Noi ce ne stiamo al bar a sorseggiare il caffè, a commentare le partite di calcio, a parlar male del governo. Nostro unico impegno: far passare il tempo. Ma c’è qualcosa che ci interessa veramente, e che forse è un lavoro, sì, una leggera fatica che ci sazia.
La Superfemmina arriva a mezzogiorno, puntuale come lo stipendio agli impiegati del Comune, come le calamità dopo le congiunzioni maligne, come l’alta marea quando la luna infuria. Davanti al bar si ferma con la sua macchinona, e non parcheggia ma s’accosta al marciapiede col motore acceso, pronta a ripartire in fretta per fuggire dai bruti, dai violentatori che forse sono in agguato. Scende, ed è l’attimo fatidico della coscia che si scopre – perché la gonna cala – del reggicalze che spunta come un segnale, come una bandierina in capo al monte, in mezzo alla neve, prima dell’abisso. A noi non è concesso nemmeno di vedere: se lei si volta a guardarci, noi alziamo gli occhi al cielo facendo finta di niente ed osserviamo le nuvole, il sole che tramonta all’orizzonte, gli uccellini che ballano sui rami… Non osiamo fissarla negli occhi, ma nascostamente, vergognosamente, contempliamo le sue gambe favolose, il suo sedere che è una sinfonia, i suoi seni che stanno dritti e fermi oppure si muovono un poco, oscillando insieme ai nostri cuori. Oh sì, vibrano piano piano, i seni, i cuori.
Lei è la Superfemmina, colei che viene a gettare una luce nel nostro profondo buio, lampo fuggevole, come lacrima asciugata dal vento, come gemito sordo che si perde nell’immensità del dolore, come rosa calpestata dal Tempo indifferente e così via con tutte le metafore e le similitudini possibili e immaginabili… È un piacere per noi incontrarla ogni mattina, anzi è un lavoro. Prima o poi il Comune ci passerà uno stipendio, almeno un gruzzoletto tondo al mese per tutto ciò che diciamo e soprattutto per come lo diciamo. Eppure non soltanto la cantiamo: scrupolosamente analizziamo le sue calze viola, e con fervore discutiamo della sua gonna che ieri era verde, «no, era rossa» dice uno, «ti stai sbagliando, era azzurra» risponde un altro…
Certe volte è più sfrontata. Scendendo giù dalla macchinona, piega le gambe con noncuranza, sorridendoci, mostrandosi un po’ di più (ma noi alziamo gli occhi al cielo e guadiamo le nuvole, il tramonto, gli uccellini…) prima d’infilarsi nel bar a comprare le sigarette. Allora noi, seduti ai tavolini, diciamo in coro: «Eh, che eleganza, che stile la Superfemmina!». E lei, bionda come un angelo, flessuosa come una pantera, scintillante come un diamante eccetera eccetera, esce dal bar senza degnarci più nemmeno d’uno sguardo poiché forse, a suo insindacabile giudizio, ci ha dato anche troppo. Risale sulla macchinona e scompare lasciando dietro sé il pulviscolo d’oro del ricordo e dello struggente rimpianto.
O Superfemmina, noi t’invochiamo, e ti preghiamo di portarci via lontano, insieme a te! È una vita che sopportiamo questo paesetto di capre e di burini mezzi arricchiti. Prendici sulla macchinona, o Superfemmina, facciamo un bel giretto! Siamo stanchi di aspettarti e di vivere soltanto per quei cinque minuti, quando arrivi e scendi e compri le sigarette e te ne vai. Basta! Non hai cuore? Non hai pietà?
È ora di ribellarci, e di gridarti finalmente ciò che segue: o con noi, o senza di noi! Scegli! Decidi! Non aspetteremo un solo giorno di più!
(La mattina dopo: «Ehi, attenti, c’è la Superfemmina! Eccola che arriva!»).