POESIE RITROVATE
Non amare le cose che sfuggono,
Che svaniscono. Fuggi tu piuttosto,
E considera la tua buona stella!
Le gambe delle donne misurano il mondo,
Un passo dopo l’altro, nel sabato sera.
L’aria odora di legna bruciata
Nei caminetti, di buone pietanze,
E risuonano grida e risate.
Ora la strada non fa paura.
Puoi sederti sul marciapiede e scrivere quanto segue:
Tutto è accaduto, nulla di difficile ti aspetta,
Solo il necessario inevitabile e fatale
Che chiude l’esistenza in un cerchio perfetto.
La notte è lieve, fresca, vellutata.
Non hai bisogno di nulla.
Hai la tua vita così com’è,
Anche se povera ed appartata come quella di un gatto.
Amorevole sublime gioco,
Oppure guerra sul filo del rasoio,
Incontro di fantasmi… Ahi, liete parole,
Cadute indescrivibili e poco memorabili!
(Se domandi come e perché, io non so rispondere).
Questo verso sarà il più lungo, ma se penso al tempo sfugge via il senso.
Però il finale sarà migliore: pulito, più nettamente inciso;
E senza dire niente porterà a conclusione
Questa strana poesia.
Che senza amore e gioia
Mi vada consumando
A te mai non importa.
Io sogno, vago e piango
E senza decisione
La mia vita corre via…
Chi potrà mai perdonare
Tutta questa indegnità?
Tu sai la mia salvezza.
Il mare, la notte…
Io ricordo la preghiera dei baci,
Il verde delle conifere negli occhi di lei
Che angeli e diavoli affollavano, finestre
Della sua mente povera e plagiata
Dai racconti dei miei peccati o stranezze.
Conosci le parole che entrano nel cuore?
Non voglio dire basta!, è falso!, oppure addio!.
Al tramonto le cose si sdraiano
Come un vecchio con la pipa. Ma non c’è riposo
Nell’ansia della domanda
Che risuona davvero
Dentro il cuore.
Uccelli, vastità del mondo
Che dorme sotto le campane ferme.
Nella pianura il sole è freddo: gli animali sono tristi;
Anche le donne e le cose sospinte tutte
E divorate.
La vita mia è una beffa, una cosa scombinata.
Ma bastano due versi e l’ho dimenticata.
Così nel sogno la mia donna mi baciò con la sua bocca fresca e mi nutrì di rosso d’uovo.
La stagione tormentosa,
Se cede ai giorni lieti,
Forse perde il suo languore,
Un fertile dolore.
Per il bimbo questa sera, felice è tutto il mondo.
Ma da grande sarà solo. L’inganno si rinnova.
Non guardare con pietà; piuttosto invidia dovresti tu provare. Questi fanciulli cenciosi sono vivi: come formiche si affrettano di sera. Così è la quiete. Tu oscuro te ne vai con i pensieri…
Per quelle belle si voltano le teste, m nessuno si accorge in questa via dell’esile ragazza filippina: attonita cammina nella sera, a Roma, in mezzo al traffico, con il vestito della tintoria… ignara che io però l’ho vista e ricordata.
In questo bel giardino (che ristoro la siepe ben curata e i fiori rosa!), la vita ammazza, distrugge, punisce: ché sotto oscuramente le formiche divorano l’insetto e idea dell’uomo, bugiardo giardiniere. Che ristoro!
Oltre la stanza
1.
Capodanno resta chiuso dentro. Bei ragazzi al bar, sonnambuli.
2.
Lo squillo del telefono risuona, la grande casa vuota.
3.
Oltre la stanza, primavera in città: non fiori ma rumori nuovi.
4.
Se nasce, muore; se resta sconosciuto vive, l’amore.
5.
Suonato il campanello alla finestra, s’affaccia sorridendo la ragazza.
6.
Tutto sporco e stracciato, sotto il sole egli canta beato.
7.
Tanto cerca l’anima gemella, che la più brutta gli pare bella.
Nasce fecondo,
Eppure tace in fondo all’anima: è la luce
Dicono alcuni, il sempre eterno; forse soltanto è un rimorso.
Nasce e a stento cresce…
Noi siamo i suoi figli indesiderati, i bastardi,
Che vivono soli, senza nemmeno la guida di un maestro,
E mai ne conosceremo la fine.
Viaggia dunque, tu viaggia lontano,
Per i mari e per i cieli, per le terre del sogno!
Spera, viaggia, corri lontano,
Insieme ai nati morti, ai sopravvissuti, sì, insieme a tutti noi!
Viaggeremo, correremo lontano, non ci fermeremo…
Però mai ne conosceremo la fine.
L’amico buono,
Che t’aspetta un’ora a piazza Esedra,
E quando arrivi non c’è bisogno di scuse,
Perché lui è al di là delle scuse, dei ritardi,
Dei problemi irrisolti e dei soldi.
Apre la borsa da studente,
In mezzo a via Nazionale, e legge Catullo…
Puoi mostrargli il tuo lato peggiore
Giocando alle corse dei cavalli,
Sparando a zero sulle donne che, giustamente,
Non mi vogliono più. L’amico buono,
Che t’invita nella sua povera casa,
Ti prepara le uova al formaggio, squisite,
Poi ti legge il suo ultimo sonetto
Che forse non è buono (ma cosa ce ne importa?).
Quando è tardi si mette a dormire senza togliere la giacca
E nemmeno la cravatta. «Buonanotte» glielo dici tu,
Chiudendo la porta.
Trecentosette baci in mezz’ora: è il nostro primato.
