Sono un poco felice, stasera. La persona sconosciuta che insieme a me si occupa delle piantine in onore di Mohammed Hossein Naghadi, l’eroe iraniano, dopo qualche di giornata di pioggia, è tornata, non ha dimenticato. Ho visto la terra bagnata, ha innaffiato le piantine forse stamattina. Avanti così, non ci ferma nessuno!
«Sei rimasto solo tu». Così mi disse il professore di disegno al liceo artistico di via Ripetta. Lo incontrai una sera, a piazza Madonna dei Monti, sugli scalini della fontana. Questo accadde molti anni fa, forse venti se cerco di dare una approssimativa collocazione temporale all’episodio.
Che cosa voleva dire? Ero rimasto solo io a voler essere un “artista”, diciamo, un poeta, qualcosa del genere. Se ci rifletto adesso, poiché scambiammo poche parole, era questo che voleva dire. E perché sosteneva che fossi rimasto addirittura “il solo”. Come me l’ero guadagnata questa considerazione così lodevole e gratificante? Che cosa avevo detto, o fatto? Evidentemente mi ero comportato in un certo modo, e un modo diverso dagli altri. Non ricordo esattamente ciò che all’epoca facevo o dicevo ma certamente mi sono rimaste impresse nella memoria, dico per iniziare il discorso, una marea di stupidaggini, assurdità, vere e proprie idiozie che avrei potuto evitare e che mi hanno enormemente danneggiato, anche se non troppo, essendo ancora vivo.
Questo voler essere un poeta, un “artista”, ad ogni costo, meriterebbe un bel romanzo, ma io non sono capace di scriverlo e poi ne sono stati scritti a decine, forse centinaia sul come un giovane si mette in testa di essere “un poeta”, un “artista”, mettendosi contro la famiglia e tutto il resto. Ci sono sicuramente dei classici che trattano l’argomento. Se ci penso un momento…Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce, ad esempio. E poi: Tonio Kröger di Thomas Mann, I ragazzi terribili di Jean Cocteau, Il Diavolo in corpo di Radiguet , Il giovane Holden di Salinger… Avrei fatto meglio a leggerli, anzi a rileggerli e comprenderli invece di leggerli superficialmente. Ma più dei romanzi mi pare che avrei dovuto considerare con maggiore maturità le biografie di certi poeti e scrittori, invece di osannarle e anzi cercare di imitare le loro “stagioni all’inferno”: Rimbaud, Dylan Thomas, Dino Campana, Sandro Penna…
Del resto, un’anima romantica e ribelle come la mia a quali persone avrebbe dovuto fare riferimento? Tutto il peggio l’ho ricavato da loro, e dalle loro opere, che spesso non raccontavano altro il modo in cui avevano vissuto e ciò che avevano provato. Tutto il peggio ma anche tutto il meglio. E poi c’erano i poeti che conoscevo personalmente, veri e propri “maledetti”, come Pietro Cimatti, Marcello Landi, Margherita Guidacci, Gianfranco Palmery. Ammirati con devozione, anzi adorati.
Facile adesso, alla mia età, condannare e riconoscere gli errori plateali commessi dal un giovane (cioè il sottoscritto), che sì, è vero, aveva trascorso una vita da “vero artista”, scontando pienamente tale scelta, innanzitutto con un doloroso isolamento. Certo, ce l’ho messa tutta a distruggere la mia vita. Ma come ho scritto nella Piccola dea, obbedivo a un impulso che mi sovrastava. Era una malattia mentale, una debolezza di carattere, forse qualcosa di profondissimo e d’incomprensibile che mi guidava, nel cielo e nell’abisso.
Ma come avrei potuto non sbagliare?
Trovo nel mucchio dei miei libri un libretto di Adriano Dorato. Fisicamente me lo ricordo a malapena. Una persona dolcissima, amico di quel vero matto da legare di Aldo Piromalli, che era stato uno dei primi hippy degli anni Sessanta, e un poeta. A leggere quelle pagine si capiscono tante cose…. Anche se tutto appare assurdo e incomprensibile a distanza di tempo, bisognerebbe evitare l’errore di gettare se stessi interamente nei rifiuti e di salvare invece ciò che era giusto, vero, bello.
Forse questo mio strano diario serve a salvare quello che sono, e quello che sono stato.