Poesie e prose poetiche


Questo dolore – lacrima, marea 
Che sale all'orizzonte, palpebra 
Chiusa o aperta alla visione: 
Il bosco, la gonna di raso, 
Il sasso per il gioco nel torrente – 
Questo dolore è per dire di te, 
Oh piccola dea, che tutto vuoi 
Senza concedere niente!




Vieni, canta, inizia la commedia! 
Conosciamo ormai la tua mania, 
Lo strano desiderio nel tuo canto: 
Placida ondeggi e scivoli sui fiumi... 
Ignota scena in mezzo alla foschia. 
Ricominciamo il gioco, ritentiamo! 
E finalmente giungano le risa 
A noi che sulle fronde ti cerchiamo!




Quando fuggimmo nell'alba d'agosto, 
Lungo i sentieri trovammo la dea. 
Il nostro destino: l'amore,  
La nuvola bianca ch'esplode
Lenta nell'azzurro divino.  
A volo radente l'uccello dettò 
Le parole della nostra canzone.




Corone d’alloro sul tuo capo di giada, 
Mia limpidissima Aurora! 
Un bacio è una corrente di fiori: 
Cos’è la gloria? 
Io non conosco le virtù del canto.   
Vengano gli azzurri, le rose, 
La trasparenza dei fiumi! 
È la felicità delle parole.



Forse non lo sai, ma io ti sto aspettando.
I brevi rumori, le sporadiche voci dal cortile, plasmano il silenzio di questa casa, lo ritagliano.
Inganno il tempo con lavori da poco: batto i chiodi sulle travi del tetto, provo a riparare una lampada… Oppure leggo, o meglio rileggo le pagine più amate. Vado a cercarle sugli scaffali, a scovarle nel mucchio, in una specie di caccia al bello e al vero.
È una solitudine perfetta. Eppure so che l’equilibrio dipende da questa lunga pazienza. Un monaco, un eremita, formerebbe in tale modo la sua preghiera, sicuro che Qualcuno lo ascolta, lo invita. Attesa contro attesa.
Io aspetto te; che sei vera, ma come in sogno.
Forse non lo sai, ma io scrivo per stupirti, per offrirti questo limpido disegno di parole, questo calmo abbandono.


Albero, clamorosa immagine terrena, e celeste. Terrena, perché affonda la sua verità. Celeste, perché alza le sue braccia per salutare il mondo. (Il mondo, questo lungo poema a cui hanno tolto le parole). Albero come conoscenza, dunque, per noi che lo contempliamo, come risposta all’incomprensibile travaglio uterino, ai rimorsi della vecchiaia, alle strane voglie che ci prendono quaggiù, sotto le stelle.

Rovesciamo allora l’albero per ritrovare il cielo in terra e i rami a fare da radici. Sì, sì: le radici come rami e la terra come un cielo. Soltanto in questo modo, forse, comprenderemo le ragioni terrene e quelle degli astri che girano intorno al nostro destino, remotissimi. Pronunciando al contrario il mondo, intenderemo ciò che vuole la zolla e ciò che vuole la foglia. Zolla, foglia, radice che s’allunga nell’aria, ramo che penetra nel nostro cuore… Noi siamo capaci d’immaginare, di meditare, di rovesciare tutto e anche di fare silenzio perché ciò che resta alla fine è la nostra muta presenza davanti a simili cose o visioni.

Albero, figura vivente che tiene saldo il paesaggio. Più rispetto dovremmo a questa creatura del cosmo. Tiene fermi e saldi anche noi se ci mettiamo in piedi vicino alla corteccia, e desideriamo insieme ad esso respirare. I suoi respiri saranno i nostri respiri, i suoi frutti saranno i nostri frutti.

Anche questo è un frutto che viene dalla grande quercia che sto osservando, anzi adorando: questo sentire, pensare, essere felice di pronunciare la parola albero… Un frutto maturo, caduto in terra quand’era il tempo giusto e la circostanza adatta.

Io lo raccolgo per darlo a te, lettore.



C'è l’angelo che vede ciò che mai riusciremo a vedere. Quello che ascolta ciò che non siamo stati capaci o che non vogliamo assolutamente ascoltare. C’è l’angelo che ci accompagna nella fretta e quello che ci sostiene nella lentezza, nell’attesa paziente, nella meditazione accanto al camino della casa in campagna. E se non abbiamo né camino né casa in campagna, non importa: insieme al nostro angelo ce ne staremo accanto al televisore dove immagini e suoni danzano e crepitano come fiamme e braci, con in mano un bicchiere di vino e il sigaro tra le labbra, osservando la nostra gatta che, in aiuto di quell’essere invisibile, fa da sentinella agli oggetti, alle persone, ai demoni…

Se tu cammini lungo le vie della città, non credere di essere solo: c’è un angelo che ti precede o che ti segue. Poi c’è l’angelo che ci procura ciò che è necessario per renderci felici. Quello che ci salva. E perfino quello che, un giorno, ci ucciderà.



Viaggiare su e giù per la nostra memoria, intorno al viso di lei, pieno di rughe come una terra crepata sulla quale bisogna avanzare. Nascono così le parole, forme vive che germogliano nei nostri cuori e spuntano in superficie, sul soffice prato dove corriamo.

Cosa vogliono quei nemici invisibili, lanciati a tutta forza, quei mangiatori di anime, diavoli, che vogliono ammutolirci? Noi resistiamo, cocciuti, poiché la malattia ci tiene in equilibrio, ci fa danzare in aria e cantare. Noi viviamo e non viviamo, ma questa condizione neutra favorisce una capacità, un talento, altrimenti impossibile, inconcepibile.

Gli stregoni in camice bianco infilano aghi nelle vene, parlano ai nostri fantasmi, però inutilmente: la penitenza è il nostro lavoro, la nostra stessa ricompensa. Noi siamo radicati nella colpa. Quando sottili strumenti ci solleticano, i segreti messaggi vengono lanciati verso l’universo intero, in direzione di mondi sconosciuti e lontani dove i nostri amici – i solitari – sempre in attesa, sono pronti a decifrare e a comprendere.

Perciò resta questo sforzo, questo colore violento, queste forme mai precisamente definite. Si comprende ciò che si riesce a comprendere: nulla è gratis in questo grande magazzino. Bisogna andare, percorrere i lunghi corridoi, cercare l'ultima stanza...

Ecco gli oggetti più cari sulle mensole, i quadri preferiti alle pareti, le persone che ci accolgono a braccia aperte – là in fondo, finalmente.