«È la diversità quella dote pericola di cui parla Baudelaire: “La dote pericolosa è uno spirito più sensibile, più elevato, più delicato, ignorato dalla normalità dei colleghi, dei compagni, e della folla”.
La superiorità e l’indipendenza del giudizio; la possibilità di vedere dalla propria lontananza ciò che un osservatore troppo da vicino non vede; quella capacità percettiva, o fragilità dell’indole che va sotto il nome di sensibilità; un’immaginazione più alta di quella diffusa e dominante: tutto questo certamente è parte della diversità. Proprio la proiezione allucinatoria del disagio e della paura che queste doti ispirano ad una umanità che non vuol essere distolta dai suoi torpori e dai suoi ciechi commerci, trasforma questi diversi in angeli caduti e temibili dèmoni.
È la diversità che resta drammaticamente aliena al proprio tempo, e che viene assorbita, assimilata con un lento, faticoso processo digestivo e dunque mai accettata, ma alla fine talvolta celebrata nei casi degli artisti riscoperti dopo la morte e un’esistenza misera e infelice. Grandi capacità individuali, felicemente ignorate… Così il mondo fluttua in una frivolezza e irrealtà minacciose».
Gianfranco Palmery, Divagazioni sulla diversità, Edizioni Il Labirinto, 1985.