23 agosto 2024

da | 23 Ago 2024 | Diario del re del bosco

 

Felicità, o ghirlanda fiorita che circondi il mondo quando dorme sotto il peso del dolore e della morte! Perché il mondo vive nel segno del tormento e dell’amore sconosciuto. Dorme, e sogna senza sapere di sognare; e mentre sogna, ruota intorno al perno che tutto regge. O magia, o felicità!

 

 

 

Avevo pensato di tracciare un cerchio che racchiudesse l’intera città, le piccole gioie, gli sforzi che si fanno per campare, le albe contemplate dalla finestra, l’agonia e la morte di un amico, le lunghe attese dal dentista, la fatica di alzarsi presto la mattina per andare a lavorare, la discussione sottovoce in camera da letto tra moglie e marito a proposito dell’educazione dei figli, la noia domenicale, le grida dei ragazzini che giocano a pallone nel cortile condominiale durante un pomeriggio estivo quando l’improvviso frastuono di lamiere al di là del cancello rompe la quiete di quella giornata estiva e i ragazzini che si sporgono per vedere le il litigio tra i due uomini mentre gli altri automobilisti intrappolati nel traffico suonano istericamente i clacson e l’arrivo dell’autoambulanza e le imprecazioni  del ferito… e mille cose ancora avrei voluto riunire nel grande cerchio che tanto desideravo tracciare, come ad abbracciare la città con un’idea, con l’aspirazione di dire tutto. Anche il dolore fisico e la gioia delle partorienti, la solitudine dei guardiani notturni, l’onnipotenza delle donne giovani e belle che camminano per la strada sapendosi osservate… e così via, a salire e a scendere, in lungo e in largo, ogni cosa e persona, perfino coloro che sembrano assenti volevo rinchiudere in questo grande cerchio: le persone morte che abbiamo amato, gli invisibili, da noi sempre pensati e ricordati e rimpianti e perciò costretti a rivivere forse a malincuore in un modo che noi non conosciamo. Ma non soltanto i morti, anche gli angeli e i diavoli volevo includere nel magico cerchio che avevo intenzione di disegnare, perché forse anch’essi esistono, e pure gli innocenti e sconosciuti piccoli animali volevo metterci dentro, sì certo, gli insetti numerosissimi e silenziosi, e i topi odiatissimi e gli esseri alati e più fortunati che vivono lungo i grandi viali alberati, ad esempio i passeri sui rami.

Ma non ne sono capace. Non traccerò nessun grande cerchio. Ne traccerò invece uno infinitamente ridotto nel quale collocherò con estrema precisione la storia della gattina Juve e della signora Rosy, raccontando quanto fu triste gettare il corpo della gattina nel cassonetto condominiale dell’immondizia e anche di cosa pensai dopo, che spiegherà per quale ragione io non ho potuto e non potrò mai tracciare un grande cerchio intorno alla città. Si era infatti ammalata, la gattina. Era molto vecchia ormai e c’era da aspettarselo. (Il fatto è che uno non riesce a prepararsi a niente, cioè non crede possibile che da lì a un’ora, da lì a un minuto tutto cambi e ci si ritrovi ad affrontare il dolore, la morte e tutto il resto). Quasi d’improvviso s’è messa zitta e buona su un cuscino che lei aveva sempre considerato la sua cuccia e poi lì è rimasta. Per amore della verità bisogna dire che di cucce, Juve, ce ne aveva parecchie su e giù per il condominio. Lei infatti se ne andava in giro per tetti e balconi e giardini, entrava nelle case, dappertutto, poiché aveva un mucchio di autentici vice-padroni e vice-padrone e vice-padroncini e mangiava quando e come e quanto voleva; insomma se la spassava e faceva una gran bella vita, fregandosene altamente (anche questo bisogna pur dirlo) degli altri gatti meno fortunati e molto meno furbi e in effetti bisogna dirlo chiaro e tondo per amore di verità: Juve era parecchio furba e incontenibile e in un certo senso amorale poiché a suo piacimento entrava dalle finestre aperte e mangiava nelle ciotole altrui oppure rubava sui tavoli delle cucine e insomma se ne infischiava altamente della buona educazione che, dico io, anche i gatti dovrebbero tenere in considerazione almeno un poco, o no? Mezza addormentata, non s’è mossa da quel cuscino fino a sera che le faceva da cuccia e in poche ore è morta.

