La legge del contrappasso. Anche questa cosa, come il verbo formicare che da bambino avevo frainteso con fornicare pensando avesse a che fare con qualche strana perversione sessuale riguardante le formiche, non l’avevo capita e pensavo, da bambino, che fosse un espediente musicale nella musica jazz, un modo di suonare il contrabbasso in certi casi rari, nei quali il musicista magari si lascia andare a un “a solo” troppo lungo e allora gli altri componenti della band intervengono coi loro strumenti per sovrapporsi al suonatore di contrabbasso per farlo smettere e riportarlo sulla giusta strada dell’esecuzione.
Sì, la legge del contrabbasso. Charles Mingus la conosceva benissimo.
Ma come mi venivano in testa queste assurdità? È che da bambino ho avuto problemi con il linguaggio. Fino a due anni non parlavo, poi fino a quattro o cinque anni ho elaborato un mio linguaggio personalissimo ma mi capivano soltanto i miei fratelli, che traducevano ciò che dicevo ai miei genitori.
Mi portarono pure dallo psichiatra. Al centro di igiene mentale che stava, se ben ricordo, al Policlinico Umberto I. Una grande sala, piena di bambini urlanti… e mia madre, poverina, con infinita pazienza se ne stava lì seduta ad aspettare il suo turno per la visita con lo psichiatra per sapere come fare con questo suo figlio che non si capiva se era mezzo scemo oppure un artista d’avanguardia che aveva a noia il linguaggio comune e aveva dunque deciso di elaborarne uno per conto suo, stranissimo, inesplicabile, che solo quelli della neoavanguardia degli anni Sessanta avrebbero potuto comprendere.
Poi arrivò il mio turno. Entrai con mamma in una camera (la ricordo benissimo e ora non aggiungo nullo di scherzoso o esagerato). Lo psichiatra in realtà era una psichiatra, cioè una donna. Aveva gli occhiali, si atteggiava in maniera molto professionale, avevva lo sguardo severo e mi faceva un po’ paura anche se mi disse facendomi una carezza sulla testa che non dovevo preoccuparmi, che dovevamo fare un piccolo esame per vedere bene la situazione. Ricordo come se fosse ieri che mi fece sedere davanti alla sua scrivania, mi mise davanti agli occhi un foglio di carta e una matita e disse: «Adesso, Robertino, disegnami una casa. Ma non la casa che ti hanno fatto disegnare all’asilo ma la casa come ti viene in mente senza pensarci, così, istintivamente». Io la guardai e guardai il volto preoccupato di mia madre. Allora, giuro che dico la pura verità, pensai che se avessi disegnato la casa come mi era venuta in mente in quel momento mi avrebbe rinchiuso al manicomio. La mia casa immaginata era lunghissima e stretta, arrivava fino alla luna e anche oltre, non c’etano finestre, e nemmeno la porta d’entrata. E non era dritta ma tutta a curve.
Io per paura di essere spedito dritto dritto al manicomio disegnai una casetta squadrata con le finestrelle davanti a un sentiero, e vicino c’era un alberello e poi una collina e tante pecorelle. Come la voleva la dottoressa. E che ero matto davvero a farla come l’avrei fatta se mi fossi fidato? Certo, è incredibile che a quell’età pensassi in quel modo e fossi capace di fregare degli adulti, e addirittura una psichiatra!
La dottoressa guardò il foglio e disse a mia madre: «Tutto a posto. Suo figlio è normalissimo».