Fondare una religione, una rivista letteraria, un’azienda multinazionale. Fondare uno Stato in Africa Centrale. Sì, può essere bello. Ma è ancora più eccitante distruggere, annientare ciò che avevamo costruito con impegno, fatica. Sì, l’ebbrezza di distruggere se stessi facendo saltare in aria la speranza che ci aveva tenuti in vita per un certo periodo di tempo. Minare le fondamenta del nostro essere, della Storia, della grande illusione universale!
Così forse arriveremo a quel Vuoto di cui parlano i monaci buddisti, i mistici, coloro che sono andati oltre ogni desiderio e ambizione. Ho conosciuto persone che, del tutto inconsciamente, durante la loro vita non hanno fatto altro che distruggere tutto ciò che avevano intorno, la propria professione, cose e amicizie, specialmente amicizie, riuscendo perciò a realizzare un ambizioso programma d’incenerimento e di sconfitta personale e che si sono ritrovate quasi felicemente dentro un vuoto siderale, in una specie di paradiso dove riposavano e mai più soffrivano.
Disfarsi dell’inutile, di ciò che sembra necessario, attaccare il palazzo d’inverno delle nostre stupidissime e assurde ambizioni!
Ma forse è un’ ambizione anche questa.
Rinchiudersi in un convento. Sì, dove fuggire per scacciare le angosce e le tentazioni e quegli spiritelli perfidi che mi girano nel cervello e per ritrovarmi finalmente dietro alte e spesse mura a pregare Dio di salvarmi l’anima mia nei freschi mattini quando ci si alza presto e l’alba è piena di promesse e la giornata intera si stende limpida e inoffensiva e senza alcun intoppo fino a sera, purché la vita resti fuori da quelle mura, lontana e così indecifrabile al di là di quel grosso portone che la terrebbe separata per non disturbare mai più quella ritrovata pace impermeabile al vento caldo e pieno dei profumi e dei ricordi che mi porterebbero il ricordo di lei e tutti i desideri e i rimpianti se io appunto non restassi dietro a quelle mura impegnato a salvarmi l’anima che però un giorno potrebbe svanire per essere stata troppo al chiuso e al freddo.
Alto, altissimo… Irraggiungibile e inconoscibile, misterioso.
Neve in cima a una montagna, lontano. È come un bacio, il più intenso che si possa dare (o ricevere), è come una solitudine difficilmente sopportabile eppure bella, ricca di tante cose e che non fa rimpiangere nessun tipo di compagnia. È un nocciolo duro intorno al quale girare. Alto, altissimo questo ripiegarsi su se stessi, questo scendere fino in fondo.
Abdicare, è interessante questo verbo poco usato che leggo per caso in un vecchio libro. Io conosco la storia di una uno che una volta ha abdicato davvero.
Abdicare… sì, come stava sul punto di fare il re Faruk d’Egitto la mattina del 18 giugno 1952 ad Alessandria, nel grande studio al secondo piano della reggia, a favore del figlio che proprio in quei giorni aveva compiuto appena due anni. Chiaro che l’atto di successione al trono era soltanto formale, non c’era bisogno nemmeno di un consiglio di reggenza: Nasser e gli altri ufficiali dell’esercito egiziano, che erano riusciti ad attuare in poche ore il loro colpo di Stato militare, non avevano alcuna intenzione di formare un consiglio di reggenza, era evidente, e non aspettavano altro che di abolire la monarchia. Al trentaduenne Faruk, salito al trono all’età di sedici anni nel 1932, non restava dunque che mettere la firma su quel foglio che un colonnello traditore aveva già posato sulla sua scrivania.
Gli avvenimenti fino a quel punto erano stati precipitosi e violenti; e soprattutto casuali, in quanto la Storia, noi ormai l’abbiamo capito, non procede secondo una logica precostituita e ineluttabile ma seguendo le imprevedibili leggi del Caos. Forse se egli avesse avuto il tempo di parlare al generale della caserma del Cairo, suo fedelissimo, i colonnelli di Alessandria non avrebbero avuto il coraggio di procedere nel piano golpista. Sarebbe bastata una telefonata, pensava Faruk guardando le facce incattivite dei golpisti, e con qualche sparatoria tutto sarebbe tornato a posto. Ma quando sulla reggia erano cominciate a piovere proiettili e colpi di mortaio, le linee telefoniche erano state interrotte. Lui, Faruk, aveva prima pensato a sistemare le figlie e la moglie dietro un armadio, nella camera da letto, e poi era corso al telefono. La linea era ancora attiva. Era riuscito a fare una telefonata al Primo Ministro che lo aveva tenuto occupato più del necessario: fischiavano le pallottole, cadevano le bombe, non era il momento di mettersi a sviscerare le cause di quel colpo di Stato, ma quando quello iniziava a blaterare… forse nemmeno si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Quando smise di parlare con quel politicante inetto, finalmente compose il numero del suo vecchio amico che guidava la grande caserma di Alessandria e che si trovava dunque a poche centinaia di metri dalla reggia dove egli si trovava circondato. Il telefono aveva fatto uno squillo e poi aveva taciuto. Sarebbe bastato qualche attimo in più per parlare col generale che sicuramente sarebbe accorso per difenderlo e scacciare i ribelli, che non erano più di duecento/trecento soldati dotati di pistole, mitragliatori e artiglieria leggera. Certo, magari non sarebbe bastato il suo intervento e la resa dei conti sarebbe stata semplicemente rinviata: la situazione era ormai compromessa, di questo ormai bisognava rendersi conto, disse a se stesso. Quegli ultimi giorni erano stati terribili: gli incendi e i saccheggi provocati da quei pazzi dei Fratelli Musulmani, gli scontri in parlamento e nello stesso governo… Il colpo di Stato non era che la logica conseguenza di una crisi economica e politica che era cominciata con la grave sconfitta nella guerra con Israele nel ’48. Già, era tutto cominciato da lì… e lui, Faruk I, re dell’Egitto e del Sudan, sovrano della Nubia, del Kordofan e del Darfur, non era riuscito a fermare il disastro…
Queste riflessioni le stava facendo continuando a rimanere seduto alla sua scrivania mentre i militari aspettavano in piedi formando un cerchio attorno al suo tavolo. Stavano aspettando troppo? Non importa, si disse, un re abdica una sola volta nella vita e quella per di più era la fine della dinastia che aveva regnato in Egitto per quasi due secoli, dai tempi di Mehmet Alì.
