Mi chiedo cosa fare per pubblicare La piccola dea in questa ultima, definitiva versione. Ho pensato che potrei telefonare all’editore Adelphi e dire, tanto per stabilire un rapporto più maturo tra autore ed editore che tolga di mezzo finalmente i soliti ricatti morali e recriminazioni e reciproche scorrettezze tra scrittori ed editori: «Se non mi pubblicate, io mi ammazzo».
Davvero farei qualsiasi cosa per pubblicare il mio libro. Io sono sempre stato un tipo un pochino orgoglioso, però in questo caso sarei disposto a lavare i piatti a pranzo e a cena per sei giorni alla settimana in casa del responsabile della collana Piccola Biblioteca, in quella del suo vice e nelle abitazioni di tutte le segretarie e dei fattorini e degli impiegati e dell’intero consiglio di amministrazione. Mi rendo altresì disponibile a portare a spasso il cane del direttore editoriale, a pulirgli il cesso di casa chinato in terra con lo strofinaccio, a fargli da autista, da cameriere, da ragioniere, da massaggiatore… Tutto ciò ed altro ancora in cambio della pubblicazione della mia piccola dea, di questo mio libretto che per me è come un figlio, un pargolo bisognoso di cure e di protezione, a qualsiasi costo: sono come un padre, anzi come una madre che sta per partorire il suo bambino e che dunque si preoccupa del futuro. Niente moralismi, niente pezze sotto il naso. È il mio libro, un pezzo della mia carne, la giustificazione della mia esistenza. Non ho fatto altro che lavorare per edificare questa specie di monumento alla minuscola ma tenacissima dea, affrontando il deserto della vita per oppormi al senso di morte e di vacuità universale che ho sempre provato, Sono stato capace soltanto di scrivere, e ho scritto questo libro, ad ogni costo. Devo essere pronto a qualsiasi sacrificio anche per pubblicarlo.
Mi sento proprio come Mariuccia, la prostituta di via Veneto della quale ero diventato amico ai tempi in cui vivevo al rione Monti, e che ho rivisto giorni fa dopo tanto tempo. Non lavora più, è diventata una anziana e dolce signora. Ha un figlio che ora ha finito l’università, ed è cresciuto bello, sano, educato. «Io ci tenevo a mio figlio» mi dice seduta ai tavolini di piazza Madonna dei Monti, «era ed è tutta la mia vita… allora dovevo pur mantenerlo, e quello era l’unico modo che ho trovato, che non era peggiore di altri. Tu col tuo libro devi fare la stessa cosa: telefona, vai a cena coi critici e gli scrittori famosi, lecca il sedere, sennò ti rimane nel cassetto. Tu devi lasciar perdere gli atteggiamenti da signorino orgoglioso e sprezzante, non vanno bene nella tua condizione, non te li puoi permettere». Mariuccia è come un Maestro per me, è come Krishnamurti. È la persona più saggia, la donna più brava e onesta che abbia mai conosciuto. Non a caso, per come va il mondo, ha fatto per anni la puttana a via Veneto. Ma io voglio diventare ancora più saggio di lei, ancora più spudorato eccetera eccetera. Per pubblicare questo libro arriverò forse a vendere il culo (che per Mariuccia invece era tabù) e pure la mia fidanzata e i parenti e il giornalaio sotto casa mia che non c’entra niente. Confido a Mariuccia i miei propositi e lei mi dice: «Bravo Roberto, sei diventato proprio una gran puttana!».