Lo sguardo dello scrittore è immobile, inchiodato all’obiettivo della macchina fotografica; serio, un poco accigliato. I suoi pensieri, dietro agli occhiali, riguardano l’esito di quella fatica, di quell’imbarazzo mischiato al piacere di esibirsi: una bella foto, pubblicata su un giornale ad alta tiratura e conservata poi in archivio, pronta per qualsiasi occasione, chissà, magari per i posteri.
Nella seconda posa egli è seduto al tavolo di lavoro, davanti al foglio bianco sul quale, tra un solo attimo, vergherà parole indimenticabili. Alle spalle si vedono libri, tante file di libri che formano quasi un muro e lo proteggono dall’immonda esistenza alla quale gli altri – tutti coloro che guarderanno la foto – sono costretti e condannati.
Anche i grandi sono vanitosi, e molto disponibili. Thomas Mann, ad esempio. Ho visto tempo fa una sua austera immagine, mentre penosamente faceva finta di scrivere. Ho pensato: sì, avrà provato un po’ di vergogna, ma che godimento!
Però c’è un culmine di tutto ciò: scrittori e televisione. Si può facilmente comprendere quanta confusione entri in casa dell’intervistato: i tecnici di ripresa, i manovali che scaricano gli strumenti, le lampade accecanti… Ma lui, lo scrittore, non si scompone, no. Ora, guardando in televisione una programma “culturale”, noi spettatori l’osservano nel suo studio, seduto alla scrivania, con la penna in mano, nel preciso momento nel quale compone un verso, forse una frase del suo ultimo, attesissimo romanzo. Che fortuna e che privilegio poter assistere all’evento. Ecco, egli si concentra e completamente si astrae, sì, nella sua scontrosa solitudine.