DIALOGHI IMPREVEDIBILI, prima parte
Tra la luna e il ragazzo.
Ragazzo: «Che mi faresti salire fino lassù?».
«No», risponde la luna.
«Ma scusa, perché no?».
«Ho detto no e basta!».
«Che stronza!».
Tra il passero e il davanzale.
Dice il passero: «Posso appoggiarmi un momento, sono un po’ stanco».
«Certo, certo…» fa il davanzale.
«Grazie, molto gentile».
«Soltanto, non fare la cacca, che poi la cameriera è costretta a pulire».
«E chi sarebbe poi questa cameriera?» domanda il passero, «se non sono indiscreto».
«Una filippina. Molto brava. Anche bella, sai? Tutti gli abitanti del palazzo la corteggiano ma lei non la dà a nessuno».
«E come mai? È frigida, ha problemi sessuali, è una suora che ha fatto i voti di castità?».
«No no, che voti di castità! È una mezza scema che vuole l’uomo dei suoi sogni, perciò non cederà a nessuno e mai cederà finché non troverà l’uomo adatto».
«Avoja ad aspettà» dice il davanzale. Con gli uomini che girano adesso, tutti mezzi froci, le verranno le ragnatele in mezzo alle gambe, poverina».
«E vabbè, una sua scelta. Dai, vieni, posati su di me, riposati, che sei stanco. Passero, passero dolce, ti accolgo volentieri… Però preferirei che ti facessi i cazzi tuoi!».
Tra il passero e il verme.
«Fai veramente schifo» dice il passero al verme. «Sei proprio un verme, di nome e di fatto».
«Quanto sei simpatico! E tu non mi guardare. Io lavoro la terra, e quando capita mangio i cadaveri di animali e di esseri umani».
«Ah, proprio un bel lavoro!».
«Mica l’ho scelto io, scusa tanto, eh? E del resto qualcuno lo deve fare, no? Mica tutti possono svolazzare e cinguettare tutto il giorno senza fare una benemerita minchia».
Il passero riflette… «Bè, in effetti, sono stato maleducato. Cosa posso fare per farmi perdonare?».
«Non saprei… Potresti farti mangiare da me. Così almeno staresti zitto per l’eternità».
«Ah ah ah, ma io non mi faccio mica prendere!».
Il passero si lancia e in un attimo il verme è cotto e mangiato.
Poi arriva la verma, cioè la moglie del verme appena deceduto. «Disgraziato di passerò, me l’hai magnato!» urla la verma, che a dire la verità è una bella vermetta, con le curve al punto giusto, un bel visetto, anche se sempre di verme, un invertebrato della specie dei Nematodi (dal greco: νῆμα nḕma cioè “filo”, ed -εἰδής, –eidḕs cioè “forma”), di forma cilindrica insomma, un po’ viscido, dunque non esageriamo. Continua a urlare la verma: «E ora come farò senza di lui! Era un gran lavoratore, anche a letto. Maledetto passero, la pagherai!».
Il passero non ci pensa un momento, si avventa sulla verma e se la mangia pure a lei.
Morale della favola: due vermi stecchiti e un passero con la pancia piena. Che storia triste… Quasi mi sono commosso ad averla scritta.
Tra me e l’ascensore.
«Ma perché sei sempre guasto? Ma ti hanno costruito apposta così? E io adesso mi devo fare sette piani di scale? Limortacci tua, ascensore di merda!». Mi dispiace usare questo linguaggio assai disdicevole, ma quando ci vuole, ci vuole. Tutti i giorni è così.
«Mi scusi signore» risponde l’ascensore, «mica è colpa mia se mi rompo sempre. Lei se la deve prendere con la ditta che mi ha installato. Sappia, signore, che sono cose delicate queste. Basta un nulla, e rimaniamo fermi. Per non dire di quelle volte che ci rompiamo e l’ascensore cade giù senza freni dall’ottavo, decimo piano con un essere umano dentro e lì non c’è scampo, il passeggero è bello che schiacciato come una salsiccia altoatesina, sa, che si chiama luganega, che poi non si capisce perché si chiama così se è una semplice salsiccia. Una è ‘na salsiccia nordica, quasi tedesca, e vabbè, ma sempre salsiccia è, per quale diavolo di ragione devi generare confusione. Uno va da quelle parti, alpine, bellissime, ed entra in una ristorante e chiede una salsiccia e il cameriere risponde che non ce l’hanno. Terribile equivoco, perché il ristorante perde un cliente per un semplice cambiamento di nome…».
«Va bene, questo discorso è molto interessante« dico io, però devo farmi adesso sette piani di scale pure con le borse della spesa, ti rendi conto?».
E l’ascensore risponde: «E che me ne frega a me!».
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