Un bel pezzo di via Salaria, dopo essere sceso dalla collinetta del Nuovo Salario, dove abitavo, ed ecco piazza Fiume, poi a destra lungo via Sicilia verso via Veneto, e giù fino a piazza Barberini proseguendo su via del Tritone per arrivare infine a via del Corso, davvero una bella camminata. Del resto avevo bisogno di muovere le gambe e di rilassarmi anche se in effetti di rilassarmi non fui capace manco per niente: a causa della visita di un capo di Stato straniero (non ricordo chi, forse Obama o Putin), il gran casino abituale regnava incontrastato più che mai, come fosse una necessità vitale per la città, stabilita per legge, per decreto imperiale o quanto meno parlamentare. Tra automobili di scorta e misure di sicurezza, mentre i romani intrappolati nelle loro scatole di metallo a quattro ruote non potevano far altro che pigiare i clacson ed imprecare contro il Governo, il Fato, gli dèi perfidi e vendicativi, io giunsi per caso – anche se forse nulla è per caso – in un mercatino di libri usati, esattamente quello di piazza Borghese, a due passi dalla Camera dei Deputati.
Là stranamente, come in un’oasi o nell’occhio del ciclone, non si vedeva anima viva avendo i molto previdenti addetti del Comune transennato le strade. Io però, guardandomi attorno per non essere notato sotto la pioggerellina insistente che non smetteva d’infastidire, con agile movimento e come se niente fosse scavalcai l’ostacolo arrivando tra quei banchi pieni di volumi impolverati e malridotti, iniziando a sbirciare non soltanto tra le pagine ammuffite delle edizioni rare e pregiatissime ma anche tra i libri ammonticchiati degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, dunque non di mille anni fa e però già deteriorati, dimenticati, lasciati a galleggiare nel Tempo incommensurabile per diventare rari e pregiati lentissimamente. La vecchiezza infatti, che spesso fa più belle e degne d’interesse certe cose, come ad esempio gli edifici e i quadri dipinti ad olio o a tempera ed appunto i libri (talvolta, se pur raramente, anche il volto delle persone), appesantiva quei piccoli oggetti nascosti e superflui eppure li rendeva delicatamente affascinanti nella piazzetta sotto la pioggia che non si decideva a smettere.
Sulla sommità di una pila scomposta e sbilenca di volumi ce n’era uno, impolverato ma inconfondibile, dell’editore Bollati Boringhieri, prestigiosissimo dalla metà degli anni Settanta e per almeno un decennio, alla quale personalmente non smetterò mai di essere grato. Da ragazzo scoprivo nelle sue collane i testi di Freud, di Jung e di altri autori di opere scientifiche trascorrendo intere giornate con i volumi che sembravano infondere conoscenza a cominciare dall’eleganza dei caratteri, l’originalità e nello stesso tempo la sobrietà della disposizione grafica e della rilegatura, non come tanta robaccia stampata che sembra voler comunicare anche tipograficamente un messaggio immediatamente banale e ripugnante.
Così avvicinando lo sguardo cominciai ad osservare la copertina del libro. Sotto il titolo, Il ramo d’oro, era riprodotto un paesaggio come di fiaba, uno scenario campestre dove i contorni delle cose e delle figure umane apparivano imprecisi, sfumati. Quasi al centro del dipinto stava un lago, come una nuvola caduta in mezzo alle colline, poi sulla destra si vedevano, più vicine, sotto un grande pino marino, due piccole figure di donna: la prima seminuda, sdraiata e voltata di spalle; l’altra intenta ad osservare la scena che si svolgeva poco distante. Un gruppo di giovani (ma tutti sembravano giovani e immortali in quel dipinto) danzavano in cerchio. Infine una donna, sul lato sinistro del quadro, esibiva un ramoscello, come un segno convenuto, un segreto messaggio.