(Postilla a Vocabolario personale della lingua italiana).
A, prima lettera dell’alfabeto. Che io vidi da subito, quand’ero un bambino di tre o quattro anni, come qualcosa di molto simile a una bella casetta. Nella sua versione maiuscola, proprio così: col tetto spiovente e in mezzo la finestrella come nelle baite di montagna, tra verdi vallate e picchi altissimi e grosse mucche piene di latte e fiori variopinti… senza dimenticare gli alpini con la piuma sul cappello e la pipa in bocca che fumano e cantano le struggenti canzoni della Prima Guerra Mondiale.
Una bella casetta che mi permetteva di trovare finalmente rifugio e riparo. Poiché la vita era dura per un piccoletto come me, già in quella prima infanzia. Intorno a me sentivo parlare di stagione felice dell’esistenza, di età dell’innocenza, di beata tranquillità familiare… Tutte cazzate. Io soffrivo come un cane. E allora la mia sola via d’uscita era in un certo modo di vedere, di sentire, d’immaginare le cose del mondo che così si trasformavano, come in sogno. Imparavo ad usare le parole, ma a modo mio.
Una banconota era nient’altro che un petalo rettangolare di un grande fiore molto strano che volava di mano in mano per delle ragioni che non riuscivo a comprendere ma che dovevano avere una grande importanza. Quanto ci tenevano gli esseri umani a quei petali! Addirittura li rubavano oppure insensatamente li accumulavano in grandi quantità. Alcuni li conservavano per collezionismo, pensavo. In ogni caso quei quadratini di materiale delicatissimo sprigionavano una forza capace di suscitare inauditi desideri e cieche violenze.
La città in cui vivevo aveva un grande prestigio; da tutti era definita eterna e in alcuni casi addirittura sacra, eppure i miei genitori la giudicavano incredibilmente sporca materialmente e moralmente. Questa contraddizione la interpretavo a modo mio. A Roma era in funzione un’invisibile enorme fabbrica di menzogne, di furti, di corruzione e qualche volta di omicidi: prodotti in serie e ben confezionati, questi peccati non venivano commessi dalle singole persone per semplice negligenza, oh no, ma con il proposito di saggiarne la gravità per poi rivenderli ad altre città italiane e straniere, con grande profitto. Era un commercio di cose brutte che io vedevo chiaramente, anche se con gli occhi di un bambino visionario e ipersensibile. Del resto, non fosse stato così, quell’orrendo e schifoso caos non avrebbe avuto alcun senso. Il Male come lavoro stipendiato, insomma, come esito del duro e meticoloso lavoro dei cittadini che vivevano in quel modo penoso e umiliante soltanto per avidità e ambizione, poiché più si compivano malefatte e più si guadagnava. Le rughe sul volto di certi vecchi, infatti, quei solchi profondi erano le cicatrici di coloro che avevano a lungo svolto il duro lavoro del vizio e della lussuria. Ricordo che una di quelle persone, in un giardino pubblico, mentre mia madre era distratta, m’invitò a seguirlo dietro a una siepe con la prospettiva di contribuire anch’io, se pur piccino, a quella mansione così importante; però rifiutai, stupidamente, e mi divincolai quando lui mi afferrò con le mani, non per pigrizia o perché non fossi curioso e ben disposto a sperimentare: mi piaceva contraddire, negare ciò che mi veniva richiesto, soprattutto dagli adulti.
Insomma, a scuola imparai quei procedimenti che servivano a collegare parole e cose, ma io li applicai in modo personalissimo. E quando mia madre, all’uscita del primo giorno di scuola, mi chiese come fosse andata, io risposi candidamente che tutto era andato benissimo e che soprattutto avevo imparato a mangiare le lettere dell’alfabeto.
«A mangiarle?» ripeté lei, stupita.
«Ehm… volevo dire: a conoscerle» puntualizzai io, «a meditare su di esse per raggiungere quella consapevolezza linguistica assolutamente necessaria ad uno bambino desideroso di crescere e maturare».
«Ah ecco…» fece mia madre, un poco perplessa. Ed aggiunse: «Ti esprimi molto correttamente… è davvero sorprendente, essendo tu soltanto un bambino di quattro anni».
«Grazie, mamma» risposi, «sono lusingato». (Forse nel ricordo esagero le mie capacità, ma in effetti cominciai a parlare subito perfettamente, dopo i primi momenti di disagio, ed anche ad usare le lettere di plastica per comporre frasi di senso comune). Pochi minuti dopo la maestra disse a mia madre che mi ero mangiato tutte le lettere dell’alfabeto e che inoltre avevo tastato il culo alla mia compagna di banco.