Per aiutare i miei lettori a risparmiare tempo e fatica, inserisco in una sola frase la ricerca del tempo perduto di una persona che ricorda tutta la sua vita stando nel suo letto di malato, dilungandosi per pagine e pagine, dicendo cose bellissime e altre noiosissime, l’omicidio in Russia di un padre dissoluto che ha quattro figli ma non si capisce bene chi l’ha ammazzato, pare sia quello che afferma «Se non c’è Dio, tutto è possibile», invece è il figlio illegittimo suggestionato da tali idee nichiliste, l’estenuante caccia in mare a una enigmatica balena di colore bianco che rappresenta un sacco di cose, forse troppe, le vicende di un pazzo che si crede un cavaliere errante, il resoconto in versi di un viaggio immaginario di uno di Firenze che immagina di risalire dall’Inferno al Paradiso, la tragica vicenda di una moglie russa, precisamente di Mosca, bella e inquieta, che tradisce il marito e poi si butta sotto un treno… e potrei continuare con altre storie narrate in famosi interminabili romanzoni, certo capolavori, che molti dicono di avere letto ma non è vero, però tengono quei libri sugli scaffali in salotto per vantarsi di essere persone colte e soprattutto perché quei volumi fanno arredamento.
Stamattina raccontavo a Teresa del giudice Amato, di come sia stato lasciato colpevolmente solo dalle istituzioni. Era onesto e coraggioso, a differenza di tanti altri.
Infatti non aveva la scorta, è chiaro, no? E che se la merita la scorta uno che conduce le indagini sui più pericolosi gruppi della destra estremista, veri e propri killer? Certo che no. Perciò il giudice, quella mattina del 23 giugno del 1980, se ne stava lì ad aspettare l’autobus 391 per andare a piazzale Clodio, al suo ufficio. Gli spararono da dietro, ovviamente, quei pazzi e vigliacchi, alla nuca.
Un fotografo, il primo che giunse sul luogo, scattò alcune fotografie: in una si vedeva una scarpa con un buco nella suola. È qualcosa di significativo. Perché me lo immagino il tipo: la moglie gli avrà detto mille volte: «Mario, non puoi andare in ufficio con le scarpe bucate. Andiamo a comprarle, che ci vuole?». «Va bene, domani, domani andiamo…» avrà risposto lui, distrattamente, con la testa tra le nuvole, cioè con la mente occupata dal lavoro, dalle inchieste, dalle cose da fare, dalle persone da interrogare. Volete che pensasse alle scarpe?
Ecco, a Teresa gli raccontavo del giudice Mario Amato e del perché vado a innaffiare la piantina sotto il monumento a viale Jonio. Le dicevo di lui e delle tante menzogne e ingiustizie e violenze che ci stanno intorno, e alla fine ho detto: «Ecco, invece di scrivere il Diario sul giudice ho raccontato di lui a te, non è la stessa cosa?».
Almeno un accenno, qui, lo dovevo fare. Non si può pensare sempre alle faccende tristi e dolorose, d’accordo, altrimenti soffriamo troppo. Giusto scherzare e alternare il serio e il ridicolo, il bello al volgare, come faccio in questo mio Diario. Però non possiamo dimenticarlo, il giudice, e dobbiamo agire e pensare come ci insegna la Bhagavad Gita: essere presenti, combattere, non rinunciare alla propria libertà, ma senza provare dolore, come se fossimo più in alto di noi stessi, per vedere come siamo capaci di affrontare ciò che dobbiamo affrontare, con distacco, senza pensare a vincere o perdere, quasi fosse un modo per sperimentare, per conoscere, come fossimo un’altra persona da quella che agisce, come fosse un gioco…