Patria erotica, rettangolo di gioco è questo letto,
La nuova Olimpia amorosa. Inizia dunque la gara…
Noi siamo i vittoriosi, i grandi amanti,
Gli incoronati che si mostrano alla folla:
A me il trionfo delle carezze sul seno,
Tu campionessa del (CENSURA).
O regina delle mie labbra e dei miei polpastrelli,
Scendi con me nell’abisso!
Troppo fredda è per noi questa gente,
Che non vuole morire. Vieni, ti dico.
Tu rispondi: «Ecco, un solo momento…
Ti seguo!».
Perdere la pazienza, prendere un treno,
Abbandonare il peso dell’esperienza,
Fare di un solo gesto l’inizio e il compimento di una storia,
Amare per pochi istanti la tempesta,
Lasciare il domicilio, i pasti regolari,
Le rate da pagare, lo stipendio…
Correre alle ferite finalmente, al centro del proprio cuore
Dove ineluttabili destini sottoforma di silenzi
Aspettano di esplodere in grida!
Chissà quante sere a saperle contare,
Chissà quante belle giornate, quante ore passate a studiare
Lo scheletro del verso, la forma dello spirito sfuggente,
Mai veramente compreso,
Mai veramente spiegato,
Però sempre sezionato e misurato scientemente
Dagli ingegnosi pedanti con tutte le puzze sotto il naso
Inconfessabili, ma ben determinati a stabilire
Una volta per tutte, ogni volta, il Grande Codice,
Il Canone Universale, stampato in corpo nove e rilegato.
Ora tutto questo è passato…
Vago per la città, solo soletto, e mi sento invecchiato:
A piazza Navona, seduto sullo scalino del marciapiede,
Guardo le gambe delle turiste americane, delle francesi,
Anche quelle delle giapponesi…
Non ho niente da fare, tiro fuori il taccuino:
Ad una legge imprecisata io mi sottometto,
E l’inquietudine guida la mia mano
Che trema, s’impunta, non vuol ripartire e che pure costringo
Su questa paginetta immacolata.
Dormono le ore, dormono i minuti,
Dormono i passeri tutti in riga sul filo della luce
Mentre l’alba s’allontana e il dolore tace, dorme.
Dormono i boia del Texas e dell’Alabama,
Che pure sono stati bambini, i padri che sono diventati figli,
Le madri immerse nel candore del pianto,
Vive tra le piaghe e i germogli.
Che ora è, fratello? Resta, se vuoi, appeso alla luna,
E naviga sopra il marciume, tra l’affanno e il riposo.
Adesso la notte è lieta, ed invento liete parole:
Il verde fogliame dei tuoi capelli,
I cembali che rincorrono i violini
E spazzano via i sospiri dalla mia poesia!…
Dormono le onde in riva al lago, il vento,
Questi versi che scrivo nella sera,
Dormono, dormono, muoiono
Ma domattina si risveglieranno,
Amen.
Quei pensieri, quelle ambizioni sbagliate,
Quelle amare considerazioni sulla vita
Degli uomini che corrono laggiù,
Lungo l’autostrada che vedo dall’aereo.
Quelle voglie troppo piccole, eppure inconfessabili,
Non mi sorprenderebbero, non mi farebbero voltare la testa,
Non mi costringerebbero a sentirmi chissà chi:
Io, se sapessi, mi sentirei simile a loro,
Diventerei come quei puntini e non sarei più io
(O meraviglia delle enormi distanze e delle impressioni passeggere!).
Io, io, come quei pensieri, quelle ambizioni sbagliate,
Quelle amare considerazioni sulla vita…
Povera anima, conosci il tuo lignaggio.
Ogni sconforto era un gioiello, ogni tremore
Pura conseguenza. Oh quanto limpido e chiaro
Il tuo meschino procedere nel mondo!
Sprofondato in poltrona come su un trono,
Resta il corpo immobile: le ultime parole argentate
Hai forse sognato.
A nessuno vuole essere d’impaccio.
Col barboncino passeggia a piazza Vittorio:
Compra il giornale, che legge al bar, bevendo il cappuccino.
Poi prende poche cose che servono per cena.
Saluta il barista, il fruttivendolo, la guardia giurata…
Conosce tutti, la signora Luisa, ma nessuno conosce lei,
Nessuno la conosce veramente. (Suo fratello, giovanissimo,
Partì per l’Africa, ai tempi della guerra, e mai fece ritorno;
Poi si sposò ma dopo dieci anni rimase vedova.
Andò a servizio per campare… Di figli ne ha due,
Ma lei riesce a vivere da sola: cammina ancora bene,
e ancora è lucida, per niente rimbambita).
Piano piano se ne torna a casa, al quinto piano,
E per fortuna che c’è l’ascensore.
Ogni tanto riceve visite: amiche, vecchie signore.
Si mangia il gelato, si parla male del governo…
Fa passare il tempo, la signora Luisa, lo uccide lentamente,
Con calma, con scientifica sapienza.
Quando è sera, insieme al cagnolino,
Guarda qualcosa in tivù: e mentre guarda pensa a quand’era giovane,
E a come gli uomini si voltassero a guardarla.
Oppure pensa a una giornata trascorsa al mare, insieme al nipotino…
Gli occhi le si chiudono: meglio andare a dormire.
Si mette sotto le coperte e spegne la luce.
Dal buio, illuminato dal sogno, le viene incontro il fratello,
Quello morto in Africa, e il marito, che dolcemente le dicono:
«Luisa, vieni, ti aspettiamo…
È ora di rivederci».