Vocabolario personale della lingua italiana.(Seconda Parte).
V.
vacillare
Come quando si sta in equilibrio sui rami più alti di un albero che viene smosso dal vento, e tu quasi con la testa nella nuvolaglia che in quel pomeriggio s’è fatta più densa, senti che non soltanto il tuo corpo potrebbe cadere e rompersi ma anche e soprattutto la tua anima. Ma come ci sei finito lassù? Chissà. Non te lo ricordi. Non sai più nulla di te stesso. È un sogno, una fantasia? Ciò che conta è quel senso di squilibrio, di imprecisione che però ti affascina e ti prende e ti manda avanti… perché sì, è vero, qual senso di precaria esistenza è ciò che ami tanto, anche se non lo sai. Non vuoi che questo: aggrapparti al ramo, avare paura, guardare lontano i monti o la striscia di mare che combacia con l’orizzonte… Vacillare è la tua vocazione.
vacuo
Essere e non divenire, stare qui, come sospesi, qui sui rami dell’albero che naturalmente è una quercia, una grande quercia: tra il cielo e la terra, tra il non agire e il fare chissà cosa, domani, che non verrà mai. Dormire, poltrire, forse sognare. Destarsi finalmente, scendere dall’albero e muovere qualche passo per andare….
No, per non andare da nessuna parte, e invece ritornare al punto di partenza, qui, tra i rami. Ci sono tanti modi per sperimentare la parola vacuo: anche scrivere può rientrare in questo, anche se io respingo tutti i folletti, diavoli e tutte le creature stravaganti che abitano nella nostra mente e che vogliono invitarmi a compiere azioni inutili e dannose. Eh no, intanto devo stare qui e non ribellarmi a questo mio eterno stare nel nulla e devo invece rimandare a casa quegli spiritelli, così mi libererò dall’angoscia della prigionia delle disillusione e perciò sarò pronto a vivere di nuovo, ad agire, cioè in sostanza a scrivere, perché per me vivere significa scrivere, eh che ci posso fare?
Intanto che ci penso, io vado a piedi, in macchina, col calesse, con il triciclo; vado sotto la pioggia, la neve e la burrasca; vado con l’ombrello, un orologio costoso al polso, un pensiero fisso in testa. Non vado da nessuna parte.
vacuometro
È lo strumento che misura il grado di vacuità di ognuno di noi. Lo inventò il professor Harold S. Blomery dell’Università di New York nell’ormai lontano 1910. com’è fatto ‘sto strumento? E che ne so! Mica posso sapere tutto io, che vi credete? Io ne ho sentito parlare: è un coso a forma di… si applica al… e poi c’è l’esito del risultato. Si va dal grado 0 di vacuità al grado 100. al grado zero ci sono tutte le persone molto impegnate: commercialisti, avvocati, professionisti in genere, puttane, Presidenti della Repubblica, scrittori americani alla moda… Persone molto impegnate e che non stanno lì a perdere tempo. Al grado mille c’è il mio amico Bruno che trascorre il suo tempo al bar sotto casa mia. Si mette al tavolino e ordina un caffè. Legge il giornale. Poi, verso mezzogiorno, un altro caffè. Come direbbe il professor Harold S. Blomery, ci sono individui che riuscirebbero a far andare in tilt il vacuometro poiché sfondano quota 100. Come Bruno, appunto. vado
vagabondo
L’uomo che vuole sognare cammina per la città. Segue un suo istinto, volta l’angolo della chiesa, s’infila in una stretta via di un quartiere antico, una qualsiasi suburra, riprende la via principale, trafficatissima, caotica, dove transitano più automobili che esseri umani, e procede inarrestabile e deciso nella sua indecisione perenne, poiché sempre si dice: devo fermarmi? E dove vado ora? Ma cosa sto facendo?… eppure continua a camminare, e vede se stesso e il mondo come in un sogno, e non soltanto come un sogno ad occhi aperti ma come un incantesimo universale nel quale solitamente si vive ad occhi chiusi, sperando nel risveglio, nella visione chiara e vera, non dunque privata e vana. Il vagabondo è un sognatore che aspetta di svegliarsi, e cerca il luogo, il momento adatto perché ciò avvenga.
vagheggiare
Vagheggiare la cosa più lontana, ché deve rimanere tale, come la donna: altrimenti sarà troppo vicina, troppo di carne, troppo presente e corruttibile. Così prendendo tale abitudine si diventa lontani da tutto, con un carico di purezza che sfianca, vivi come un angelo… ma un angelo che poi dovrà tornare a casa, nella sua prigione, a dire sì e no alle persone e a tutte le altre cose che non si fanno allontanare facilmente. Ecco, forse potremmo dire che chi vagheggia è un angelo caduto: sentirà la mancanza del Cielo, come un paese da cui è stato esiliato. Ce la farà questo angelo a rialzarsi, ad affrontare la cosiddetta realtà senza rinnegare se stesso? È questo il punto. Tutti i miei migliori auguri agli angeli caduti di questo pianeta. Coraggio!