Questo raccontino soltanto per alleggerire un poco i pensieri, miei e di chi legge. Io, in questo Diario, ho ridicolizzato opere di alcuni artisti per le loro opere eccentriche e forse datate. Ma nessuno conosce un fatto assolutamente imprevedibile e segretissimo, che voglio qui pubblicamente rivelare.
Anni fa, forse avevo trent’anni, decisi di smettere di scrivere, definitivamente. Però, Dio solo sa per quale ragione, mi venne in mente di diventare un pittore. Fino ad allora non avevo mai né disegnato né dipinto, avevo soltanto coltivato un certo interesse per l‘arte. Visitavo i famosi musei di Roma, ammiravo i grandi del passato come Caravaggio, ma non disdegnavo le opere degli artisti contemporanei. Un giorno d’estate, improvvisamente, la fatidica decisione: subito andai a comprare colori e pennelli per cominciare a dipingere quadri in uno stile molto simile a quello definito espressionismo astratto. In brevissimo tempo mi chiamarono il Jackson Pollock del Tiburtino. La mia camera, nella casa dove coabitavo con altre persone, si trasformò dall’oggi al domani in studio d’artista. Tele imbrattate dappertutto, colori d’ogni tipo, cioè tubetti di olio, tempera, acrilico, gessetti, pastelli, matite… La gratificazione per un lavoro frenetico durato due mesi non tardò ad arrivare: una mia amica, molto gentile e generosa, comprò mie opere per appenderle in bella vista nel salotto della sua bellissima casa. Tre quadri, per la precisione. La mia tecnica era quella della spremitura del tubetto di acrilico o di tempera e o di olio sulla tela, senza nessun disegno preparatorio. Soltanto una subitanea, incontrollata ispirazione mi guidava. Prendevo un tubetto, cinque tubetti, dieci tubetti di colore diverso e li spremevo con irrefrenabile impulso creativo sulla tela in un miscuglio indecifrabile. Ero un artista, un vero artista, così mi sentivo, e guai a contraddirmi. Non più parole inevitabilmente raziocinanti, ragionevoli, che pretendevano di spiegare il mondo, basta! Adesso soltanto colore e forma “informale”, non interpretabile e tanto meno giudicabile con le vetuste categorie del “bello”, ormai morto e sepolto.
Un giorno mia madre mi chiese di vedere una di questi quadri. Portai in macchina sul furgoncino prestato da un amico il mio capolavoro ancora sconosciuto. Entrai nella casa di famiglia al Nuovo salario, poggiai la tela sul pavimento. Restai in silenzio ad aspettare le parole di mia madre, che dopo un paio di minuti di meditazione, disse: «Mai visto un quadro così brutto. È qualcosa di orribile, spaventoso. Ma non ti vergogni?».
Venne troncata di netto una carriera artistica. Tornai nella casa dove abitavo e gettai nei cassettoni i colori, lasciando lì accanto, in strada, numerose opere.
Non vidi mai più la generosa amica, non ricordo per quale motivo. E mai più ho avuto notizie di quei tre quadri, quei “Varese”.
Probabilmente sono finiti in qualche discarica, e poi distrutti insieme a frigoriferi, televisori, mobili, plastica varia.
Che triste vicenda. Ed erano tre “Varese” di chissà quale valore!