Sei una ragazza che assomiglia a una dea. Ma la dea che ho in mente è la stessa di cui scrisse Arthur Rimbaud nella prosa poetica delle Illuminazioni intitolata Alba (Aube); una ninfa dei boschi, una musa. Egeria, per gli antichi Romani, era una di queste creature. La vedevano sulle rive di un lago ed era considerata non del tutto immaginaria. In Oriente, seguendo un’antica tradizione, ancora adesso giovanissime donne, anzi bambine, chiamate devī kumārī, sono venerate senza distinguere tra condizione umana e divina. Pārvatī, suprema incarnazione divina, nata e cresciuta tra le montagne, è andata in sposa a Śiva.
Questo dolore ‒ lacrima, marea
Che sale all’orizzonte, palpebra
Chiusa o aperta alla visione:
Il bosco, la gonna di raso,
Il sasso per il gioco nel torrente ‒
Questo dolore è per dire di te,
O piccola dea, che tutto vuoi
Senza concedere niente!
Vieni, canta, inizia la commedia!
Conosciamo ormai la tua mania,
Lo strano desiderio nel tuo canto:
Placida ondeggi e scivoli sui fiumi…
Ignota scena in mezzo alla foschia.
Ricominciamo il gioco, ritentiamo!
E finalmente giungano le risa
A noi che sulle fronde ti cerchiamo!
Quando fuggimmo nell’alba d’agosto,
Lungo i sentieri trovammo la dea.
Il nostro destino: l’amore,
La nuvola bianca che esplode
Lenta nell’azzurro divino.
A volo radente l’uccello dettò
Le parole della nostra canzone.
Corone d’alloro sul tuo capo di giada,
Mia limpidissima Aurora!
Un bacio è una corrente di fiori,
Cos’è la gloria?
Io non conosco le virtù del canto.
Vengano gli azzurri, le rose,
La trasparenza dei fiumi!
È la felicità delle parole.