Era circa mezzanotte, e poco prima che spirasse, in casa c’eravamo io, la signora Rosy e il portiere del mio condominio. La signora Rosy stava piangendo sommessamente. Anche a me dispiaceva parecchio perché era una bella gattina che conoscevo da tanti anni e sempre se ne stava nel giardino del condominio e quando tornavo la sera in Vespa, lei, sentendo il rumore del motore, saltava fuori dalla siepe e veniva a salutarmi e a prendersi un po’ di carezze e per fare un po’ di fusa. Io me la prendevo in braccio e la sentivo calda e morbida ed era un piacere averla vicino. Era proprio una bella gatta. Bianca con chiazze nere. Per questo la signora Rosy l’aveva chiamata Juve: da Juventus, la squadra di calcio che ha le maglie bianche e nere.

Ad un certo punto si è messa a rantolare, poi ha fatto un profondo sospiro ed è morta. Nella stanza si è avvertito qualcosa di grande e minaccioso, come una specie di promessa mantenuta ad ogni costo. Il portiere ha detto: «Ecco…».

Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto. Poi la signora Rosy ha smesso di piangere ed è uscita dalla stanza. Io e il portiere siamo rimasti lì a guardare il corpo della gattina, fermo, immobile e già estraneo.

Il portiere ha detto: «Adesso bisogna portarla via».

«Ma dove?» ho domandato io.

«La buttiamo nel cassonetto».

«Nel cassonetto dell’immondizia? Ma no!» ho protestato.

«E dove sennò?».

In quel momento è tornata la signora Rosy, si è inginocchiata e ha allargato un telo sul pavimento. «Povera Juve» ha detto. Per un momento è rimasta così, in ginocchio. Poi con due mani ha preso la gattina e l’ha distesa sul telo. Poi ha avvolto il corpo con quella specie di sudario.

«Signora Rosy» ho detto io, «ma adesso dove la vuole mettere? Non vorrà buttarla nel cassonetto dell’immondizia!».

La donna ha fatto un respiro prima di rispondere. Il portiere, invece di lasciarla dire, ha detto: «Per forza. Sennò dove la mettiamo?».

Io ho insistito. «Potremmo metterla in giardino, forse. Scaviamo una buca. Nell’aiuola in fondo. Che ne dice, signora?».

«Ma non si può, credo» ha risposto lei, che ha avuto tanti gatti e dunque sa cosa succede in questi casi. Infatti il portiere ha aggiunto, come per chiudere il discorso: «Certo che non si può».

Allora la signora Rosy ha preso quel fagottino in braccio ed è uscita di casa seguita da me e dal portiere. Camminavamo in fila indiana, scendendo per le scale e poi in strada. Siamo dunque arrivati al cassonetto dell’immondizia. In giro non c’era nessuno; era sera tardi e la gente se ne stava a casa a riposare oppure chissà dove. Faceva freddo, e però il cielo era limpidissimo e stellato. Il portiere ha aperto il coperchio del cassonetto e la signora Rosy ha gettato il fagottino dentro. C’è stato un tonfo perché evidentemente il cassonetto era vuoto. Questo mi ha dato un brivido. Poi il cassonetto è stato richiuso.

