Ah, che storia! Proprio quello che ci vuole per divagarsi. (Amico lettore, non rifiutare lo scherzo, la burla stravagante e un po’ volgare. L’uomo felice è colui che conosce ed apprezza il lieve tempo del sorriso accanto a quello, più profondo e vero, del raccoglimento, della ricerca interiore e del sogno ad occhi aperti, cioè della poesia. E tu, io credo, vuoi essere felice). Del resto la faccenda di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati sembra fatta apposta per entrare a questo punto nella nostra serie di pagine di Diario. Per farla breve e senza inutili divagazioni, io ho questo cugino che si chiama con quel nome curioso, che non è un soprannome, un nomignolo di famiglia o qualcosa del genere, no. Lui si chiama proprio così, Asdrubale Mancini. Se per caso vi venisse in mente di andare a controllare all’anagrafe vi rendereste conto che non dico bugie ma racconto come stanno le cose esattamente. Questo lo dico perché voglio essere preciso nella descrizione dei personaggi di questa strana e divertentissima vicenda che vi farà sbellicare dalle risate appena sarete a conoscenza dei fatti puri e semplici che non tarderò a raccontarvi. Non voglio prenderla alla lontana con tanti giri di parole, anzi muoio dal desiderio di arrivare immediatamente al dunque evitando di parlare di cose futili, e mi scuso se ho tergiversato troppo, anche per i miei stessi gusti; del resto, se non avessi precisato i problemi anagrafici di mio cugino Asdrubale (che, lo ripeto per scongiurare qualsiasi equivoco, si chiama davvero Asdrubale) avrei generato nel lettore un dubbio, un piccolissimo dubbio che avrebbe potuto disturbarlo e che comunque avrebbe senz’altro disturbato me, che odio l’inesattezza e l’imprecisione. Proprio come Asdrubale. Infatti se andate da lui e gli chiedete come si chiama, lui vi risponde e poi vi guarda con quello sguardo indagatore che ormai è una consuetudine e vi dice se per caso vi state chiedendo se lui si chiama Asdrubale soltanto per gli amici e i parenti oppure si chiama veramente in tale modo curioso e bizzarro. È capace di tirare fuori il portafoglio per farvi vedere la carta d’identità, la patente, il passaporto, tutti documenti dai quali risulta incontestabilmente che lui si chiama anagraficamente Asdrubale; e perciò nessuno, afferma convinto, potrà mai cambiare questa situazione. Forse è un po’ matto questo mio cugino. Ha una specie di mania di perfezione. Detesta il pressappochismo, la pigrizia mentale, la trascuratezza nell’azione e nella parola, forse esagerando. Una volta è venuto alle mani con un tizio che era rimasto molto infastidito da tale insistenza. Quello diceva che non gliene fregava niente se lui si chiamava o no Asdrubale e invece mio cugino lo investiva di chiarimenti anagrafici, di argomentazioni linguistiche, di recriminazioni riguardanti l’irresponsabilità dei genitori che mettono nomi ridicoli ai proprio sfortunati figli, eccetera eccetera… Alla fine il tipo si è spazientito e gli ha mollato un ceffone. Apriti cielo! Asdrubale si è messo a piangere come un bambino dicendo che non era colpa sua se lo avevano chiamato così, che lui era soltanto uno a cui piacevano le cose esatte, limpide, senza alcuna ombra e che dunque voleva chiarire un aspetto che gli sembrava importante perché, secondo lui, quando si rimane con una piccola curiosità, questa stessa curiosità col tempo ingigantisce fino ad occupare tutta la mente e il cuore e l’anima e così ci si ritrova a delirare senza andare al sodo, senza badare a ciò che è necessario e inevitabile. Forse questa mania di perfezione me l’ha attaccata pure a me, perché forse sto infastidendo il lettore; credo però che specificare e chiarire sia stato importante prima di procedere oltre e raccontare finalmente l’ avvincente e quasi incredibile storia del commercio dei falli di plastica usati.
