Giulio mi racconta di quando una volta, d’estate (eravamo ragazzini, 14/15 anni), andammo insieme al mare con Andrea, che aveva una casa a Torvaianica. Stavamo in bicicletta e avevamo fatto una passeggiata sul lungomare. Ci stavamo riposando sdraiati sulla spiaggia, seduti, con le biciclette accanto. Giulio mi vide prendere la bicicletta trascinandola sulla sabbia e arrivare sul bagnasciuga, d’un tratto, senza alcun preavviso. Da lì cominciai a correre come un pazzo tra l’acqua e la spiaggia, proprio nel punto dove la sabbia è più dura e può sopportare il peso di una bicicletta che si muove con velocità. Giulio e Andrea furono presi per un attimo dalla sorpresa, poi mi seguirono, correndo dietro a me.
Un ricordo di una felicità assoluta. Ogni volta me lo faccio raccontare di nuovo e alla fine faccio per scherzo la proposta di tornare appena possibile a Torvaianica per correre in bicicletta sul bagnasciuga.
Ecco, uno vorrebbe soltanto questo e non gli importerebbe di altro. Tornare ragazzo e lasciar perdere ogni ambizione, malumore, risentimento. Ma in effetti, nel mio caso del tutto marginale, diciamo la verità, che me ne frega del Premio Strega, della casa editrice Einaudi che non è una vera casa editrice e però ci sono quelli che dicono che invece lo è ancora anche se la proprietà è della Mondadori e dunque la redazione dell’Einaudi ha la sua autonomia, ma che mi frega, pensassero quello che vogliono o che gli fa comodo pensare, magari hanno ragione loro, io che c’entro? Che me ne importa di editori, giornalisti, donne, ex fidanzate, amici che non sono più amici, di tutte le cose complicate e assurde della mia vita. Certo, il grande sbaglio, se è giusto considerarlo pienamente tale, è stata l’idea di voler essere fin da giovanissimo un poeta, uno scrittore, cioè scegliendo una strada difficilissima, forse assurda, che mi avrebbe portato a una vita sconclusionata, povera, spesso da isolato, quel tipo di atteggiamento che mi ha procurato guai di ogni tipo, litigi, disoccupazione, problemi con la famiglia. Ma che diavolo avevo in mente? Del resto io ero così e adesso è troppo facile comprendere certi errori. Ero fatto in quel modo e non c’era modo di farmi cambiare idea.
Mi ricordo quel giorno in cui io, Antonio e Rita, andammo alla presentazione di un libro di poesia. C’era uno nostro coetaneo che presentava il volume, lo conoscevamo bene, lo avevamo visto altre volte, voleva fare il critico e lo faceva già con un certo successo. Si vedeva chiaramente che aveva già trovato la sua strada, e che avrebbe vissuto perciò una vita normale.
Parlava in maniera un pochino retorica, le stesse cose le avrebbe potuto dire con un tono normale e con parole semplici, lui le alzava su un livello più alto, sublime, magniloquente, un poco ridicolo, quando non ce n’era assolutamente la necessità.
Mentre parlava noi ci scambiavamo un libro (ce l’ho ancora) dove scrivevamo le cose che volevamo dirci ma che non potevamo dire a voce, perché stavamo lì in silenzio seduti tra il pubblico. «Che palle!» aveva scritto Rita sul libro, sul margine bianco di una pagina, prima di passarlo ad Antonio, seduto nella fila davanti. «Eh, c’hai ragione» aveva risposto Antonio continuando a scrivere sul margine bianco delle pagine, aggiungendo, prima di passare il libro a me che ero seduto nella suua stessa fila vicino a lui: «Robbè, che facciamo stasera? Ce l’hai er fumo?». «No, ancora non m’è arrivato» avevo risposto dopo aver ricevuto il libro, scrivendo con la mia amata penna stilografica, «ma domani ariva la robba bona!».
Ecco, questo era il nostro atteggiamento. Era una situazione normale quella, va bene, ma voglio far notare il distacco, la lontananza, il menefreghismo per il rito della presentazione del libro. Noi amavamo la poesia, ma del resto non ci curavamo, e questo era verissimo per Antonio e Rita mentre io qualche ambizione ce l’avevo, non ero puro e disincantato come loro. Loro poi si sono persi, hanno avuto esistenze penose, proprio per il carattere che avevano, pieni di problemi, anche psichici, gravissimi e forse quello che ha subito colpi meno duri sono stato io, che in qualche modo ho evitato il peggio.
Forse adesso scrivo questo Diario per liberarmi di tante cose sbagliate, per confessare tutto innanzitutto a me stesso e farla finita con il me stesso di prima, senza rinnegare nulla ma per lo meno togliendo tutte le scorie, le impurità, le maniere estreme di vivere e di trattare gli altri, il mondo che mi circonda, che è quello che è, puzza non poco ma andarci contro come ho fatto sempre no, non ce la faccio più. Propongo un tavolo della trattativa, per fare pace. Depongo le armi. Me ne tengo un paio soltanto per quando proprio servono per difendermi.
Mi piacerebbe ritrovare Antonio, Rita, e almeno in un sogno più vero della realtà tornare a correre su quel bagnasciuga, felice come non sono mai più stato in vita mia.