La signora Rosy ha detto, mentre tornavamo indietro, che i gatti sono tanto carini e fanno una grande compagnia. Peccato, ha aggiunto, che durino così poco rispetto a noi uomini. Bisogna prepararsi a vederli morire, ha detto. Se non si accetta questo fatto, cioè se non si accetta di dover soffrire prima o poi per la loro morte sempre prematura e perciò difficilmente accettabile anche da chi si prepara ad accettarla, allora è meglio non averli vicino, meglio non prenderli a casa. Ma come si fa a vivere, ha concluso la signora Rosy, senza voler bene a nessuno?

Siano rimasti per un po’ in silenzio davanti alle scale, io, la signora Rosy e il portiere. Poi io ho detto, senza pensare molto a quel che dicevo, così, lasciandomi trasportare dalle circostanze, cioè dalla tristezza derivante da quella specie di funerale per l’amatissima gattina Juve che ora giaceva tra l’immondizia in attesa di essere triturata insieme all’immondizia: «Però non si capisce, proprio non si riesce a capire perché deve essere così, cioè che i gatti devono morire così presto, e anzi non si capisce per quale ragione tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».

Era un’affermazione assurda e ridicola, me ne resi conto perfettamente io stesso appena pronunciata. Mettersi a filosofeggiare a quell’ora di notte davanti alle scale del condominio insieme al portiere e alla signora Rosy era la cosa più scema che essere umano potesse fare. E che diavolo pretendevo, che uno dei miei interlocutori dicesse frasi del tipo è la natura oppure Dio l’ha voluto o qualunque frase banale anche se magari veritiera però certamente inadatta in quel momento? Nessuno infatti aprì bocca per rispondermi, come previsto. Era stata una frase davvero troppo idiota, e come ho già detto lo ammisi in cuor mio immediatamente dopo averla pronunciata.

La signora Rosy disse: «Bene. Allora grazie. Ci vediamo».

«Sì, ci vediamo, signora» disse il portiere prima di scomparire repentinamente nel suo appartamento al piano terra.

La signora Rosy cominciò a salire le scale. Mi chiesi: perché la signora Rosy non prende l’ascensore? È per fare esercizio fisico? Oppure nemmeno ci ha pensato e ha preso la via delle scale e basta?

In fondo sono idiozie anche quelle che mi sto chiedendo adesso, dissi a me stesso.

Sentii i passi strascicati della signora Rosy risuonare per le scale. Poi la chiave, lassù, entrò nella serratura e subito dopo la porta ci richiuse rumorosamente, quasi con violenza, con un piccolo boato che fece tremare i vetri delle finestre lungo le scale.

Io avvertii una fitta salirmi lungo la spina dorsale, ed ebbi come un capogiro. Cosa mi stava capitando? Nulla. Soltanto, mi sentii d’improvviso tremendamente solo. Mi resi conto in quel preciso momento che in vita mia avevo vissuto nella più assoluta solitudine. Chissà perché ci pensai in quella situazione. Provai questa sensazione: il cervello, l’anima, il corpo, gli intestini, il sangue che stava circolando nelle vene, tutto aderiva e formava un’entità unica che aveva forse per la prima volta pienamente coscienza di se stessa e che sentiva di staccarsi con un violento strappo dal resto del mondo e dall’universo intero. Era quest’ondata di solitudine e di consapevolezza che mi aveva fatto trasalire e quasi svenire. Restai per qualche momento immobile, aggrappato alla ringhiera delle scale, a cercare di capire se sarei morto o no.

Ma non accadde nulla di irreparabile. Mi scossi da quella specie di catalessi in cui ero precipitato e raggiunsi casa mia. Una volta a letto, pensai: «Non bisogna mai fare domande. Le domande sono sempre assurde, stupide». Presi una pastiglia di Valium e spensi la luce del comodino. Restai un poco sveglio, nella penombra, a godermi il tepore del letto e a riflettere su ciò che era accaduto. L’ultimo pensiero prima di dormire: «Non scriverò mai più nulla che non riguardi con esattezza me stesso, ciò che mi capita, le poche cose che succedono. Non scriverò mai un romanzo, non traccerò mai un grande cerchio intorno alla città».