Stamattina raccontavo a Teresa del giudice Amato, di come sia stato lasciato colpevolmente solo dalle istituzioni. Era onesto e coraggioso, a differenza di tanti altri.
Infatti non aveva la scorta, è chiaro, no? E che se la merita la scorta uno che conduce le indagini sui più pericolosi gruppi della destra estremista, cioè dei veri e propri killer? Certo che no. Perciò il giudice, quella mattina del 23 giugno del 1980, se ne stava lì ad aspettare l’autobus 391 per andare a piazzale Clodio, al suo ufficio. Gli spararono da dietro, ovviamente, quei pazzi e vigliacchi, alla nuca.
Un fotografo, il primo che giunse sul luogo, scattò alcune fotografie: in una si vedeva una scarpa con un buco nella suola. È qualcosa di significativo. Perché me lo immagino il tipo di persona che era il giudice Amato: la moglie gli avrà detto mille volte: «Mario, non puoi andare in ufficio con le scarpe bucate. Andiamo a comprarle, che ci vuole?». «Va bene, domani, domani andiamo…» avrà risposto lui, distrattamente, con la testa tra le nuvole, cioè con la mente occupata dal lavoro, dalle inchieste, dalle cose da fare, dalle persone da interrogare. Volete che pensasse alle scarpe?
Ecco, a Teresa gli raccontavo del giudice Mario Amato e del perché vado a innaffiare la piantina sotto il monumento a viale Jonio. Le dicevo di lui e delle tante menzogne e ingiustizie e violenze che ci stanno intorno, e alla fine ho detto: «Ecco, invece di scrivere il Diario sul giudice ho raccontato di lui a te, non è la stessa cosa?».
Però almeno un accenno, qui, lo dovevo fare. Non si può pensare sempre alle faccende tristi e dolorose, d’accordo, altrimenti soffriamo troppo. Giusto scherzare e alternare il serio al il ridicolo, il bello al volgare, come faccio in questo mio Diario. Però non possiamo dimenticarlo, il giudice, e dobbiamo agire e pensare come ci insegna la Bhagavad Gita: essere presenti, non rinunciare alla propria libertà, ma senza provare dolore, come se fossimo più in alto di noi stessi, per vedere come riusciamo ad affrontare ciò che non possiamo evitare, con distacco, senza pensare a vincere o perdere, quasi fosse un modo per sperimentare, per conoscere, come fossimo un’altra persona da quella che agisce, come fosse un gioco…