Questo mio cugino è un’anima pia, un bravo ragazzo, un buontempone, uno che non torcerebbe capello a creatura umana o animale o vegetale; un santo quasi, nonostante questa fissazione dei nomi e del perfezionismo. Però le sue finanze, forse da sempre, sono un po’ in rosso, molto in rosso, diciamo pure in un rosso profondissimo che lo vede costretto periodicamente a salvarsi la vita in extremis inventandosi di sana pianta lavoretti di poco conto che gli permettono di riempirsi le tasche e pagare i debiti. Alcuni mesi fa telefonò a una sua amica finlandese che abita a Novara, sposata a un napoletano che ha aperto una pizzeria proprio in quella città, una bella pizzeria che, dico per inciso, è stata una grande fortuna, per lui, e di conseguenza per la moglie che ha potuto perciò usufruire di un certo benessere. Non si sa bene per quale ragione, a Novara la pizza napoletana va alla grande. Sì, gli abitanti di Novara (che, se non sbaglio, si chiamano novaresi) letteralmente impazziscono per la pizza: sia per quella napoletana diciamo “classica”, col pomodoro e la mozzarella, sia per quell’altra detta Marinara, con pomodoro e origano, ma soprattutto per quel tipo di pizza che viene chiamato Quattro stagioni, con uova, prosciutto, carciofini e olive… Perché poi venga chiamata in tal modo proprio non so, forse per il fatto che Quattro stagioni dà l’idea di una certa varietà di sapori e d’intenzioni culinarie (come i cambiamenti climatici delle stagioni, appunto) che in effetti risulta evidente a chiunque entri in una qualsiasi pizzeria italiana per ordinare quel tipo di pizza. Comunque nessuno, io credo, potrà mai saperlo con esattezza, a meno che non esistano documenti storici che attestino con una certa sicurezza l’origine di tale denominazione… Però non vorrei approfondire questo discorso perché altrimenti non ne usciamo più. Non vorrei fare la fine di mio cugino Asdrubale. A me non interessa molto come e perché si chiamano le persone o le cose, mi basta pensare che una buona ragione ci sarà stata per aver chiamato Quattro stagioni quel tipo di pizza napoletana. Ciò che invece mi preme davvero è quella faccenda del commercio dei falli di plastica usati che racconterò senza altri preamboli.
Dunque mio cugino Asdrubale telefonò alla moglie finlandese del pizzettaro napoletano e disse: «Ciao, come stai?».
«Bene, grazie» rispose lei, «però potrebbe andare meglio se non avessimo così tanti debiti».
«Ah capisco» aggiunse mio cugino, «mi dispiace».
«Davvero ti dispiace?» chiese lei.
«Certo che mi dispiace».
«Io invece dico che non ti dispiace affatto».
«Ma sì, come te lo devo dire? Mi dispiace moltissimo!» esclamò mio cugino, subito infastidito da quella diffidenza.
«No, non ti dispiace affatto, e per una semplice ragione» continuò lei, «e cioè perché tu sei supremamente egoista».
Proprio così disse: supremamente. Chissà come mai una finlandese residente a Novara e sposata a un napoletano riusciva ad esprimersi con tale invidiabile eleganza, mah! È un mistero, direi, e del resto la vita è fatta di grandi e piccoli misteri che ci circondano e ci avvolgono e talvolta ci soffocano… ma non stavolta, perché non ci turberà più di tanto sapere per quale inesplicabile e misteriosissima ragione quella donna amasse utilizzare parole del vocabolario della lingua italiana così ricercate e, ammettiamolo pure, desuete come appunto supremamente. In fondo, che ce ne importa a noi? Ah certo, proprio così, questo infinitesimale mistero proprio non riuscirà ad intaccare la nostra tranquillità e innanzitutto la nostra ottima considerazione della Finlandia e dei finlandesi. Noi tutti amiamo quel Paese lontano, anche se talvolta non riusciamo ancora a comprenderlo del tutto in quanto è quasi impossibile razionalizzare una situazione che definire stravagante e bizzarra è poco, cioè questa: senza che nessuno la obblighi, una ragazza abbandona un paradiso come la Finlandia per seguire un uomo fino a Novara e sposarlo per condividere un’esistenza certamente dignitosa ma non agiata e sicuramente alquanto impegnativa e senza permettere che questa difficile condizione esistenziale intralci minimamente l’indole originaria, nobile, profondamente delicata che si rivela anche nell’esprimersi utilizzando le parole più belle e poco usate di una lingua imparata tra una portata di pizza Marinara e una di Quattro stagioni, nel mezzo cioè di un’ atmosfera semplice e certamente simpatica e accogliente ma non paragonabile a quella rarefatta, limpida della tundra finlandese, tra renne, contadini taciturni, sole fermo all’orizzonte per mesi e mesi… Ma non voglio assolutamente divagare. Ho invece la fortissima necessità interiore di raccontare i fatti nudi e crudi, poiché il