17 agorto 2024

da | 17 Ago 2024 | Diario del re del bosco

Perché alla fine, diciamo la verità, andare a teatro è quasi sempre una autentica tortura. E io devo ammettere che sempre, o quasi sempre, il momento più bello, veramente liberatorio, è quando si spengono le luci sul palcoscenico dopo l’ultima battuta, c’è un silenzio che dura qualche attimo e da lì di capisce che forse lo spettacolo è finito, e poi parte l’applauso, solitamente scrosciante, e allora si capisce che uno se ne può andare a casa, che è libero, che è terminata quella grande rottura di coglioni.

Non dimenticherò mai quella volta al teatro Argentina. Una persona che conoscevo, tra l’altro uno dei pochi scrittori che stimo, una persona coraggiosa, una perla rara tra i tanti mediocri, mi aveva invitato alla prima del suo spettacolo. Era una cosa importante: la prima serata di una messinscena di un testo scritto da lui, mi aveva invitato e io ero abbastanza contento di andarci, e per questo avevo portato con me una mia amica, anche per poter sopportare meglio, eventualmente, la possibile se non prevedibile rottura di coglioni. Che ci fu, purtroppo. Una cosa tristissima, un monologo ossessionante su vicende esistenziali drammatiche, un voce fioca, appena udibile al lume di candela, uno spettacolo insopportabile, deprimente… quando le luci si accesero in sala alla fine del primo tempo, io e la mia amica ci guardammo, sgomenti: ce l’avremmo fatta a sopportare il secondo atto, che sarebbe durato almeno un’altra ora?

Ma come potevamo fare? Io avevo incontrato all’entrata l’autore, gli avevo detto: «dopo lo spettacolo ci vediamo e così ti sinceramente cosa ne pensi», ero pronto ad andare nei camerini a complimentarmi con gli attori per dire: «Che interpretazione straordinaria!», insomma le cose orrendamente false e ipocrite che si pronunciano in queste situazioni, e soprattutto era chiaro che avrei dovuto complimentarmi soprattutto con l’autore dicendo: «Che inarrivabile, inaudita potenza il tuo lavoro!», «Che sconvolgente rivelazione del tuo innato talento drammaturgico che ingiustamente è rimasto sconosciuto fino ad ora ma che con questo inimitabile spettacolo viene finalmente alla luce per tutti noi, ma che dico, per il mondo intero!».

Dunque ero fregato. Non potevo andarmene. Così rimanemmo con la santa pazienza… ma quando si spensero le luci e l’attore a lume di candela ricominciò a parlare di putrefazione della carne, di tombe, di dolore fisico, io e la mia amica non ce la facemmo davvero e di comune accordo ci alzammo piano piano (anche per non svegliare lo spettatore che dormiva nella fila davanti), e ci avviammo all’uscita. Certo, avrei perso un amico, una persona così buona che non meritava un trattamento del genere, e in più avrei perduto un “contatto” con uno dell’ambiente letterario. Bisogna avere relazioni con qualcuno, che sia scrittore, critico eccetera, sennò si rimane soli come un cane e nessuno mai prenderà in considerazione la tua proposta nelle case editrici, nei giornali, alla radio e in televisione. Sì, l’avrei pagata cara. Ma era più forte di me, io non avrei sopportato un’altra ora lì dentro.

Così io e la mia amica chiedemmo gentilmente a bassa voce a un addetto del teatro di aprirci la porta ed uscimmo dal teatro Argentina.

Che gioia! Quale infinita beatitudine! Una sensazione di benessere meravigliosa! L’aria fresca, la liberà! Andammo a fare una passeggiata a piazza Navona, meravigliosa, l’aria era fresca e noi ridemmo, scherzammo su ciò che era accaduto, e ci rallegrammo assai di essere riusciti a evadere da quella elegante prigione.

Veramente, soltanto il teatro può dare felicità di questo genere.

 

 

 

Non se la prendano gli amici che fanno teatro (ne ho un paio), ho visto anche spettacoli molto belli in vita mia, però di solito è vero quello che ho detto, andare a teatro è terribile, almeno per me.

Infatti ho escogitato una cosa schifosamente falsa e ipocrita, di cui un poco mi vergogno ma che devo ammettere perché qui nel mio Diario c’è posto soltanto per la pure e semplice verità.

Invece di sorbirmi tutto lo spettacolo, quell’ora e mezza, o due, una volta ho fatto questo: sono andato all’uscita del teatro, ho aspettato che fosse finito lo spettacolo, poi quando si sono aperte le porte del teatro aprono le porte per far uscire il pubblico, io furtivamente mi sono diretto ai camerini. Qui c’era la solita fila di ammiratori che vanno a complimentarsi, però facendo in fretta sono stato uno dei primi a poter parlare con l’attore e perciò gli ho detto: «Uno spettacolo indimenticabile! E la tua interpretazione rimarrà nella Storia del teatro, dico sul serio, sono sincero, tu mi conosci, non direi mai una cosa per farti piacere, non sono uno spregevole ipocrita, io! Grazie. Grazie per questa tua inimitabile interpretazione! Spero che la critica sia benevola e comprenda che un lavoro del genere deve essere quantomeno esaltato perché sua ricordato negli anni a venire, forse nei secoli!».

Davvero l’ho fatto.

 

 

Mi ricordo, quando ero bambino, un adulto pronunciò la parola fornicare. Io compresi male e pensai che avesse detto: formicare. Sapevo ancora poco o quasi nulla del sesso ma quella persona aveva fatto intendere che aveva assistito a un atto imbarazzante in cui due individui avevano formicato. Perciò io pensai che si trattasse di qualcosa di perverso e che avesse a che fare con le formiche? Sesso con formiche? Ammazza oh, allora ero io il perverso!