«Ma c’è qualcosa» mi ha domandato stamattina il barista di un bar di Val Melania, «che potrebbe mutare questo tuo stato di rincoglionimento precoce?».
Io ho risposto: «Cosa? Ma che dici? Ma come ti permetti di offendermi?». Tipica reazione da rincoglionito. Che non ammette nulla, anche le cose più evidenti ma soltanto quando sta da solo, e parla con se stesso. Del resto, che rincoglionito sarei se non mi comportassi da perfetto rincoglionito?
«Volevo dire, brutto stupido che non sei altro» ha continuato, «che forse sarebbe meglio per te non crogiolarti in questo tuo stato perennemente fuori dal mondo reale. Non puoi sempre autoassolverti tirando in mezzo questa storia dell’essere poeta. Cioè, non credo che tu possa confidare eternamente nell’aiuto degli Dei (e nota la maiuscola della parola Dei che tu, raccontando questo episodio non si capisce se vero o inventato, mi hai messo in bocca). Insomma, bisogna che maturi, che cambi, che cresci. Che diventi, in sostanza, meno rincoglionito di quello che sei e che sei stato sempre. Hai capito, rincoglionito che non sei altro?».
Nel bar c’era molta confusione. Era la pausa pranzo. Presi la tazza del caffè davvero buono e risposi conciliante, con grande calma. Non mi andava di litigare. Però non mi andava nemmeno di fare una brutta figura.
«Allora sei anche tu un rincoglionito» dissi, «poiché ciò che tu chiami rincoglionimento è semplicemente una condizione interiore, un fatto insito della mia natura, non posso fare niente per cambiare, lo capisci o no? È anche la mia condanna. Credi che se non fossi veramente un po’ rincoglionito sarei qui, ora, a parlare con uno che poi non è nemmeno reale ma soltanto frutto della mia fantasia?».
«Oddìo, no!» ha esclamato lui, «questa cosa del racconto nel racconto, il metaromanzo, la letteratura che parla si stessa, roba da Neoavanguardia degli anni Sessanta, te la potevi davvero risparmiare. Ormai non c’è alcun dubbio: sei un vero, autentico, irripetibile, grandioso rincoglionito!».
Io mi asciugai le labbra con una salvietta di carta e andai alla cassa, senza salutarlo. Stronzo, pensai. Appena uno dà un po’ di confidenza, ecco che subito se ne approfittano. Non permetto a nessuno i parlarmi in questo modo.
«Cosa paghi?» ha chiesto la signora Franca che sta alla cassa ed è la moglie di Antonio, il barista.
«Un caffè e un cornetto».
«Nient’altro?».
«No, nient’altro» ho detto io.
«Ne sei proprio sicuro?».
Sono rimasto sorpreso. «Certo che sì» ho risposto, «cosa credi, che prendo qualcosa e poi non lo pago?».
La cassiera ha alzato le sopracciglia come per dire: be’, perché no? c’è da aspettarsi di tutto da uno come te.
Allora mi sono davvero arrabbiato: “Ma la volete sapere cosa penso? Tra tante cose che ho scritto in vita mia questa mi sembra veramente la più cretina e inconcludente. Forse perché oggi non avevo nulla di buono in testa. Eh sì, altrimenti non avrei scritto una storia ridicola con due personaggi ridicoli come voi due!».
Antonio dal bancone è rimasto un momento in silenzio. Poi ha detto: «Allora potevi evitare di perdere tempo e di costringerci a vivere questa esistenza fittizia, puramente letteraria, che inevitabilmente si concluderà tra pochi istanti, manco fossimo i protagonisti di una dramma intitolato Due personaggi in cerca di autore a Val Melania… Ecco cosa ci aspetta: svanire, perderci nel vuoto, nella dimenticanza».
«Mi dispiace, non posso farci nulla». La cassiera piangeva… Mi sono avvicinato all’uscita. Franca improvvisamente ha gridato: “No, non voglio scomparire così dopo la parola Fine, ti prego, continua a scrivere, a farci esistere!».
Prima di uscire mi sono voltato e senza provare alcuna pietà ho detto: «Addio Antonio… Addio Franca… Il vostro destino è segnato. Svanirete , adesso, nel perfetto nulla, dopo la parola Fine».
FINE.