avvicino e la tocco sulla spalla. Infatti è mia madre, che mi dice: «Non sapevi che sono viva?».
8.
Quando ho aperto gli occhi, poco fa, ho visto un uccello appollaiato sui miei piedi; li ho mossi ed è volato via. La vallata appare tra la nebbia che si dissolve a poco a poco. I tetti delle case lontanissime luccicano al primo sole.
Penso che in quei luoghi sono nato e cresciuto, consumando tutti i miei desideri, ignaro di subire un destino. Osservo quel paesaggio con un sentimento di lontananza ed estraneità. Da qui ogni cosa sembra futile e priva di senso. Dovevo salire fino a questo punto della montagna per comprendere che non appartengo più al mondo in cui sono vissuto. Se adesso fosse tutto spazzato via da una valanga, io non proverei alcuna emozione. Mi basta alzare lo sguardo verso la cima, e la vallata è scomparsa, annientata, mai esistita. Questa indifferenza è orribile ma a me interessa soltanto salire per allontanarmi ancora di più.
Scivolo con un piede, sono preso da vertigine. Mi cade la corda…
Forse non tornerò più indietro.