Tutti devono morire. Questo semplice e incontestabile pensiero mi accompagna da quando mi alzo la mattina fino quando mi metto a letto per dormire. Vado per strada ed entro in un bar e chiedo un caffè al barista e penso: «Poverino, tra un po’ dovrà morire». Mi volto e vedo una signora seduta al bar. Forse ha la mia età. Sta parlando al telefono. Provo compassione per lei, destinata a morire. In giro tutti mortali. Il traffico caotico, tutti di predestinati nelle loro autovetture. Passa una bella ragazza? So che invecchierà e la so qual è il suo destino. Ricordo il famoso verso di John Donne: «…e dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona anche per te». Bellissimo. Ma forse i contemporanei di questo poeta, quando lo vedevano passare, si voltavano dall’altra parte. Non voglio essere irrispettoso verso questo da me amatissimo poeta, mi scuso se lo sembro. Cerco di alleggerire i miei pensieri. Bisogna farlo, è inevitabile. Infatti io, alla fine, penso molte cose belle e sagge e divertenti e che oltrepassano questa labirintica prigione che è il mondo. Oggi è una bella giornata di sole. Giuro, andrò a fare una passeggiata senza pensare alla morte.
Adesso andrò dall’iraniano, per innaffiare le piante. Avevo detto che non avrei pensato alla morte. Ma andare a trovare Mohammed Hosssein Naghadi è come andare a trovare un amico, ormai. Soltanto che, invece degli amici vivi, che ti tradiscono e spariscono e fanno anche di peggio, lui c’è sempre, mi aspetta per i fiori che devo innaffiare. Anche ieri sera, tornando a casa, sono passato di lì. Non avevo con me l’acqua ma sapevo che avrei trovato umida la terra delle piantine. Erano belli i fiori nell’ora del tramonto. È bella anche questa amicizia con la persona sconosciuta che le innaffia senza mai farsi vedere, e non manca mai di farlo. Abbiamo orari diversi. Ma non importa incontrarla, la sento vicina, e tutta questa storia dei fiori da innaffiare mi scalda un poco il cuore.
Ho dunque trovato una persona amica a causa di un amico morto. Dunque questo pensiero continuo della morte ha prodotto qualcosa di vero, di bello, di vivo.
Tornato a casa, mi stendo sul letto e in quel momento parte un fraseggio sonoro di un uccellino che si è messo proprio sull’albero davanti alla mia finestra. Non è proprio un canto, appunto è una frase con cento suoni modulati, è come stesse facendo un discorso pieno di alti e bassi, girando intorno allo stesso tema, sprofondando in ciò che sta dicendo, alzandosi, piegando i suoni per esprimere un significato che soltanto lui capisce, o soltanto un suo simile. È da solo, così pare, e parla in maniera molto articolata del mondo, dell’universo, del giardinetto sul quale è cresciuto l’albero foglioso in cui sta facendo le sue dichiarazioni. Pare che non canti il mondo, che non lo celebri, e forse lo fa in una maniera che non ho mai sentito prima. Sta spiegando qualcosa, questo è certo. Ci mette molto impegno, è una lunga frase, sembra non terminare mai. Secondo me, se fossimo capaci di capire, d’intendere ciò che sta dicendo, allora potremmo vedere in certi abissi che finalmente sarebbero illuminati, e perciò non ci farebbero più paura, come la morte innanzitutto. E’ il non sapere che ci spaventa.
Ho ascoltato lo strano canto del volatile enigmatico per dieci, quindici minuti. Poi ho sentito un frusciare di foglie, di ali, ed è andato via. Ecco, terminato il suo discorsetto rivolto a tutti e a nessuno, è partito per altra destinazione. Forse avrà avuto bisogno di procurarci il cibo, chi lo sa.
Che strana creatura. Ma non più strana e incomprensibile dell’intero cosmo.