sottoscritto, diciamolo pure, è un tipo concreto che non si perde in chiacchiere. E mi dispiace molto di aver perso tempo, di essermi disdicevolmente dilungato, uscendo per di più fuori tema come facevo a scuola nei compiti in classe d’italiano. Ammetto che mi sono fatto prendere dalla foga del discorso ed ho parlato di questioni che magari a te, caro lettore, sembreranno inutili e banali; però dovevo parlarne, te lo dico francamente, perché certi particolari non vanno trascurati, come ad esempio la fastidiosa e pesante zavorra che all’inizio di questo tema ci siamo trascinati sulle spalle e cioè la questione del nome della quale per fortuna ci siamo liberati definitivamente proseguendo così il racconto di ciò che realmente è accaduto, senza ricami e rimandi, anche se prima di proseguire non posso trascurare una breve riflessione di carattere etico: forse il mio lettore può pensare ad una eccessiva severità con me stesso, ma io credo fermamente che non si possa sprecare troppo tempo a raccontare una storia pur avvincente come questa indugiando leziosamente sugli inutili dettagli e trascurando i nostri doveri familiari e civili. Siamo uomini di lettere, questo è certo, ma innanzitutto cittadini responsabili, consci dei propri doveri. Quando noi, dico per assurdo, fossimo improvvisamente chiamati alle armi, non dovremmo nemmeno per un solo istante esitare rischiando di trascurare il richiamo della Patria continuando magari ad occuparci di Asdrubale e dei suoi tentativi più o meno riusciti di rimediare denaro, oh no! Noi lasceremmo la penna nel calamaio seduta stante, ci alzeremmo dal nostro amato scrittoio gridando: «Eccomi, Patria mia!» e correremmo impavidi a difendere a costo della vita le nostre donne, i nostri bambini, l’adorato suolo italiano, lì al fronte. Non più penna, ma baionetta. Per questa ragione dobbiamo tornare brevemente a parlare di mio cugino per sbrigarcela una volta per tutte con i suoi incredibili tentativi di porre rimedio ad un’incresciosa situazione economica: vicende assurde, pazzesche, che stenterete a credere. Ci sarà addirittura un lieto fine, che però sconvolgerà tutte le vostre credenze e opinioni. Reggetevi forte dunque, mantenete la calma. Io ho perso un po’ di tempo con inezie e discorsi strampalati ma non vedo l’ora di raccontarvi per filo e per segno questa storia curiosa eppure edificante di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati.
Dov’eravamo rimasti? Ah sì, la finlandese accusò mio cugino di essere nient’altro che un egoista; anzi di essere supremamente tale. Allora mio cugino, un po’ offeso, pur notando il godibile vezzo linguistico, rispose: «Non è vero, scusa se ti contraddico. Perché dici così? Io non mi sento affatto egoista».
«Dico così perché io ti conosco bene».
«Ah sì? Tu mi conosci bene?» domandò Asdrubale.
«Oh certamente, ti conosco molto bene perché la nostra relazione è stata lunga e appassionante e travolgente, e adesso lo so io cosa t’interessa veramente sopra ogni altra cosa».
«Io non tornerei a quella vicenda ormai conclusa da tempo… Ma dimmi: cos’è che m’interessa? Dimmelo tu allora!» fece mio cugino un poco seccato da tanto veemente e implacabile impeto accusatorio.
«Il sesso, ecco cosa interessa a te, mio caro».
Lui rimase in silenzio con la cornetta alzata. Un lungo silenzio prese forma, quasi palpabile, tra Novara e il Tiburtino, che è un quartiere a sud di Roma dove per l’appunto abitava mio cugino. Che quasi gridando disse: «È una vergognosa illazione!». Incazzato nero, mio cugino. E proseguì dicendo: «Sei tu, invece, che ami troppo il sesso. Lo so io e lo sanno tutti a Novara che sei un’autentica sporcacciona».
«Non è affatto vero! Questo è un volgare pettegolezzo!».
«Ah, quello che dico io è un pettegolezzo mentre quello che dici tu è sacrosanto e vero?» disse lui, che è uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. E aggiunse: «Ma fammi il piacere, stupidina». Un tipo tosto, mio cugino.
«Io non sono una donna di facili costumi dedita soltanto ai piaceri della carne» cercava di spiegare lei, la finlandese. «Però ammetto di essere curiosa e sensuale, ma che male c’è? Infatti, se vuoi posso raccontarti cosa è successo proprio ieri sera. Potrai così renderti conto che ci sono cose che ancora mi sorprendono e mi fanno arrossire nonostante io sia tutt’altro che timida. Vuoi che ti racconti?».
«Ma certo, mia cara, racconta pure» rispose mio cugino accendendosi la pipa, improvvisamente più disponibile in quanto curioso, curiosissimo di sapere cosa mai fosse accaduto a quella donna imprevedibile, dal linguaggio così ricercato, emigrata da un Paese tanto lontano e forse non ancora completamente conosciuto, almeno per quanto riguarda l’indole dei suoi abitanti.