Faruk alzò lo sguardo verso la finestra: da lì si vedeva il mare e il porto di Alessandria, e le mura della grande moschea e più in là il deserto… Una bella mattinata di giugno, era quella. Durante la notte il vento aveva spazzato via l’afa e l’aria adesso era più fresca.
Gli venne in mente che avrebbe potuto alzarsi e avvicinarsi subito alla finestra per guardare il panorama e riflettere un poco. Ma allora i colonnelli avrebbero protestato. Fino a quel momento non c’erano state minacce fisiche, se non implicite, dunque era meglio pazientare e cercare di andare incontro alle loro esigenze di ribelli molto indaffarati. E poi, riflettere su cosa? Non c’era altro da fare che firmare il foglio…
Dunque prese la penna e fece ciò che tutti stavano aspettando con ansia: firmò. Poi, con un grande sforzo, sentendosi improvvisamente esausto, si alzò in piedi per raggiungere la finestra nel silenzio assoluto.
Un gabbiano passò velocissimo davanti ai suoi occhi sbucando da dietro ai tetti per dirigersi verso il porto e il mare.
Decalogo.
Non andare, non muoversi, non raggiungere mai la meta. Forse un giorno partire, sì, ma sbagliando subito strada, intenzione, visione del mondo. Ritrovarsi sempre al punto di partenza.
Amare per non essere amati. Piegare la testa di fronte all’amato: dire sì, sì, e ancora sì, ad ogni costo. Mai non cedere, mai non volersi umiliare. Anzi aggiungere: «Non mi vuoi? Non importa, non posso smettere di desiderarti per sempre».
Pregare all’aria aperta, sotto il sole, insieme a tutte le creature che, ignorate, fanno della loro muta esistenza un lungo credo: poiché se ballano i filamenti delle alghe (e tu l’hai visto lo spettacolo marino al di là della maschera da sub, amore mio), anche i pesci multicolori si muovono al ritmo segreto del mare, del grande mare, del mare infinito.
Le nuvole viaggiano veloci dentro il quadro della tua visione, ma non sto parlando di adesso: hai undici anni e con tuo fratello sei sdraiato sull’erba a guardare il cielo… ed ecco che, mute, le creature del mondo dicono la loro preghiera, che non è altro che chiedere di vivere e respirare.
Descrivere ciò che non si riesce a descrivere, perché è dietro alla facciata delle cose e delle creature e della gente: il mondo incerto, invisibile, che sta davanti ai nostri occhi ed aspetta soltanto una voce. Ma questa voce non l’ascolteremo mai.
Salutiamo la nostra amica e complice, a cui da sempre abbiamo teso la mano. Dico veramente: da sempre. Soltanto che prima, e questo prima giunge fino a poco tempo fa, cioè fino a ieri, tutto ciò era un inconscio richiamo a cui noi rispondevamo con un battito di ciglia, con un sussurro a noi stessi, con uno sguardo verso laggiù, laggiù, dove non c’era nessuno, nessuno.
Oggi invece salutiamo la nostra amica che si annuncia con dolcezza. È l’autunno e sarebbe bello morire.
La sentiamo nell’aria. È qui attorno e canta: la canzone della gestazione e del disfacimento. Nel procedere si arretra. Si nasce per morire. Quanta gioia e stanchezza nella germinazione, nel seme che si spacca per far entrare la vita!
Dunque, se è vero che in ogni inizio c’è sempre la fine, noi salutiamo in ogni nascituro il vecchio che sarà, e il prossimo morituro. Andiamo dall’ostetrica e l’abbracciamo piangendo, e poi le diciamo con rabbia: «Tu favorisci la morte di questa povera creatura!».
La nostra amica è vestita di nero, sì, ma soltanto per abitudine. Ci sorride, vedete? Sta sorridendo ed è una bella ragazza. (Accidenti come è bella!).
Corriamo ad abbracciarla.