«Era un pomeriggio tipicamente autunnale» cominciò a dire. «Sai quei pomeriggi a Novara di novembre? Il vento spazza la città, le persone un poco infreddolite si stringono negli impermeabili affrettando il passo mentre anche i piccioni, che stazionano sui tetti della cattedrale di San Gaudenzio, sembrano sorpresi ed un poco avviliti: sbattono le ali, si riparano frettolosamente sotto il campanile, svolazzano di qua e di là come se fossero preda di una febbre leggera, indefinibile, dalla quale però è difficile guarire. Tutto sembra aspettare un segnale definitivo, un sì o un no che decida finalmente l’inizio del vero inverno, che tolga dunque le persone, gli animali e le cose da quel fastidioso stato intermedio. Quando a dicembre la temperatura scende sul serio, e i temporali si susseguono senza sosta, si prova quasi un sollievo. Poiché finalmente un destino si compie. La stagione autunnale, come fosse stata da lungo tempo malata, in bilico , diciamo così, finalmente è trascorsa, terminata finalmente davvero. Si possono tirare fuori i cappotti dagli armadi, le scarpe pesanti e i calzini di lana. Si torna alle vecchie abitudini: il piacere di riscaldarsi al focolare, durante le serate trascorse a leggere romanzi di mille pagine, mentre fuori piove, immersi nelle storie più inverosimili, avvertendo le gocce che battono sui vetri e il vento che infuria. Sì, l’inverno è la nostra buona abitudine. L’estate è sempre disordine, anche se regolata e controllata da prenotazioni, alberghi accoglienti e spiagge pulite e ben organizzate. Tuttavia…».
«Eh no, basta!» l’interruppe mio cugino, «non la prendere troppo alla larga! Io vorrei sapere, se non ti dispiace, i fatti nudi e crudi!».
«Oh sì, d’accordo, d’accordo… Non volevo tediarti» rispose la finlandese. «Era soltanto per spiegare meglio, per farti capire bene cosa c’è dietro ciò che tu chiami fatti nudi e crudi. Se così preferisci, ti dirò molto semplicemente che mio marito, il pizzettaro napoletano che ho sposato, quel giorno è tornato a casa di pomeriggio. Lui non ritorna quasi mai così presto a casa. Sai, la pizzeria occupa molto tempo nella giornata: bisogna preparare il pomodoro fresco, la mozzarella…».
«Oddìo, ti prego, non dilungarti ulteriormente, dimmi cos’è successo!».
«Sì, sì, ok… vado al sodo. Mio marito è entrato a casa con un pacco sotto il braccio. Io ho domandato cosa contenesse e lui, sedendosi sul divano, ha detto che mi avrebbe subito fatto vedere e ha scartato il pacco stesso. E tu lo sai cosa conteneva quel pacco? Eh, me lo sai dire cosa conteneva quel pacco rettangolare e pure infiocchettato? Ah bè, tu non puoi saperlo, lo dico così per dire: allora, tu lo sai cosa conteneva quel pacco portato a casa sotto il braccio da mio marito, cioè dal napoletano pizzettaro?”.
«No, porca miseria, non lo so cosa conteneva quel pacco!» rispose mio cugino, ormai spazientito.
«Un fallo di plastica, ecco cosa conteneva. Allora io ho chiesto a mio marito con un lieve rossore che invadeva le mie gote cosa intendesse fare con quel fallo di plastica. E lui ha risposto: non riesci proprio a immaginarlo? Così poi, sì… insomma, mi imbarazza dirlo… poi lo abbiamo adoperato. Ma da un bel po’ di tempo giace nel cassetto, impolverato e con le batterie scariche. È stato divertente usarlo, lo ammetto, ma una volta soddisfatta l’ovvia curiosità è stato abbandonato in un angolo della nostra casa».
A mio cugino Asdrubale, una volta salutata la finlandese e riagganciato il telefono, venne in mente che si potrebbero recuperare i falli di plastica venduti negli ultimi anni e poi rivenderli al mercato dell’usato, ovviamente puliti e disinfettati. Secondo lui è un grande business. Il costo di ogni singolo fallo di plastica costerebbe la metà di quello nuovo, dunque con un notevole risparmio da parte dell’acquirente che non vuole spendere troppo per certe cose, specialmente in un periodo di crisi economica come l’attuale. Inoltre sarebbe garantita l’efficacia del fallo di plastica stesso in quanto già sperimentato, e diciamo rodato. «Eh certo», ha detto infatti mio cugino, «io li controllerei uno per uno, mica si possono mettere in vendita falli di plastica consumati, in cattive condizioni!». Lui è senza dubbio molto serio negli affari, un vero professionista.
Ora mio cugino Asdrubale che, come ho ripetuto più volte, si chiama veramente Asdrubale, ha appena aperto dalle parti della Bufalotta, quartiere periferico a nord di Roma, un grande negozio che tratta falli di plastica usati come nuovi e a prezzi imbattibili. Spero di cuore che abbia successo.
Ecco, finisce qui il racconto su quella faccenda di mio cugino Asdrubale e del commercio dei falli di plastica usati.